Le Marche e la musica, cantando affacciati al “balcone”

di Luca Bartolommei

Il “Cristo delle Marche”, scultura di Nazzareno Rocchetti alla Domus San Bonfilio di Cingoli, nel Maceratese. Questo è il luogo scelto per il secondo appuntamento di RisorgiMarche, l’iniziativa ideata da Neri Marcorè per tenere viva l’attenzione sui territori colpiti dal sisma       (http://risorgimarche.it/eventi/07-luglio-2017/)

Manca pochissimo: tra poco (ore 16,30) Malika Ayane si esibirà alla Domus San Bonfilio, a Internone di Avenale, frazione del comune di Cingoli, per il secondo concerto di RisorgiMarche (e Cingoli è notoriamente il “balcone” che si affaccia su tutta la regione). Dopo circa quarantacinque minuti di cammino il pubblico arriverà alla Domus dove potrà ascoltare Malika godendo di un panorama straordinario e della vista del Cristo delle Marche, opera in granito nero d’Africa dello scultore Nazzareno Rocchetti.

L’esibizione sul palco di Cingoli sarà l’unica nel periodo estivo dell’artista milanese, che si prenderà per questa occasione una breve pausa dalla registrazione del suo nuovo disco. Continua a leggere

Una nidiata particolare

di Anna Caltagirone Antinori

Vogliamo essere vicini alle Marche e alla forza dimostrata dai marchigiani in questi mesi molto difficili. Il nuovo racconto della “maestra Antinori” ce ne dà l’occasione e ci permette di tornare ad immergerci – anche soltanto con il pensiero – nei fruscii e nei profumi di quella che è oggi la Riserva naturale dell’Abbadia di Fiastra, tra Tolentino e Urbisaglia.

Bambini giocano e imparano a empatizzare con gli animali che popolano la bellissima riserva naturale che circonda l’Abbazia cistercense, non lontano da Macerata. Proprio nell’Abbazia di Chiaravalle di Fiastra iniziano il 7 dicembre le visite guidate in rima al monastero nell’ambito del Gran Tour Cultura 2017 (http://www.agenparl.com/grand-tour-cultura-2017-viaggio-tra-musei-archivi-e-biblioteche-delle-marche-8-dicembre-2017-18-febbraio-2017/)

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«Per il lavoro svolto, meriterebbe un monumento!»

I ricordi si fissano nella Rete, dalle scatole escono documenti che raccontano le vite delle persone e delle comunità. Noi, qui, a mettere insieme i tasselli del grande e composito puzzle. 

Illustriamo questo post con l’immagine di un libro che è anche un atto d’amore per Urbisaglia e le bellezze delle Marche: “Alla scoperta dell’antica Urbs Salvia” di Francesca Pettinari e Giuseppina Poloni (Giaconi Editore, 2016). Scrivono le autrici: «Questo libro nasce da un miscuglio di tante cose: l’amore per il territorio, l’interesse per la storia, la grande passione per l’archeologia, la volontà di cercare di far capire a tutti, in particolar modo ai più piccoli, quanto sia bello e interessante il nostro passato» (http://www.archeomarche.beniculturali.it/index.php?it/120/museo-archeologico-statale-di-urbisaglia)

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«Il dottor Mariani bussò alla nostra camera all’alba per visitare il bambino»

di Anna Caltagirone Antinori

Continua la galleria dei ritratti firmati dalla “maestra Antinori”

Aggiorniamo anche questo post di Anna Caltagirone con una foto di Mario Mariani, l’amatissimo “dottor Mariani”, inviataci via Facebook da Recanati dalla figlia Antonella. Grazie!

Mario Mariani era il medico condotto di Colmurano, ma aveva anche molti pazienti a Urbisaglia. Anche noi ci affidammo alle sue cure perché la sua serietà ci ispirava fiducia. Era un uomo dall’aria bonaria, dai modi affabili e cordiali. Abitava a Colmurano in una villetta, all’inizio del paese. In casa aveva anche l’ambulatorio dove riceveva i pazienti.

