«È una “separazione” dalla vita del giorno»

di Anna D’Andrea

«A stunning autumnal evening on Brighton beach with the starling murmuration over the West Pier/Una stupefacente serata d’autunno sulla spiaggia di Brighton, con il suono di uno stormo sopra il Molo Ovest» (foto del 27 ottobre 2017 Matt F. Photography da Twitter http://www.mattfreestonephotography.com/). L’unica immagine possibile per la prima parte del racconto “Il maglione autunnale” di Anna D’Andrea

«È sempre più tardi di quanto pensavamo… Allora ci vuole un maglione nuovo. Mettersi addosso le castagne, il sottobosco, i ricci dei marroni… un maglione ampio: il corpo sparirà, diventeremo la stagione… Scegliere il conforto delle malinconie, comprare il colore dei giorni».

(Philippe Delerm: La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita)

È un selfie recente, questo, perciò è a colori, come nei film in cui i flash-back sono in bianco e nero e il presente è colorato, anche se io non ho chiara la distinzione tra una cosa e l’altra, basti dire che si riferisce ad avvenimenti meno lontani.

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Ma, tra trasformarsi e morire, “che differenza c’è”?

di Romain Valentino

Venerdì 27 ottobre torna a Milano “Agenda Brasil”, l’appuntamento con la cultura e il cinema brasiliani che si snoda tra il Mic – Museo interattivo del cinema, lo Spazio Oberdan e altri luoghi della città.  Salutiamo l’edizione 2017, la sesta, che segna la trasformazione di “Agenda Brasil” in un vero e proprio Festival internazionale di cinema brasiliano, con questo articolo di Romain Valentino che lo scorso anno è andato a vedere il film A Família Dionti, arricchendo poi le sue impressioni con frammenti di un’intervista con l’autore e regista Alan Minas.

Un’immagine da “A Família Dionti” il film di Alan Minas che il pubblico milanese ha potuto vedere grazie ad “Agenda Brasil” che anche quest’anno, dal 27 ottobre al 5 novembre, presenta un ricco programma di appuntamenti con il cinema, la musica e la letteratura brasiliani (http://vagaluna.it/)

 “A cinque tese sott’acqua tuo padre giace.

Già corallo son le sue ossa

Ed i suoi occhi perle.

Tutto ciò che di lui deve perire

Subisce una metamorfosi marina

In qualche cosa di ricco e di strano.”

(William Shakespeare, La Tempesta)

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“Voglio vivere così”, una serata al Museo del cinema con l’Associazione Donne della realtà

di Paola Ciccioli

Solitamente non pubblichiamo comunicati, ma questa volta sì! Lo abbiamo trasmesso agli iscritti dell’Associazione Donne della realtà e adesso lo offriamo a chi ci segue in giro per l’Italia (e non solo) con innegabile soddisfazione e tanta gioia. Ci vediamo a Milano il 15 novembre prossimo al Mic – Museo Interattivo del Cinema, che ringraziamo per l’ospitalità, per la «magica serata» dedicata a Giovanni D’Anzi.

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«Perdonami, caro, non mi viene da piangere»

di Paola Ciccioli

Oggi ricordiamo la nascita del drammaturgo americano Arthur Miller (New York, 17 ottobre 1915 – Roxbury, 10 febbraio 2005). Di recente sono stata sollecitata a fare una lettura attenta della sua più celebre opera teatrale: Morte di un commesso viaggiatore (Einaudi, 1979). Ecco le mie riflessioni, mi fa piacere condividerle.

Arthur Miller e Marilyn Monroe in una foto di Richard Avedon datata 8 maggio 1957, poco dopo il loro sofferto matrimonio, durato cinque anni. Nel 2017 è uscito un documentario, “Arthur Miller: Writer”, realizzato da Rebecca Miller, la figlia che il drammaturgo ha avuto dalla fotografa Inge Morath. «Grazie all’uso di interviste improvvisate girate nel corso di diversi anni in ambito familiare, emerge il ritratto di un uomo la cui vita è stata segnata dalla paura del comunismo e dalla morte di Marilyn Monroe» (http://www.filmtv.it/film/147279/arthur-miller-writer/)

«Perdonami, caro, non mi viene da piangere. Chi lo sa perché, non mi viene da piangere. Non capisco».

