Un racconto di Anna d’Andrea*

Questo non è un selfie ma un’opera di Liliana Porter: “Forty Years (self portrait with square 1973) (2013)”. Il suo sorriso in bianco e nero sul tempo che passa e ci cambia ci è sembrata l’immagine giusta per illustrare la prima parte di questo intenso racconto di Anna d’Andrea. Su Liliana Porter torneremo, intanto ricordiamo che è nata a Buenos Aires nel 1941, che vive a New York e che è presente alla Biennale Arte di Venezia 2017 nel Padiglione del Tempo e dell’Infinito (https://www.youtube.com/watch?v=3oBsLvGN1D8)
«Fulmineo precipita il frutto di giovinezza»
(Mimnermo)
Il riverbero del sole sull’acqua mi abbaglia, nell’aria infuocata del tramonto percorro il ponte quasi di corsa, in mezzo alla calca di turisti e sfaccendati, trascinandomi dietro l’incolpevole Gi che, per fortuna, è avvezza alle mie bizzarrie.
Per una frazione di secondo si sovrappone un’altra immagine: sono già accesi i lampioni, la gente cammina lieve, quasi a passo di danza, nella sera mite scivolo tra clochard e giocolieri tristi, le note di un organetto, le piccole meraviglie dei bric-à-brac, una mela di zucchero rossa e lucida che sembra quella di Biancaneve.
– La compro?
– Ma ce l’hanno uguali dappertutto…
E, sopra ogni cosa, il piacere di farsi portare dal flusso di voci, colori, odori, incessante come il fiume, senza opporre resistenza.
Dove e quando? Chi era quella ragazza in jeans e T-shirt dall’aria svagata?
Come può essere che si sia fatta imbrogliare dal tempo, che sia rimasta impigliata come un moscerino nella sua mortifera tela di ragno?
– Forza, nonne’, fatti un selfie pure tu!
Mi s’è parato davanti all’improvviso, con un trabiccoletto sostenuto da un braccio metallico, e quasi m’infilza l’occhio sano, il ragazzino screanzato. Ma è simpatico, sprizza allegria e malizia, non me la sento di mandarlo al diavolo.
– Bello di nonna, all’età mia meglio non vedersi, neppure in fotografia!
Sull’abbrivio di questa rima estemporanea, lo semino sgusciando in mezzo alla folla e guadagno trafelata l’altra sponda, dove mi accascio sulla prima panchina disponibile.
– Ce l’abbiamo fatta, Gi! Un selfie ? Ti rendi conto che razza d’impunito?
E però lo so, ne sono certa, che la fotocamera appostata fra i merli più alti della mia roccaforte mentale (…di lei si sarebbe potuto dire che si era ritirata a vivere nella sua testa, ho letto da qualche parte) è scattata, in barba al trabiccoletto pencolante.
Ho sentito il clic proprio qui e adesso.
Un selfie in bianco e nero, per la verità, o meglio color seppia e giallognolo, come quelle fotografie in cartoncino opaco coi margini zigrinati che debordano dai vecchi album, dai cassetti dei trumeau, dalle scatole di latta, dai banchi dei mercatini, impudiche e caste nella loro intimità violata eppure inaccessibile.
Chi non si è sentito almeno una volta in questi casi come il professor Unrat che soffia in punta di labbra sul tutù di piume e perdizione dell’Angelo Azzurro?
Comunque, l’ho intravisto, quel selfie involontario. Non ho avuto la prontezza di volgere altrove lo sguardo, per la paura di non riconoscermi e forse quella uguale e contraria di riconoscermi.
Come avrebbe detto mia madre:
– Quantum mutata ab illa!
Ed io che le rispondevo irriverente:
– Ma’, sono cose che succedono ai vivi !
Vedersi così, in bianco e nero, fa un effetto curioso, un po’ come i “santini” che si usava distribuire a parenti e amici in ricordo del defunto. Mi prende un senso di irrealtà che disorienta e stordisce.