Era mattiniero, prestissimo usciva a fare le visite a domicilio e tutta la mattinata riceveva in ambulatorio. Ci accoglieva col sorriso sulle labbra e come un amico chiedeva notizie di tutta la famiglia. Non metteva soggezione per cui ognuno raccontava i sintomi dei propri disturbi e lui, senza mandarti a fare analisi o lastre, esprimeva la sua diagnosi e ti prescriveva le medicine per curarti.
Dal dottor Mariani si andava per farsi seguire in gravidanza, per il mal di denti, per i reumatismi, per l’influenza, per le indisposizioni e le diete dei bambini: curava tutte le malattie, era il vero medico di famiglia!

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Quando aiutai suor Lina a prendere il diploma di “maestra giardiniera”

di Anna Caltagirone Antinori

I ricordi di Anna Catagirone, “la maestra Antinori”, si snodano attorno a Urbisaglia, sulle colline maceratesi, dove il 7 luglio 2017 nel bellissimo teatro romano prende il via la XXVIII edizione del Teatro classico antico (http://www.comune.urbisaglia.mc.it/)

Un nuovo capitolo di un romanzo vero e in continua stesura.

Venendo da Macerata, arrivati a Urbisaglia, fuori porta sulla sinistra troviamo un edificio circondato da un giardino, intorno un muretto con l’inferriata e un grande cancello: è l’asilo Giannelli Viscardi.

Negli anni ’60 vi risiedeva un gruppo di suore, ciascuna delle quali svolgeva un particolare compito: chi era maestra d’asilo e insegnava ai bambini, chi era inserviente e si occupava della pulizia dei locali, c’era la cuoca che preparava i pasti per tutti. Coordinava, con competenza, il loro lavoro la superiora suor Maria Ruffini e tutto filava liscio.

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Figli (e cognomi) di madri e padri

«È illegittima la norma che impone l’attribuzione automatica ed esclusiva del solo cognome paterno. I neo genitori, quindi, possono ora attribuire al loro figlio, di comune accordo, il doppio cognome  – paterno e materno – al momento della nascita. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale».

Questo si legge sul sito del Ministero dell’Interno. La questione del doppio cognome è questione di diritti, dunque deve assolutamente interessarci. Per questo pubblichiamo le riflessioni della Rete per la Parità su una recente circolare che, anziché riempire vuoti interpretativi, sembra voler aggiungere dubbi a vecchi ritardi.

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La sana ribellione di una “certa” età

di Maria Elena Sini*

Una foto del 1962 di Vivian Maier della quale il 23 giugno si apre una mostra al Palazzo Ducale di Genova © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York. (http://www.vivianmaier.com/events/vivian-maier-palazzo-ducale-di-genova/)

Sarà che mi avvicino all’età in cui posso essere definita “anziana” ma il tema mi interessa. È vero che ho una “certa” età ma quando in astratto penso alla mia fascia di età non mi colloco nel segmento giusto, mi percepisco come più giovane. Se devo essere precisa mi sento più giovane della mia età anagrafica da un punto di vista fisico, perché sono piena di energia, non mi stanco facilmente, mi sembra di essere forte. Se invece penso all’aspetto mentale a volte mi sembra di essere vecchia, mi accorgo di aver visto tante cose, di aver attraversato tanti periodi della mia vita personale e della vita dell’umanità in generale. Ma pur con questo diverso tipo di percezione sono strenuamente convinta che si possa continuare ad essere utili, ad imparare, ad essere creativi sino alla fine del tempo che ci è concesso.

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«Ma io non voglio avere hobby, voglio avere passioni»

di Giuseppina Pieragostini

Arrivederci, Susan. E grazie, Giuseppina Pieragostini: ci siamo divertit* nel vedervi fare da spalla l’una all’altra… Susan Sarandon continua a ripetere, anche attraverso la T-shirt che indossa: “Don’t dream it. Be it”. L’attrice, che di anni ne compirà 71 a ottobre, è schierata con la comunità Lgbtq, tanto più ora che il presidente degli Stati uniti Donald Trump si è rifiutato di proclamare giugno “il mese dell’orgoglio gay”, spingendo perfino Facebook a introdurre i nuovi “like” arcobaleno (http://www.milanopride.it/site/home/)

Terza (e ultima) parte del racconto L’età dell’indecenza:

L’assenza di obblighi familiari, professionali, sociali, religiosi, ti fa oscillare come una pianticina sradicata e quasi ti aggrappi al guinzaglio del cane per non finire lunga per terra.

Tra voi s’è stabilito un accomodamento basato sull’accontentarsi reciproco: lui avrebbe voluto essere il cane di Gualtiero e tu avresti voluto seguitare a badare al suo padrone.