La morte annunciata nel titolo è avvenuta: il commesso viaggiatore Willy Loman è uscito dalla scena della propria vita e da quella della sua famiglia. Linda, la moglie, ha chiesto di poter rimanere sola e nella difficoltà che ha di lasciarsi andare alle lacrime c’è tutta l’aridità che tiene insieme i protagonisti del dramma di Arthur Miller.

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A ciascuna il suo Angelo Sterminatore

di Giuseppina Pieragostini*

Un’immagine da “L’angelo sterminatore”, film del 1962 del regista spagnolo Luis Buñuel (https://www.youtube.com/watch?v=F-eRetOy2m8)

Nella preparazione di questo post, Giuseppina Pieragostini chiede via mail a Paola Ciccioli: «Ricordi il film di Buñuel? Mi è sembrata una perfetta metafora della condizione di migliaia di donne che, oggi, dovendo uscire e percorrere il mondo (dopo millenni di custodia domestica), sono preda di ansie e fobie. Questi disturbi sono la prima ragione per cui si va in uno studio di psicologia». 

Mariagiulia la casalinga, come ogni femmina che si rispetti, è dotata di moto apparente.

In realtà asseconda una vocetta dispotica che non sa se collocare nella sua testolina confusa o in qualche angolo recondito della casa e che richiama inspiegabilmente quella di Romeo Indicchia il pavone, suo signore e padrone e per certi versi evoca quella del compianto commendator Puchini suo padre. Quando esci, ricordati di: buttare la spazzatura, di prendere le chiavi altrimenti per rientrare devi disturbare Olghina la figliastra, che potrebbe fare orecchie da mercante, di portare le scarpe della suddetta rampolla dal calzolaio che qualcuno, o qualcosa, deve averne addentato i tacchi, di passare allo studio medico per ritirare le ricette, di prendere i pantaloni di Romeo in lavanderia che se li cerca è meglio che li trovi, di ritirare all’edicola il fumetto western lettura e diletto dell’uomo di casa, di comprare il riso soffiato per il cane al negozio per animali che il supermercato spesso ne è sguarnito e comunque non ha quello con le verdure, di passare a prenotare il parrucchiere per Olga che ne ha perso il numero di telefono, di ritirare la raccomandata all’ufficio postale che tanto è la solita multa per Romeo automobilista temerario, di comprare il mistrà per il medesimo e il polpettone di tacchino al supermercato. Giacché ci sei, prendi un cespo d’insalata fresca da mischiare con quella che hai in frigo, a proposito, non ti scordare il detergente specifico per pulire il frigorifero e due sigarette di filo di due diversi toni di blu che puoi trovare su qualche bancarella per risparmiare.

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“El Aleph” di Borges, un vinile di Cat Stevens e il ritorno da Vigo con frammenti di destino

di Romain Valentino

Gli alfarrabistas stanno risentendo negativamente del massiccio afflusso turistico in Portogallo e in particolare a Porto. Alcuni di questi collezionisti-rivenditori di libri usati sono costretti ad abbandonare le loro caratteristiche attività a causa dell’aumento degli affitti. Spiega l’autore del post Romain Valentino: «I movimenti “O Porto não se vende” e “Habita Porto” sono tra i più impegnati a rendere lo sviluppo turistico realmente un bene a lungo termine per la città e i suoi abitanti». (https://www.facebook.com/portonaosevende/) La foto del post è tratta da https://www.dn.pt/portugal/interior/outra-livraria-ameacada-em-lisboa-ulmeiro-em-risco-de-fechar-5021819.html

Riprendiamo il viaggio in Portogallo con il filosofo musicista Romain Valentino che, in compagnia della sua amica (della quale conosciamo l’iniziale del nome: “L.”), arriva in un alfarrabista di Vigo per poi tornare a Porto con due libri e un universo di ricordi.