È inquietante questa moda del selfie, pare che dobbiamo documentare, prima di tutto a noi stessi, ogni secondo della nostra esistenza, a prova e garanzia che esistiamo davvero.
Guarda, guardami, sono qua, sono io…
O piuttosto: sono proprio io?
Generazioni intere che professano il culto del presente, dell’attimo che fugge, collezionano senza sosta testimonianze per il futuro, trasformano emozioni e sentimenti in dagherrotipi che inzeppano ogni spazio mentale. Non resta che accantonare l’usato per far posto al nuovo, che nel frattempo è già diventato vecchio.
A volte per strada mi sembra di aggirarmi tra fantasmi, lampi verdognoli nella sera gettano luci sinistre su facce intente a scrutare il display alla ricerca di qualcuno dall’altra parte del mondo, in Alaska o in Patagonia, dovunque purché non ti sia accanto, qualcuno che ti ama, ti pensa, che è in contatto con te, ma da un’altra parte.
“Altrove”.
È come se la vicinanza fisica bruciasse, come se non avessimo creme solari adeguate a proteggere pelli e anime disabituate a realtà che non siano virtuali.
È un “ come se” a garantirci: senza questo filtro saremmo come i grandi ustionati.
Che cosa dicevano quei versi?
«Tre fiammiferi accesi nella notte. Il primo per vederti tutto il viso, il secondo per vederti gli occhi, l’ultimo per vedere la tua bocca. E tutto il buio per ricordare questa cosa, mentre ti stringo fra le braccia».
Eppure era solo ieri che Prévert ci faceva tremare il cuore.
Una faccia per un attimo si solleva dal display, forse disturbata dal passaggio della mia ombra, per un attimo il suo sguardo incrocia il mio, e mi attraversa come fossi alito di vento, fumo di sigaretta. Non so quando è successo che io sia diventata invisibile, o meglio, trasparente.
Non ha importanza, ci vediamo un’altra volta, su un altro pianeta.
Ammetto che ho avuto anch’io la pretesa di documentare la “realtà” della mia esistenza raccogliendo fotografie, collezionando ricordi, ma l’ho fatto più con lo spirito di chi mette da parte marmellata di ciliegie per l’inverno, provviste per i tempi di magra, per cercare di arginare questa povera memoria che “si sfolla” ogni giorno di più.
Pretesa assurda, perché la sostanza di cui sono fatti i ricordi è simile a quella dei sogni, è emozione, sentimento, inconscio, si modifica, si trasforma, sfugge, scivola, inafferrabile, vaga, aleatoria, effimera.
«Scendiamo nei sogni, e scendiamo nella memoria», scrive Julian Barnes in Livelli di vita.
Ma succede che, via via che scendiamo nella memoria, diventiamo più insicuri. Non ci sono più i testimoni degli avvenimenti, dei luoghi visitati, delle persone conosciute, del modo in cui ci si parlava, di come si stava assieme. Finisce che le vecchie istantanee che dovrebbero ricordarci quelli che eravamo sembrano «più fotografie di altre fotografie, che non della vita stessa».
Cominciamo a scendere, non sicuri di niente, come un viaggio negli Inferi, alla ricerca di quel frammento che ci potrebbe restituire un pezzo della nostra storia, della nostra piccola verità; quando pensi di averlo raggiunto, già lo tocchi, e pensi che lo terrai stretto per sempre, che ti apparterrà per sempre, al riparo dagli insulti del tempo, in quell’attimo lo perdi, inghiottito da impensabili lontananze.
Così Orfeo perde Euridice.
Passeggiamo in una galleria di ritratti che ci rimandano un’aria di famiglia, di posti conosciuti, di cose e consuetudini che ci sono appartenute, particolari minimi in cui vagamente ci ritroviamo, il disegno di un sopracciglio, quel piccolo neo sul mento, la passamaneria di un abito, la mano che gioca con un filo di perle, un ciondolo di ametista che disegna un trifoglio. Ma le linee ondeggiano, sommerse dall’acqua, gli occhi di dame e cavalieri si incupiscono, l’ombra invade strisciante gli sfondi.