Mentre ti strascini in giro con questo lascito molesto, comunque sempre meno di un marito, scopri l’infinita spasura di donne che hanno varcato l’infame soglia. Non le avevi mai notate, nemmeno supponevi che esistessero; con pertinacia ti sei allenata a riconoscerle leggendo in loro i segni che non vorresti vedere in te. Le segui, le sorvegli: come si veste, come parla, di cosa parla, come si muove una donna che ha sessant’anni? Impari docilmente su di loro e da loro; cerchi di individuare quale personaggio ti toccherà recitare in questa commedia dell’arte della sopravvivenza.

Appaiono equamente suddivise per tipi come i gatti: certosino, siamese, soriano, persiano, europeo e come per i gatti, i comportamenti sono dettati dalla razza di appartenenza.

Ci sono le irriducibili, sessantenni che prive del velo pietoso degli ormoni, cercano di riacchiappare per la coda qualche scampolo di femminilità, con il risultato di mettere in scena continuamente l’evocazione di un’assenza: i capelli troppo biondi, l’abbigliamento troppo provocante, le scollature abissali; i gioielli vistosi a distogliere l’attenzione.

L’incertezza si denuncia nell’incedere, diventato meno sicuro nel calpestare il mondo: la giovinezza è nei piedi. Come farà Susan Sarandon a caracollare con grazia e coraggio sui suoi tacchi? Forse stringe i denti e va o forse s’è fatta fare prima una puntura di anestetico per piede.

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«Che gli uomini siano diventati meno interessanti di un cesto di lumache, passi»

di Giuseppina Pieragostini

Eccola di nuovo con noi (e nel racconto a puntate di Giuseppina Pieragostini), Susan Sarandon. Qui l’attrice è in una foto dal suo profilo Facebook mentre pubblicizza il film da lei prodotto “Deep Run”, documentario su un giovane transessuale alle prese con l’arretratezza culturale della zona rurale del Nord Carolina in cui vive (http://www.deeprunfilm.com/)

Continua il racconto L’età dell’indecenza:

Tu che hai sempre considerato il soma solo in quanto supporto della brillantezza della mente, al massimo una sede di personalità e stile, ti ritrovi come un segugio ad inseguire ogni segno della capitolazione del corpo, che sembra prendersi le sue rivincite su tutte le volte che non lo hai massaggiato, tonificato, coperto di fanghi miracolosi, bendato con balsami ed unguenti profumati. Mica come Portia.

Non ti puoi esimere dallo spiare ogni suo progressivo cedimento; il porco nemico non si lascia intimidire e se lunedì affiorano due venuzze sotto il ginocchio destro, martedì crolla la palpebra sinistra, mercoledì compare una ruga trasversale tra la guancia e la piega labiale, giovedì non puoi più ignorare un accumulo di grasso a un polso, venerdì si evidenzia la deviazione tanto improvvisa quanto sincrona degli alluci, sabato la cianciapella dei gomiti sbatte contro l’osso. Domenica festa. No, domenica sera compare una bella macchia bruna, l’ennesima, sul dorso della mano sinistra. Se qualcuno pensa che questo sia un artifizio letterario, si sbaglia o semplicemente non ha sessant’anni o si chiama Portia.

Il tutto si va a sommare al pieghettato sotto alle ascelle, al ballonzolo bizzarro del rivestimento carnoso dei femori, nonché di quello degli omeri, ai due corpi estranei che dipartendosi dalla mandibola vanno a ricongiungersi al collo.

C’è in questa contabilità dei guasti, impietosa ma non abbastanza da essere esaustiva, l’astioso compiacimento di chi ha sempre saputo che sarebbe andata a finire così, anche quando zompettavi a destra e a manca e macinavi chilometri e chilometri a piedi, a nuoto, in bicicletta sulla moto, sulla barca, in aereo. Neanche avessi il diavolo alle calcagna. Allo stesso modo come sapevi che ciò che ti teneva unita a Gualtiero non erano le presunte affinità elettive, ma solo il raccontarvi le stesse bugie e che un giorno avrebbe trovato una più giovane con cui raccontarsele. Adesso che la bestia ti ha raggiunto, non hai nemmeno voglia di affrontarla; te ne manca, più che il coraggio, la convinzione che ne valga la pena.

