Fragola, cioccolato e verità

di Maria Elena Sini

Doppia moneta, libertà di espressione e discriminazione degli omosessuali. Nella terza e ultima parte della sua riflessione su Cuba, Maria Elena Sini tocca questioni troppo spesso “oscurate”.

Un altro aspetto controverso di Cuba è il doppio regime monetario in vigore nel Paese caraibico: il peso cubano (Cup), utilizzato principalmente dai cubani, i quali ricevono lo stipendio dalle imprese nazionali e la pensione in questa valuta, e il peso cubano convertibile (Cuc), utilizzato dai turisti e dagli stessi cubani come pagamento di benzina, alberghi, ristoranti e della maggior parte di cibi e prodotti d’importazione. Le banconote per i turisti valgono più o meno come l’euro mentre quelle locali valgono molto poco. Per questo a Cuba sopravvive un’enorme economia sommersa, nera e parallela. Non sorprende quindi che anche chi ha una casa, un lavoro e una vita assicurata dalla mano dello Stato, spesso tenti la fuga per mare e cerchi di arrivare in Florida alla ricerca di migliori condizioni di vita.

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Hillary, commander in chief of all stereotypes

by Roberta Valtorta

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Hillary Clinton and her double. The democrat candidate President of the United States of America, here attending “Saturday Night Live” on NBC, together with actress Kate McKinnon, her imitator                                       (from http://www.chicagotribune.com/)

Is it possible to write a few reflections about a political candidate apart from your personal opinion? I’ll try to.

My intention on this post is to put any kind of ideology apart: I neither want to guess who will be the winner between Hillary Clinton and Donald Trump, nor shoot zero about who’s better or worse. The final aim is to share some observations which this long, unusual and sometimes grotesque campaign inspired me, nothing more, nothing less, but let’s start from the beginning.

A few weeks ago, during the second presidential debate, Hillary Clinton was in the middle of answering one of Anderson Cooper‘s questions when a fly landed on her face. She didn’t instinctively react, didn’t flinch and continued speaking, and shortly after landing the bug flew away.

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Hillary, la comandante in capo di tutti gli stereotipi

di Roberta Valtorta

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Hillary Clinton e il suo doppio. In questa foto la candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti d’America in uno sketch della trasmissione “Saturday Night Live” della NBC con l’attrice comica, e sua imitatrice, Kate McKinnon (immagine da http://www.chicagotribune.com/)

È possibile scrivere una riflessione su un candidato politico prescindendo dalla propria opinione personale? Ci proviamo. L’obiettivo che mi sono posta per questo pezzo è quello di accantonare momentaneamente qualunque ideologia: non voglio azzardare pronostici su chi vincerà tra Hillary Clinton e Donald Trump, né tantomeno sparare a zero su chi sia meglio o peggio tra i due. Il fine ultimo è condividere i pensieri innescati dallo spettacolo, a tratti grottesco, di questa lunga campagna elettorale, niente di più e niente di meno, ma partiamo dall’inizio.

Diverse settimane fa, durante il secondo dibattito tra i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti, mentre Hillary Clinton aveva la parola, una mosca le si è posata sulla fronte; lei, impassibile, ha continuato a parlare. Pochi secondi dopo, l’insetto è volato via.

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«Ho ripreso a danzare, la fatica mi insegna ad ascoltare e proteggere la mia vera passione»

di Giorgia Farace

Ma che bella… Questa fotografia, prodezze della tecnologia, ha fatto un bel giro prima di arrivare al nostro blog. Giorgia Farace, l’autrice del post, è riuscita a mandarcela da un bellissimo e silenzioso luogo di vacanza. Qui ha otto anni e sta facendo riscaldamento prima del saggio al Palazzo dei Congressi di Lugano, insieme con le altre allieve della scuola di Monica Caroni

Ancora non sapevo scrivere il mio nome la prima volta che, con gli occhi sinceri e spalancati, innocenti ed entusiasti di bambina, ho detto a mia mamma di voler fare “la farfallina”. Stavo guardando, in uno dei rari momenti concessi, la televisione, e un programma proponeva un balletto. Indicando lo schermo, puntavo il dito a quelle ballerine che parevano libellule, nei loro leggeri e vaporosi tutù bianchi.

Dove vivevo, le scuole di danza erano poche e la scelta ricadde su quella in cui aveva studiato per breve tempo anche mia mamma. Niente da fare: ero troppo piccola; avrei dovuto aspettare i quattro anni. Non che io riuscissi a capire questa necessità, dettata da ragioni conosciute solo ai grandi, ma con un paio di videocassette riuscirono a farmi aspettare l’anno successivo.