L. era, più che una frequentatrice di alfarrabistas, una compratrice compulsiva quasi patologica di libri usati, con conseguenti problemi di spazio in casa, necessità di inventari, e lunghe code di lettura. L. ha amato molto a suo tempo Il favoloso mondo di Amélie, ha adorato passare lunghi pomeriggi a leggere tra gli antichi scaffali parigini della libreria Shakespeare & Co. (di fronte ai famosi bouquinistes di bordo Senna), ha bevuto molte cañas e copas ascoltando rock dal vivo nella molto rock Vigo, della cui età d’oro rimangono i tossicodipendenti sopravvissuti a elemosinare per le strade e i negozi di vinili usati. In uno di questi negozi, un po’ libreria alfarrabista e un po’ mercatino delle pulci, seguii L. durante un giro turistico molto personale della città. Continua a leggere

Alfarrabista: la parola che mi riporta alle librerie di Porto e a una gentile donna solitaria

di Romain Valentino

Mani in tasca, mentre vaga con lo sguardo nelle bellezze e i colori di Porto, Jean Marie Valentino è fotografato dalla moglie Marie-Paule Bernard. Lo scatto è del 2015, quando i genitori dell’autore di questo post sono andati a trovare Romain che per ragioni di studio era nella “capitale del Nord”. Intanto, sono sempre di più gli italiani che vanno a vivere in Portogallo (anche per godersi una pensione esentasse): http://quifinanza.it/pensioni/portogallo-nuovo-eden-dei-pensionati-italiani-ecco-perche/58231/

Cresce in modo esponenziale il numero di italiani che si trasferisce in Portogallo per motivi fiscali. Romain Valentino, filosofo e musicista, ci è andato invece per fare l’Erasmus ed è stata la città nella quale ha vissuto un anno, Porto, a “trasferirsi” nel suo cuore. Appare evidente da questo racconto che pubblichiamo in due parti.

“Alfarrabista”. Alfa come ‘α’, un accenno di deserto incastonato al centro: le prime volte che lessi questo termine nel settembre del 2015 su vecchie insegne di negozi polverosi della baixa di Porto (per me allora esotica e misteriosa) stimolava fortemente la mia fantasia, e, prima di scoprirne l’effettivo significato, lasciai passare abbastanza tempo da dover fare ancora oggi un piccolo ma significativo sforzo per ripescarlo dietro quei prodotti vaghi dell’immaginazione che il termine continua a richiamare alla mia mente. Ma se questa parola non si riferisce direttamente ad un mondo di alchimisti e antichi saggi da mille e una notte, il suo significato si mantiene in un ambito alquanto letterario, affascinante e perfino iniziatico.

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Attraversando il verde della campagna cremonese, verso il rosso “ponsò” del Genovesino

di Luca Bartolommei

Del Genovesino, al secolo Luigi Miradori (c. 1605 – 1656) il “Riposo nella fuga in Egitto” datato 1651. Cremona, Sant’Imerio. La mostra a lui dedicata è stata prorogata al 4 febbraio 2018 presso il Museo Civico Ala Ponzone di Cremona (www.mostragenovesino.it). Altre immagini e notizie nell’Agenda del blog

Attraversiamo un bel ponte di ferro sul Po, lungo qualche centinaio di metri, e da Castelvetro, in provincia di Piacenza, siamo a Cremona, diretti al Museo Civico Ala Ponzone, dove ieri si è inaugurata, alla presenza del sindaco Gianluca Galimberti e dell’assessora alle Culture della Regione Lombardia Cristiana Cappellini, la mostra “Genovesino – Natura e invenzione nella pittura del seicento a Cremona”.
Circa cinquanta sono le opere di Luigi Miradori (c. 1605 – 1656) che rimarranno esposte fino al 4 febbraio 2018.