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«Sessant’anni non è un’età, è una sassata»

di Giuseppina Pieragostini*

Sessantanni non è un’età, è una sassata.

Susan Sarandon durante la conferenza stampa di presentazione del Premio Kinéo svoltasi all’Hotel Excelsior di Venezia lo scorso 3 settembre. All’attrice americana è stato assegnato il Kinéo International Award. Nata a Jackson  Heights NY il 4 ottobre 1946, compie oggi 71 anni. Congratulations! Foto con il cellulare di Luca Bartolommei.

Anzi una lapidazione con sessanta sassi di quelli belli grossi che vanno diritti al bersaglio. Se sei fortunata, un colpo secco che arriva a tradimento mentre pensi che ancora tutto debba accadere, magari anche l’amore.

Ma, dico io, ti sei guardata?

Prima di tutto cammini come chi non ha più niente d’interessante tra le gambe; le forme, poi, ti si arroccano protervie nei posti meno adatti ed è così che ti ritrovi quei fianchi risaliti imperterriti verso le ascelle, per non parlare delle ginocchia sempre più simili a due paracarri, le braccia ingrossate nella parte sbagliata e le guance che proliferano a comodo loro. E non sarebbe finita, ma c’è un limite a tutto. Pure alla fenomenologia.       Le attuali cinquantenni hanno conquistato, a spinte e zampate, un posto nell’immaginario collettivo se non proprio amoroso almeno ammiccante, dando origine a un esercito di nuove amazzoni senza macchia e senza paura che guardano dritte in faccia. Tu hai percorso quegli anni di buon passo esibendo la zazzera screziata neanche fossi tornata a essere quella ragazza prepubere piena di sogni; mentre Portia, sempre lei, la cara nemica di una vita, non scendeva dai suoi tacchi a spillo e cambiava ogni tre giorni, foggia e colore ai capelli.

Una certa inquietudine s’insinua verso la fine del decennio; se la colonizzazione dei cinquanta ha spinto più in là la frontiera della terra di nessuno, quella seguita a stendersi incognita e implacabile e se non hai la fortuna di crepare prima, ti tocca farci i conti. Hai voglia ad aggrapparti agli ultimi scampoli di età, a puntare atterrita i piedi sull’orlo del baratro; persa la tracotanza, le donne entrano stordite e incredule nei sessanta. Fino a un attimo prima l’età era un vezzo da mostrare o nascondere a seconda del gioco e un attimo dopo un padrone implacabile.

Improvvisamente il tempo non è più infinito e il futuro ti scoppia dentro la pancia come un palloncino punto con l’ago; sarà per questo che tuo marito s’è volatilizzato poco dopo, per riagganciarne un pezzo in compagnia di quella shampista sarda che funge da assistente. È successo anche a voi, che avevate sempre disdegnato i luoghi comuni, e che mai, avreste permesso all’ovvio di stendere la sua tovaglia a fiori sulla vostra vita.

Perché tanto vale che ti rassegni: i sessantanni riguardano solo le donne e solo per loro si presentano all’incasso tutti i conti rinviati a ogni scadenza, mentre i maschi, loro, passano di moratoria in moratoria come gli evasori fiscali.

Consumata l’euforia dei cinquanta, si assiste alla nascita di una nuova genia, dove sono tutte suore e zitelle, pure quelle che il marito ce l’hanno ancora. L’inesorabile trapasso degli ormoni della dipendenza, riscrive tutta la storia al contrario e gli uomini scappano come lepri davanti a donne che non hanno più bisogno di cantargli la novena. Ma, come farà Susan Sarandon?

«Il banale è entrato nella mia vita» sospirò tuo marito Gualtiero nell’annunciarti la sua dipartita, senza chiedersi cosa sarebbe entrato nella tua. Ed è stato più lo scoramento che il dispiacere; prima che aggiungesse altro, sei andata a prendere il guinzaglio per portare fuori Groucho. «S’intende che il cane resta a farti compagnia» ha miagolato lui. Hai detto soltanto «Non ne dubitavo» e sei uscita con il riottoso alle calcagna e con la consapevolezza che l’insignificante quadrupede rappresentava il primo embrione della campagna di disimpegno del professore tuo marito già allievo del Professore tuo padre. Te lo lasciò insieme al gomito del tennista e al ginocchio della lavandaia ché tanto al peggio eri già abituata.