Ci ritroviamo fra sconosciuti, ci sentiamo stranieri e persi.
E ci assale il dubbio che i documenti archiviati con pazienza certosina non testimonino altro che solitudine e assenza, e il nostro desiderio.
Soprattutto il nostro desiderio.
*Prima parte.
Anna d’Andrea, neuropsichiatra, vive a Roma ed è autrice di Un arancino della Cina (Europa Edizioni, 2013). «L’incolpevole Gi» che la accompagna in queste stimolanti riflessioni è la sua cagnetta. Un grazie da Paola Ciccioli a Giuseppina Pieragostini per aver tessuto le fila di questo prezioso incontro.
Cara Anna, l’avevo letto e come sai mi era piaciuto. Rileggerlo, me lo ha fatto apprezzare di più perché ha tanti strati. Hai una scrittura coraggiosa che non cerca l’effetto facile e il lettore sente che gli stai facendo un regalo. Un abbraccio Giusy
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grazie, Giusi, come e più di sempre per questa opportunità che mi è stata offerta, e tra l’altro è un mondo tutto nuovo per me. Quasi non mi riconoscevo, leggendomi!E grazie a Paola che mi ha accolto tra le sue donne della realtà”senza sapere nulla di lei”, cioè di me…
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Un capolavoro : tralasciando per un attimo il bianco e nero (ineffabile nella fotografia ) il punto di fuga evidenzia una temporalità positiva . Bellissima !!!!! Complimenti all’autore .
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grazie, apprezzo molto la
“temporalità positiva”, in cui mi piace riconoscermi, anche se con fatica, a volte…
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GRAZIE ! grazie per questo gradevolissimo concentrato di sensibilità e cultura, capacità di cogliere la bellezza dell’invisibile e comunicarne il fascino: è realmente un riflesso di te, Anna cara, ed uno spiraglio da esplorare . . .
Aspettavo di leggerti ancora , dopo l’esordio di qualche anno fa, e l’ incontro fortuito di oggi con questo racconto mi ha emozionato !
Ti scriverò. Spero di vederti presto con “G” . Un grande abbraccio Patrizia Colonna
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La vita riserva emozioni forti, come questa di incontrarti sulle pagine di un blog dopo tanto tempo. Eravamo adolescenti, quando ci siamo conosciute… quelle grandi finestre sul Tevere, I nostri cari angeli, Emilio, Miranda, Giuseppina,vigili e teneri.A volte ho temuto che tutto fosse andato perso, di allora, mi stai dicendo che non è così. A presto, Patrizia, e grazie
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Gli scritti di Anna hanno bisogno di essere letti due volte: la prima serve a godersi la sua scrittura fascinosa e suggestiva e la seconda servirà per farci cogliere le mille e più di mille immagini di mondi interni rappresentati da lei e poi afferrati da noi, come vogliamo. Grazie per questi regali preziosi. Mena
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Ehi, Mena! Che bello quello che dici ! non ti ringrazio, molto di più… perché è vero che in genere, essendo io così “imbranata” nelle relazioni affettive e sociali, la lettura è in due tempi, il primo di facile accesso, il secondo “solo per chi” mi conosce, o vuole conoscermi un po’ meglio, o in qualche modo si riconosce in quello che scrivo. E tu hai colto questo, che è il segreto del mio modo di scrivere: segreto e “sfacciato” insieme…In fondo, tu lo sai, anche io sono così, nella realtà, e sai che la forma autobiografica dei miei racconti mi sdogana, per così dire, e mi permette di essere le due cose insieme. Che cosa ci è accaduto, che cosa abbiamo sognato, che cosa ci riguarda, nella cosiddetta realtà, che cosa è solo un sogno, e qualche volta un incubo, a occhi aperti? Se scrivo, è perché ho la presunzione di pensare che il tema della memoria, della solitudine, del compito difficile di invecchiare è cosa che ci riguarda tutti e, se ci è dato di fare un tratto di cammino insieme, è privilegio e conforto. Grazie, una volta di più, anche se a volte è doloroso condividere.