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«E tu ce l’hai un sogno?»

di Antonio Ferrara*

Steve Jobs ( San Francisco, 24 febbraio 1955 – Palo Alto 5 ottobre 2011) ritratto in un momento di vita in famiglia con la moglie Laurene Powell e i tre figli Eve, Erin e Reed  http://www.melablog.it

Stefano Lavori si rifugia in garage per restarsene da solo con l’omonimo in versione americana Steve Jobs, il genio della tecnologia scomparso il 5 ottobre 2011 all’età di 56 anni. L’inventore dell’Ipod, dell’Ipad e del touch screen gli racconta dei suoi genitori adottivi, degli studi irregolari, delle amicizie e dei tradimenti, dell’amore e del cancro. E incita Stefano, insieme con tutti gli adolescenti come lui, ad essere “affamato e folle” (stay hungry, stay foolish), esortazione che il fondatore della Apple rivolse in un celebre discorso agli studenti di Stanford. Ottima lettura, anche per i genitori, che ha però un non trascurabile difetto. Sembra che a sognare in grande debbano essere soltanto i maschi, visto che in questa storia alla sorella di Stefano Lavori è riservato lo stereotipato ruolo di rompiscatole eternamente attaccata al cellulare. (Paola Ciccioli)

– E allora cosa? – dissi, e la voce mi venne fuori come un piccolo grido.
Per via del mio grido Steve diede una capocciata contro il fondo della lavatrice. Fece un tac sordo di zucca dura contro metallo.
Finalmente tirò fuori la testa dalla lavatrice. Si tirò su in piedi massaggiandosi la testa. Prese lo straccio per pulirsi le mani. Non la finiva più di pulirsele., se le puliva e mi guardava, e non parlava.
La lampadina che pendeva dal soffitto gli faceva scintillare gli occhiali.
– È un bel voto, cinque, no? – dissi.
– Ti accontenti, Stefano, ti accontenti – rispose. – Io al tuo posto mi vergognerei.
– Come sarebbe?
– Sarebbe che cinque è un voto da schifo, Stefano, non ti sembra?
Non dissi niente.
Non me l’aspettavo.
– Insomma, ci tieni ad andar bene in matematica o non te ne frega assolutamente niente? Se non te ne frega lascia perdere.
– Ci tengo…
– E allora dacci dentro, no? Cosa aspetti? Io e il mio amico Woz ci tenevamo a diventare quello che
siamo diventati. E io ci tenevo più di lui. Ci davamo dentro, a studiare i microchip e le schede madre. Ci lavoravamo giorno e notte. E poi domenica 29 giugno 1975 Woz schiacciò un tasto e vide che la lettera che schiacciava compariva sullo schermo! E la cosa non era mai successa prima, capisci?
– Quindi cosa hai fatto?
– Cominciai a tempestarlo di domande. Il computer si poteva collegare ad altri? Si poteva aggiungere un disco di memoria? Insomma era nato l’Apple I. Solo che Woz regalava a destra e a sinistra copie dei suoi software, e io non volevo. D’altra parte nessuno aveva tempo di mettersi a progettare da solo dei computer. “Perché non ci mettiamo a progettare computer?” gli proposi. Accettò.
Funzionava proprio così: ogni volta che Woz progettava qualcosa io trovavo il modo di ricavarne un po’ di soldi per tutti e due. Ci sapevo fare, con gli affari. Decidemmo di aprire un’azienda tutta nostra, ma per cominciare ci volevano dei soldi. E così Woz vendette per cinquecento dollari la sua calcolatrice HP e io vendetti per millecinquecento dollari il mio furgone Volkswagen. Adesso
avevamo il capitale per cominciare. Per inseguire il nostro sogno di scienziati e imprenditori.
– Ma, a proposito, Stefano: tu ce l’hai un sogno?

*Tratto da Steve Jobs, “Affamato e folle” di Antonio Ferrara (Raffaello Ragazzi, 2016)

«Mi chiamo Mercedes Sosa, sono argentina»

di Rodolfo Braceli*

Mercedes Sosa (San Miguel de Tucumán, 9 luglio 1935 – Buenos Aires, 4 ottobre 2009) in una fotografia degli Anni ’60 scattata da Annemarie Heinrich, fotografa tedesca naturalizzata argentina, morta a Buenos Aires nel 2005,  https://commons.wikimedia.org

Questo estratto della biografia di Mercedes Sosa pubblicata in Italia da Giulio Perrone Editore è stato scelto da Francesco Pulitanò che, per l’Associazione Donne della realtà, sta preparando un omaggio alla cantora sudamericana di cui oggi 4 ottobre ricorre l’ottavo anniversario della scomparsa.