Può succedere anche questo: che i sessantanni ti affranchino da certe incaute dipendenze che prima fai di tutto per procurarti e poi passi una vita a desiderare di liberartene e quando ormai ti sei rassegnata, zàcchete ti ritrovi nuda e cruda. Che gusto c’è ad avere sessantanni e non dirsi la spiccia verità? Tuo padre amava solo i suoi libri, tua madre adorava solo tuo padre, tuo marito venerava solo tuo padre e la carriera e tu facevi finta, con tutti e tre, che non ti serviva niente. Finalmente puoi accettare di chiamare le cose con il loro nome; senza pensare per questo, di morire fulminata. Se la vanità del lessico famigliare era stata insufficiente a suo tempo, a metterti al riparo dalla disillusione, tanto meno è capace ora a difenderti dall’irrimediabile mutamento del corpo. Le prime ad accorgersene sono state quelle stronze delle zanzare: fino alla scorsa estate tutte addosso come api attorno al miele, poi, improvvisamente, più niente. Il tuo odore era cambiato e denunciava un afrore sconosciuto, come se un’estranea ti si fosse rintanata sotto le ascelle. Allora ti sei annusata fin nei recessi; pure lì un odore privo di ogni messaggio che non fosse il disincanto.

La trasmigrazione dei peli è stata la seconda spia impossibile da ignorare: una vita ad ossessionarti con l’incomoda presenza e a un certo punto quasi tutti passati a miglior vita, chissà dove, chissà con chi. La prima reazione è stato chiederti se il fenomeno riguardasse anche Portia; appena due mesi meno di te e si comporta neanche fosse tua figlia: anche l’età sembra lasciarla a te come faceva a scuola con i compiti in classe. Lei prosegue imperterrita con tutti i capricci, le scollature e i ricci che tu non ti sei permessa neanche allora, tanto che lei ne ha abusato per due, senza vergogna. Mentre in te agiva una sciupafemmina che disdegnava ogni debolezza femminile, per di più incoraggiata da una cultura dominante dove non si andava dal parrucchiere e neanche dall’estetista, non ci si spalmava la crema solare, non si mettevano gli occhiali da sole, in compenso si calzavano mutilanti zoccoli di legno. Con conseguenze, alla lunga, raccapriccianti. La sciupafemmina, partorita per necessità e per malinteso, ha sprecato nell’isteria e nell’orgoglio mentale, la giovane femmina che avevi dentro, mentre sembrava ignorare, proprio lì, accanto a te, l’amica e rivale.

Insieme anche all’università, eppure Portia si risparmiò lo sciocco ’68, nessuna parentela o forse molta con l’argomento in questione. Mentre tu stavi al ciclostile, lei si laccava le unghie, mentre tu arringavi le folle con il megafono, lei seduceva il professore di filologia, mentre tu distribuivi volantini ad assonnati e renitenti operai, lei restava a dormire per levigare la pelle, mentre tu partivi a evangelizzare i pastori sardi, lei sfornava un figlio. Il primo di una lunga serie. Anche se accecata dall’ideologia, l’hai sempre saputo che mentre per Portia il centro del mondo coincideva con il punto esatto in cui stava lei, per te era sempre altrove, dove l’ombra lunga del tuo scontento non potesse raggiungerti.

Dietro le persiane chiuse, è rimasta prigioniera una figura di fanciulla che ormai solo tu puoi scorgere; ti guardi allo specchio e gli stessi occhi vedono la stessa ragazza di allora. Finché la tieni sotto il tiro dello sguardo, la tua immagine non muta, appena la perdi di vista, tutti si sentono autorizzati a farne quello che vogliono. Fuori, nel mondo accecato di sole, occhi estranei che non perdonano; non saprai perché ti guardano e cosa vedono. Quando incroci un uomo, magari un giovane uomo, la reazione è quella dell’eterna ragazza scontrosa che inizia un gioco d’amore fatto di repentini avvicinamenti e inaspettate sparizioni, poi ti sovvieni e lasci cadere la veste rubata.

La tua ultima foto per il passaporto ti ha messo davanti a un fenomeno perturbante: il tradimento era talmente vistoso, da far pensare a un errore, sicuramente uno scambio. L’impulso immediato è stato quello di rinviarla al mittente, non perché non fossi tu, ma perché non ti piaceva affatto quello che eri diventata. No, non come, ma proprio la cosa che eri diventata.