E così arrivano le prime scarpette rosa, un tutù che riesumato qualche mese fa da uno scatolone mi ha fatto tanta tenerezza, scaldamuscoli, “scaldacuore”, e via alla prima lezione.

Non ho quasi nessun ricordo dei primi anni. Solo emozioni. L’inconsapevolezza propria dell’essere bambini, quando sul palco del primo saggio, esegui tenacemente esercizi ripetuti più e più volte, che ormai ti sono automatici. Ricordando ad ogni nota i suggerimenti della maestra: schiena dritta e sguardo sorridente. Devi pensare ad un filo che ti tira su dal centro della testa.

Col passare degli anni e un cambio di scuola, quella che all’inizio era sembrata una richiesta infantile si è dimostrata un serio impegno. La mattina imparavo a scrivere e a far di conto, il pomeriggio, due volte a settimana, imparavo l’impegno e il rigore. Si badi bene: la mia non è mai stata una scuola dove si andava per diventare prime ballerine. Gli insegnamenti che porto con me vanno molto al di là del saper fare una piroetta perfetta.

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Pari opportunità e orrori mediatici da “fine del mondo”

di Roberta Valtorta

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Apriamo con la foto di Sadiq Kahn, nuovo sindaco di Londra, la riflessione di Roberta Valtorta su stereotipi di genere e ignoranza e inconsapevolezza imperanti su questo delicatissimo tema. Kahn, che tra l’altro è padre di due figlie adolescenti, ha invece subito deciso di vietare l’affissione di manifesti con immagini femminili “dannose” nella metropolitana e sui mezzi di trasporto pubblici. In altre parole: qui si chiacchiera, li si fa.

Nell’ultimo periodo ho pensato di frequente: «Questo è interessante, potrei proporlo a Paola».

Mi sono fermata spesso a riflettere su quello che avrei potuto scrivere, ma ogni volta che aprivo un nuovo file finivo con il guardare per ore la barretta lampeggiante senza riuscire a buttare giù nemmeno una parola. Stavo lì, col vuoto in testa e tra le dita. Il tempo poi passava, io procrastinavo e pensandoci giorni dopo mi sembrava tutto così inutile che lasciavo stare, per buona pace del cestino che si riempiva con le bozze.

Sono passati mesi e ora ho deciso di lanciarmi.

In queste settimane, ho visto cose terribili: orrori mediatici, da social network e linguistici. Ho capito, a mie spese, che purtroppo c’è ancora tanta gente che non comprende, che ci passa sopra, che fa spallucce svalutando sforzi e ricerche.

Qualche tempo fa, nel presentare un lavoro su stereotipi di genere e “donna oggetto”, ho fatto uno dei più grandi errori che si possano commettere in questo mondo: dare per scontato che tutti gli altri la pensino come me. Ero convintissima di ogni parola e per un secondo ho addirittura avuto il dubbio di aver scelto un argomento troppo banale e carico di ovvietà. Non è stato così.

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Sulla spiaggia, leggendo e ascoltando. Come in un dipinto di Amanda Russian

di Maria Elena Sini

Maria Elena, foto 1

“Beach Read”, olio di Amanda Russian. Le altre due opere della pittrice australiana che pubblichiamo sono state scelte dalla stessa autrice del post

Qualche tempo fa, mentre cercavo in Rete delle immagini che accompagnassero un mio lavoro, mi sono imbattuta in un’opera di Amanda Russian che ritraeva una donna intenta a leggere in spiaggia. L’immagine mi ha colpito e l’ho subito postata su Facebook, ma mi riproponevo sempre di approfondire le mie conoscenze sulla pittrice. In questi giorni finalmente l’ho fatto e ho scoperto che si tratta di un’artista australiana autodidatta che utilizza sia la pittura a olio che i pastelli.

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«Anche Sant’Antonio aumenta gli oboli per le grazie. E vuole essere pagato sull’unghia»

di Mariagrazia Sinibaldi

Mariagrazia compleanno

Bella, colorata, elegante: Mariagrazia Sinibaldi fotografata dal figlio Francesco Cianciotta la sera del 20 settembre scorso. La sedicente “signora Vecchiottina” sta aspettando gli ospiti per la festa del suo ottantesimo compleanno.