Tutto finisce ed anche il mio esilio che mi sembrava eterno finì. Dopo le dieci e mezza della sera del 18 febbraio 1982, mi trovavo sul palco dell’Opera, a Buenos Aires. Avevo paura, una grande paura di restare afona, come era successo durante il breve soggiorno in famiglia poco tempo prima. Cercai di restare sola nel camerino, di dimenticare quello che succedeva fuori.

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«Così, in un deposito di cianfrusaglie, ho trovato le foto di Vivian Maier»

di John Maloof*

New York, 1954. Così, semplicemente, è intitolata la fotografia scattata da Vivian Maier, esposta fino a domenica 8 ottobre nella Loggia degli Abati di Palazzo Ducale a Genova, all’interno della mostra, promossa da Civita, dal titolo “Una fotografa ritrovata” http://www.mostravivianmaier.it

Nel 2007, mentre lavoravo a un libro sulla storia degli abitanti di Portage Park, una comunità nel Nordest di Chicago, mi sono imbattuto casualmente nell’archivio fotografico di Vivian Maier. La serie di eventi scatenata da questa scoperta ha scombussolato non solo il mondo della street photography ma anche la mia vita. Ciò che è cominciato come una sfida personale ha ben presto suscitato l’interesse del pubblico e mi ha portato negli ultimi tre anni a dedicarmi all’archiviazione e alla conservazione dell’ampia opera della Maier, rimasta sconosciuta per più di mezzo secolo.

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Fragola, cioccolato e verità

di Maria Elena Sini

Doppia moneta, libertà di espressione e discriminazione degli omosessuali. Nella terza e ultima parte della sua riflessione su Cuba, Maria Elena Sini tocca questioni troppo spesso “oscurate”.

Un altro aspetto controverso di Cuba è il doppio regime monetario in vigore nel Paese caraibico: il peso cubano (Cup), utilizzato principalmente dai cubani, i quali ricevono lo stipendio dalle imprese nazionali e la pensione in questa valuta, e il peso cubano convertibile (Cuc), utilizzato dai turisti e dagli stessi cubani come pagamento di benzina, alberghi, ristoranti e della maggior parte di cibi e prodotti d’importazione. Le banconote per i turisti valgono più o meno come l’euro mentre quelle locali valgono molto poco. Per questo a Cuba sopravvive un’enorme economia sommersa, nera e parallela. Non sorprende quindi che anche chi ha una casa, un lavoro e una vita assicurata dalla mano dello Stato, spesso tenti la fuga per mare e cerchi di arrivare in Florida alla ricerca di migliori condizioni di vita.

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Le donne cubane dettano legge

Testo e foto di Maria Elena Sini

«Oggi le donne costituiscono la maggioranza dei giudici cubani, degli avvocati e procuratori, degli scienziati, dei tecnici, degli operatori della sanità pubblica e dei professionisti», scrive Maria Elena Sini in questa seconda parte del suo interessante e completo approfondimento

Lavoro, istruzione, diritti: prosegue il viaggio di Maria Elena Sini nelle contraddizioni di Cuba. Mentre, come abbiamo sottolineato già ieri nella presentazione del suo meditato reportage, in queste ore gli Stati Uniti di Donald Trump hanno ordinato al 60 per cento dello staff dell’ambasciata americana di lasciare l’Avana.

Descrivere il fascino dei paesaggi cubani e la cordialità della gente è facile, ma all’inizio di questo racconto ho premesso che trovavo difficile parlare della mia esperienza a Cuba perché non si può dimenticare che questo Paese, caratterizzato da tanta bellezza e gioia di vivere è governato da un regime che limita alcune libertà fondamentali. È innegabile che la Rivoluzione Castrista ha messo fine al governo di Fulgencio Batista, corrotto e legato alla mafia. Il dittatore si insediò nel 1952 con un colpo di Stato che, reprimendo ogni opposizione, abolì il diritto di sciopero, ripristinò la pena di morte e sospese le garanzie costituzionali. In quegli anni le condizioni di vita della nazione erano pessime: un terzo della popolazione viveva nella sporcizia in baracche, spesso senza elettricità o servizi igienici, vittima di malattie parassitarie. Non esisteva un servizio sanitario e veniva negata l’istruzione.

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