Poi quel riflesso di sguincio in una vetrina e il profilo risentito della zia monaca che ti guardava: stesso mento aguzzo e sfuggente, stesso naso aquilino, stessa boccuccia stretta a culo di gallina, identica criniera sulla fronte con la medesima fiezza bianca. I sessantanni hanno la peculiarità di dare corpo ai peggiori fantasmi infantili, anzi, di dargli il tuo di corpo e la strega maligna che si nascondeva sotto le guance di pesca e la bocca di ciliegia, esige che venga onorato il patto della culla. Non per farti gli affari degli altri, ma a Susan Sarandon succede proprio lo stesso?

Neanche bastasse, l’altro giorno un uomo che a te era sembrato vecchio bacucco, tu i maschi seguiti a guardarli neanche avessi sempre venti anni, ti ha ceduto il posto sull’autobus e dubiti che sia stato per galanteria. L’hai fulminato con lo sguardo e sei scesa due fermate prima. Hai ritenuto l’età, un accidente inessenziale, come tutti del resto finché l’anima sa persuadere il corpo a salire come una sirena sulla tolda della nave. Quando bastava uno sguardo, un alito, per sentirla, spudorata e curiosa, snodarsi con un guizzo come una di quelle flessuose strutture metalliche sotto costumi sontuosi.

Per un istante magico e infinito della vita, la coincidenza tra ciò che vuoi essere e ciò che gli altri vedono è perfetta, poi scema impercettibilmente fino a scomparire del tutto. Ora, il corpo, complice delle scorribande amorose, immaginarie le tue, reali quelle di Portia, si è fatto riottoso; l’anima, prigioniera di un involucro che ne ignora le serenate, sprofonda furiosa nelle viscere per non avere nulla a che fare con quella stessa sagoma che tu hai intravisto nella vetrina e da cui hai distolto repentinamente lo sguardo.

I – Continua

*«Gentile Paola Ciccioli, leggendo il blog ho avuto voglia di partecipare e ho pensato che questo racconto potesse essere adatto. È stato pubblicato anni fa su Toilet, è un problema?». Così, via mail, la psicologa e scrittrice Giuseppina Pieragostini, conosciuta a Roma grazie agli amici Eliana Ribes e Silvano Fazi, ci ha generosamente affidato questo suo racconto dal titolo “L’età dell’indecenza” che pubblichiamo in tre parti (in modo da gustarlo tutti meglio e pensarci un po’ su).

«Nemmeno sedici anni e monaca per sempre»

di Donatella Cividini*

Virgilio Ripari, Il mese di Maria, olio su tela, 118 x 179 cm, Milano, Galleria d’Arte Moderna. Il dipinto è stato esposto nella Reggia di Monza in occasione della recente mostra sulla Monaca che ha ispirato anche Alessandro Manzoni (http://www.clponline.it/mostre/la-monaca-di-monza)

E il dodicesimo giorno di settembre la postulante suor Virginia era distesa sul pavimento della chiesa e qualcuno stava togliendo il broccato che l’aveva pietosamente coperta a simulare la sua morte terrena. La luce che filtrava dal rosone della chiesa illuminò la figura snella che si tirava in ginocchio, in sincrono con le altre. Il coro delle consorelle si levava su note acute a sottolineare l’acme della cerimonia. Guardavano tutte dritto davanti a sé, ciascuna perduta nel proprio smarrimento.

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I versi di Michelangelo all’amica poetessa Vittoria Colonna

di Laura Bartolommei

Nota a margine alla visita alla Pietà Rondanini di Michelangelo che ieri, 11 giugno 2017, Laura Bartolommei ha fatto “scoprire” al Castello Sforzesco di Milano ai soci e agli amici dell’Associazione Donne della realtà: grazie!

C’è una poesia di Michelangelo che ieri non ho letto per non dilungarmi troppo, in piedi con quel caldo, ma che vale la pena conoscere per aggiungere un tassello alla comprensione del grande artista. Mi pare che in questi pochi versi si possa rintracciare tutto l’amore di Michelangelo per la sua arte, un bel sentimento di amicizia e il solito drammatico conflitto tra anima (spirito, ideale, infinito, eternità) e corpo (materia, caducità, imperfezione, morte).