La signora Vecchiottina si avviò verso la cucina per prepararsi una straccio di cena. Diversamente dal solito aveva le spalle curve e uno strano senso di inutilità. Veramente era da qualche giorno che si sentiva così. Sulla porta della cucina si fermò improvvisamente, colpita da una domanda: ma dove erano finiti il suo ottimismo e la sua ben nota combattività?

Cosa aveva determinato questo stato di prostrazione?
Dimenticandosi completamente della cena, la nostra signora tornò indietro, si sedette sul divano e cercò di riprendere il filo di se stessa e cartesianamente cominciò a mettere in ordine, uno dopo l’altro, i fattacci che l’avevano colpita da quindici giorni a questa parte.

Tutto era cominciato la sera in cui era andata dal suo dottore per farsi fare una ricetta e anche per fare due chiacchiere con lui; perché il suo medico era una persona gentilissima e sempre pronta a fornirle la possibilità di una buona risata.

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Barzellette: le risate aggressive che colpiscono le donne (e non solo)

di Giada Sofia Conti*

Barzellette 3

Tutte le immagini sono tratte dal Web e inserite dall’autrice di questo post nella sua ricerca su “Barzellette di genere e rafforzamento degli stereotipi”

È possibile che le generalizzazioni semplicistiche che fanno sorridere per la loro imprevedibilità possano finire per essere considerate dati di fatto? E che le eccezioni servano solo a confermare la regola e non a prendere in considerazione un punto di vista alternativo?

La mia ricerca muove da tali domande e vuole indagare il rapporto tra umorismo e rafforzamento dello stereotipo di genere. Come scrive Charles Brenner, «La tecnica della battuta generalmente serve a provocare la liberazione, o lo scarico, di tendenze inconsce, le quali altrimenti non avrebbero avuto il permesso di esprimersi o che, almeno, non avrebbero potuto esprimersi in maniera così completa».

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Nonna, raccontami una fola (così non sarò schiava)

di Elisabetta Baccarin

Elisabetta Baccarin

Elisabetta Baccarin

leggendo del lavoro sulle emozioni in bicocca, mi è tornato in mente che nel mio piccolo, fatto di un lavoro che con l’insegnamento non c’entra più nulla da molti anni ma che mi fa ogni giorno conservare nel cuore l’insegnamento come uno dei lavori migliori che abbia fatto, mi sono laureata da adulta (avevo già 31 anni) con una tesi sulla valenza sociopedagica delle fiabe popolari. il perché della mia tesi è arrivato per caso: sono rimasta iscritta all’università per 12 anni e non ho mai frequentato, tranne qualche lezione e seminario che poteva coincidere per orari e brevità con i tempi della mia vita altra, e l’italiano era l’unico campo che avrei potuto affrontare in autonomia e senza ‘firme’ che i professori chiedevano per le lezioni. ho dato tutti gli esami e me ne mancava uno solo, ma non sapevo come terminare il mio percorso. negli ultimi anni della mia iscrizione mi sono trovata a frequentare spessissimo mantova e anche una nonna, di cui racconterò un’altra volta, che da sempre ha raccontato fole. ‘non raccontar fole‘ è un modo per dire a qualcuno ‘non dire fandonie’. e mi son tenuta questo pensiero per me, fino a che non ho visto una bimba di 3 anni che incontrando la nonna, abbandona il televisore, le corre incontro e le dice ‘ciao nonna, mi racconti una fola?’. e mi sono domandata perché e mi è tornato in testa quel pensiero sulle fandonie.

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Bollate ha il suo blog con lode grazie a Sabrina

Sabrina Flisi

Sabrina Flisi nel 2013

Un’idea virale per il lavoro di tesi: dalla Bicocca a Bollate

di Sabrina Flisi*

Ho scelto come Laurea magistrale “Teoria e Tecnologia della Comunicazione” (TTC) per la sua particolarità; si tratta infatti di un corso multidisciplinare, dal carattere ibrido, che fonde due ambiti di studio apparentemente molto diversi: la Psicologia e l’Informatica.

In realtà queste due materie si amalgamano bene, e il corso di laurea forma persone in grado di muoversi all’interno della Rete, capaci di creare con dimestichezza progetti che sfruttano i mezzi tecnologici (siti Internet, advertisement…), tenendo conto del target di riferimento e delle sue esigenze. Ci è stato insegnato che, prima di qualsiasi lavoro pratico, si devono effettuare una ricerca e un’analisi teorica di tutti gli elementi coinvolti, rendendo i progetti finali completi e, se possibile, accessibili per chiunque. Mi piace pensare a TTC come a un corso che insegna a fare concretamente qualcosa, da trasmettere con passione a chi poi lo utilizza.