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Perdersi nel riverbero del sole abbagliante o nel colore seppia o giallognolo delle foto di un tempo: realtà o ricordo?Presente o passato? Vissuto o immaginazione? Non ho bisogno di risposte: meglio abbandonarsi alla bellezza delle parole che suscitano emozioni profonde e inafferrabili, che rievocano luoghi…persone… sentimenti e che accendono “fiammiferi” per vedere, per sentire e per andare “altrove”… Questo ho fatto, cara Anna!!! Con discrezione e curiosità ho letto il tuo racconto e con empatia ho condiviso il tuo mondo interiore… Un abbraccio e a presto…
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Grazie a te, Gechi, che hai colto il respiro segreto di queste pagine, quello- intendo – che non dico esplicitamente, ma è proprio l’essere “sospesi” tra realtà, ricordo, immaginazione, sogno a occhi aperti, senza sapere – in buona fede- dove cominci l’uno e finisca l’altra. Sole abbagliante e foto color seppia coi bordi zigrinati. Assomiglia un po’ a uno stato “oniroide” e credo che sia una prerogativa di chi non è più giovane e naviga nella vita senza porsi ormai il problema di quanto sia “vero” e quanto “fantasticato”. Forse è una “difesa” dal dolore, ma perché privarsene, se non fa male a nessuno e aiuta a invecchiare?Come dice Marco Polo a Kublai Khan ne Le città invisibili( i libri di italo Calvino per me sono una specie di breviario, da sempre):” Se ti dico che la città a cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, non devi credere che si possa smettere di cercarla…”
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Invisibile.. Trasparente… Una carta velina bianca.. Leggera sottile, lentamente danza, sfiorando il prato, il viottolo di ghiaia bianca. ho una cannuccia di biro , una goccia d’inchiostro cade, soffio, diramandosi ovunque, scorre, macchia, disegna il tempo, sensazioni, desideri vissuti..! Ecco Il selfie in bianco e nero.. La macchia nera di Gi che torna..
Grazie Anna, era tanto che aspettavo di leggere ancora i tuoi racconti .. Il tuo sorriso ieri sera era “a colori”!!
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Che bello ritrovarti, Atta Attina, anche tra le pagine… mie, in questo caso!Ma non conta che siano mie! Mi fai venire in mente il titolo di un libro di un autore sardo purtroppo scomparso: “Passavamo sulla terra leggeri”. Nella grazia dell’endecasillabo c’è la tua grazia danzante.Però sei anche una birba, perché tu lo sai che io alludo ad un’altra trasparenza, quella di chi non è più oggetto, poco importa, ma soprattutto “soggetto”, di desiderio. Ti ritroverai da qualche parte nel Selfie, foss’anche per il gesto di scuotere indietro i capelli, mentre svanisci nel parco col tuo Apollo come un folletto dei boschi. E anche questo è a colori, perché i capelli sono ramati!
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Invisibile.. Trasparente… Una carta velina bianca.. Leggera sottile , lentamente danza , sfiorando il prato, il viottolo di ghiaia bianca .ho una cannuccia di biro , una goccia d’inchiostro cade, soffio ,diramandosi ovunque , scorre , macchia , disegna il tempo, sensazioni, desideri vissuti..! Ecco Il selfie in bianco e nero.. La macchia nera di Gi che torna..
Grazie Anna , era tanto che aspettavo di leggere ancora i tuoi racconti .. Il tuo sorriso ieri sera era “a colori”!!
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E’ bello che tu lo scriva due volte! Ti piace il doppio?!!! Con affetto e gratitudine
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