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Incontro con la «pescatrice di vite perdute»

di Angela Giannitrapani

Due scatti di Angela Giannitrapani sull’incontro con Maria Rosa Cutrufelli, coordinato da Vittoria Longoni, alla Casa delle donne di Milano. A dialogare con la scrittrice anche Laura Lepetit, fondatrice della casa editrice “La Tartaruga”

Avevo diciotto anni ed ero affamata di storie. Ma non di storie qualsiasi.

A quel tempo, verso la fine degli anni Sessanta, noi ragazze si viveva in una specie di vuoto. Ben pochi, allora, erano i libri che si preoccupavano di testimoniare, documentare o addirittura provare la nostra esistenza nella Storia. A un certo punto però, (difficile stabilire esattamente «quando») cominciammo a stufarci di questa faccenda, cioè di non possedere un passato. Anche se, in compenso, proprio la Storia – qualcuno preferiva parlare di Natura – ci aveva rifornito di un bel piedistallo su cui troneggiare: la famosa  «femminilità». Ma qui si apriva una contraddizione. Perché, Storia o Natura, il fatto è che ciascuna di noi, pur essendo in modo incontestabile una singola entità, si trovava poi a far parte di un insieme, una specie di splendido e ancestrale organismo collettivo chiamato appunto «La Donna». Poesie, canzoni, film, romanzi… Chi mai poteva sostenere che quella «Donna» vivesse in un vuoto? Quante, ma quante opere dedicate a Lei, ispirate da Lei, che ragionavano di Lei, che la svelavano a se stessa! Che altro c’era da aggiungere a tutto quel ben di Dio?

Mi sentivo un po’ confusa. Non sapevo che pensare. Però, sicuramente qualcosa non tornava: avevo l’impressione che il mito della «Donna» non corrispondesse affatto alla vita e all’esperienza delle «donne». Pensa e ripensa, giunsi alla conclusione che quel magnifico singolare era in realtà un dono avvelenato, capace di annullare con il suo peso le nostre varie e «plurali» esistenze. E allora, poiché non volevo più vivere immersa in una femminilità senza tempo, senza volto e senza voce propria, cominciai a cercare, nella Storia, le storie. Divenni una «pescatrice di vite perdute». Così scrive Don De Lillo in quella meraviglia di romanzo che è Underworld: «le donne sono pescatrici di vite perdute».[…]Noi, ragazze di fine anni Sessanta, all’improvviso o forse no, in qualche maniera, non so come, diventammo crocerossine di noi stesse. E, di conseguenza, pescatrici di vite perdute.

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«E allora Sarah, tua moglie, avrà un figlio»

di Antonella Anghinoni*

“Sarah, La principessa” di Antonella Anghinoni, illustrazioni di Alessandra Mantovani (Paoline Editoriale Libri)

La sua famiglia viveva serena nel paese di Ebron a Sud di Gerusalemme, alle Querce di Mamre. In una mattina assolata e afosa, mentre Abraham si trovava seduto davanti alla tenda, gli sembrò di scorgere lontano la figura di tre uomini che si stavano avvicinando. Era circa mezzogiorno e il sole era alto nel cielo e con il suo calore bruciava gli occhi, tanto che Abraham se li strofinò meglio per capire se quegli uomini fossero reali o si trattasse di un’allucinazione.

Si trattava proprio di tre stranieri, i loro abiti erano diversi da quelli degli ebrei. Erano quasi giunti alla tenda. Abraham andò loro incontro e s’inginocchiò invitandoli a entrare.

– Permettete che vi faccia portare dell’acqua fresca, così potete lavarvi i piedi.

Era infatti un’usanza ebraica far lavare i piedi all’ospite, giunto dopo un lungo cammino.

– Accomodatevi pure sotto l’albero, vicino alla mia tenda. Vi farò preparare del pane per ristorarvi e poi potrete proseguire il vostro viaggio.

In realtà i tre stranieri erano tre angeli, ma Abraham lo ignorava.

Egli corse da Sarah e disse:

– Presto, prendi del fior di farina, impastala e prepara delle focacce per i tre ospiti.

Sarah era davvero una cuoca eccellente. Ne avrebbe preparato per una capacità di quaranta litri, segno di un’ospitalità generosa come la generosità sovrabbondante di Dio.