Il corso di Psicologia delle influenze sociali è una delle attività didattiche opzionali che lo studente può scegliere nel secondo anno di Laurea e fa parte della facoltà di Psicologia. Le lezioni sono tenute dalla professoressa Chiara Volpato e dalla giornalista Paola Ciccioli.

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“Ho perso mia madre e sono diventata dipendente da Facebook”

Testimonianza raccolta da Paola Ciccioli

«Le dipendenze tecnologiche, da internet e smartphone, sono le malattie mentali destinate ad essere le più diffuse del prossimo decennio a livello mondiale stando al report del XVIII Congresso Mondiale di Psichiatria dinamica che si è tenuto a Firenze» (http://www.ansa.it/)

Ho quarantaquattro anni, una bella famiglia e un lavoro che mi dà soddisfazione.

E fin qui tutto perfetto. Ma mi porto dentro da sempre un senso di solitudine che fino ad ora non sono riuscita a colmare, mai definitivamente. Sono divorziata e la mia famiglia sono i miei numerosi fratelli, i nipoti e gli amici.

Ho iniziato a usare Facebook a fine 2008 per promuovere un gruppo femminile che si occupa di sport e di solidarietà e per qualche anno è stato solo un mezzo utile e divertente. Internet mi ha sempre affascinato per la potenza di comunicazione che ha in sé e per il numero di persone che puoi raggiungere.

Tanto facile da usare, quanto facile lasciarsi prendere la mano. Sembra impossibile, ma il confine tra utilizzare uno strumento e diventarne schiavo è veramente sottile e a un certo punto ti accorgi di averne bisogno e che è difficile farne a meno. Credo che sia una specie di dipendenza.

Posso identificare con certezza il momento in cui sono stata fagocitata nel vortice della Rete, è stato nel 2010, quando ho perso mia madre. A quel punto collegarsi, e incontrare virtualmente delle persone, mi faceva sentire meglio e il peso della solitudine e della tristezza scomparivano per il tempo in cui restavo in contatto con quel mondo.

Mi sono sentita sempre più coinvolta, tanto da creare dei contatti con persone mai viste dal vivo, ma che mi piacevano e mi ispiravano simpatia e che alla fine mi sembra di conoscere veramente.

Mi collegavo in ogni momento libero, pensavo a cose da scrivere, foto da pubblicare, ogni mezzo per creare interesse intorno al mio profilo e attirare l’attenzione dei miei contatti. La sensazione di sentire le persone vicine, parte della mia vita, mi dava lo stimolo a continuare e a fare sempre di più.

Tutto ha funzionato bene fino a quando mi sono resa conto di aver varcato una linea e di aver perso il controllo. Passavo da due a quattro, cinque ore al giorno collegata a Facebook, trascurando tantissimi aspetti della mia vita reale. La cosa peggiore è che ho creato un’immagine distorta di me stessa, non mostro come sono veramente, ma enfatizzo i lati che si dimostrano più interessanti e che attirano maggiormente l’attenzione del mio pubblico.

Circa un mese fa, a una festa, ho conosciuto un uomo e dopo aver chiacchierato insieme per un paio d’ore, lui mi ha chiesto se utilizzavo qualche social network, «per avere la possibilità di restare in contatto», così mi disse. Quella richiesta mi è sembrata talmente assurda, soprattutto perché veniva da un over quaranta e gli ho risposto che non ero connessa ad alcun social network e che pensavo che i modi migliori per frequentare le persone fossero ancora un sano incontro o una telefonata. Da quel momento ho iniziato a pensare a quanto fosse stupida la mia sete di “amicizie virtuali” e ho deciso di iniziare un processo di disintossicazione da facebook. Mi sono data delle regole, dei tempi massimi di connessione, una linea degli argomenti da trattare, ho ripulito la lista dalle amicizie, eliminando le persone mai viste o con cui non ero interessata a mantenere i contatti, ma soprattutto mi sono imposta di mostrare la vera me stessa.

Ci sono momenti in cui la mia auto-terapia funziona e altri momenti in cui ricado nella Rete, ma sono sicura che alla fine vincerò questa piccola guerra. Nella vita non sono mai riuscita ad ottenere nulla facilmente e per questo ho sviluppato una forte determinazione, in questo somiglio molto a mia madre.

AGGIORNATO IL 22 AGOSTO 2017