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«La vita è qualcosa di più che un gioco di pazienza»

di Franz Kafka*

Dettaglio della copertina di “Lettera al padre” di Franz Kafka (Garzanti 2016): «È come se uno fosse prigioniero e avesse non solo l’intenzione di evadere, cosa forse possibile, ma anche, e contemporaneamente, l’idea di trasformare la prigione in un castello»

Così termina la mia vita con te, per come essa è stata sino a ora, e queste sono le prospettive per il futuro in essa racchiusa.

Se tu ora considerassi, nel loro insieme, le motivazioni della paura che provo nei tuoi confronti, potresti rispondere: «Tu sostieni che io mi renda le cose facili attribuendo solo a te le colpe del nostro rapporto, io invece credo che, nonostante lo sforzo apparente, tu renda la questione se non più difficile, di sicuro molto più vantaggiosa per te. Prima rifiuti anche tu ogni colpa e responsabilità, e in questo il nostro modo di procedere è identico. Ma poi, mentre io attribuisco tutta la colpa a te, cosa di cui sono veramente convinto, ci tieni ad essere allo stesso tempo ”superintelligente” e “superaffettuoso” e assolvere anche me da ogni colpa. Naturalmente quest’ultimo tentativo ti riesce solo in apparenza (del resto non chiedi di più), e fra le righe emerge, nonostante tutti i tuoi discorsi sul carattere e sulla natura, sulla contrapposizione e sul senso d’impotenza, che in realtà l’aggressore non sono stato io e che tutto ciò che tu hai fatto era soltanto un modo per difenderti. Con la tua insincerità avresti già ottenuto abbastanza, perché hai dimostrato tre cose: primo, che tu non hai colpa; secondo, che io sono colpevole e terzo che, grazie alla tua generosità, sei disposto non solo a perdonarmi, ma anche, più o meno, a dimostrare, e persino a voler credere tu stesso che anch’io, seppure contro ogni evidenza, non ho colpe. Questo ti potrebbe bastare ma non ti basta ancora. Ti sei messo in testa, infatti, di voler vivere del tutto alle mie spalle. Ammetto che noi lottiamo l’uno contro l’altro, ma ci sono due modi di lottare. C’è il combattimento cavalleresco, in cui si misurano le forze di avversari autonomi, ognuno combatte per sé, perde per sé, vince per sé. E c’è la lotta del parassita, che non soltanto punge, ma al tempo stesso, per mantenersi in vita, succhia il sangue. Quest’ultimo è il vero soldato di professione, e questo sei tu. Sei incapace di vivere: ma per poterti comodamente adagiare in questa incapacità, senza preoccupazioni e senza muoverti rimproveri, vuoi dimostrare che ti ho tolto ogni capacità di vivere e me la sono messa in tasca. Cosa t’importa ora se sei incapace di vivere, tanto la responsabilità è mia; tu, invece, ti metti sdraiato bello comodo e ti fai trascinare d me, fisicamente e spiritualmente, attraverso l’esistenza. Un esempio: quando, ultimamente, pensavi di sposarti, al tempo stesso, lo ammetti in questa lettera, non lo volevi affatto, ma per non fare troppa fatica volevi che fossi io ad aiutarti a non sposarti, vietandoti il matrimonio a causa della “vergogna” che da quell’unione ne sarebbe venuta al mio nome. Ma un’idea del genere non mi passò neppure per la testa. Anzitutto, qui come in tutti gli altri casi, non volevo essere “di ostacolo alla tua felicità”, e in secondo luogo non vorrei mai che mio figlio potesse muovermi un simile rimprovero. Ma a cosa mi è servito lo sforzo che ho fatto su me stesso per lasciarti libero di decidere se sposarti? A niente. La mia opposizione al matrimonio non lo avrebbe impedito, anzi, sarebbe stato per te un ulteriore stimolo a sposare quella ragazza, perché il “tentativo di fuga”, come tu lo definisci, sarebbe stato perfetto. E la mia autorizzazione alle nozze non ha impedito i tuoi rimproveri, giacché tu dimostri che in ogni caso sono io il colpevole del tuo mancato matrimonio. In fondo però, in questo e in tutto il resto, non hai fatto altro che dimostrare, a mio avviso, che tutti i miei rimproveri erano giustificati e che ne mancava uno, ancor più fondato, e cioè quello relativo alla tua insincerità, al tuo servilismo, al tuo parassitismo. Se non sbaglio, anche in questa lettera emerge la tua natura di parassita nei miei confronti».

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