Mia moglie Paola, al tramonto, mentre esce dal lago di Como, a Bellano
Oggi parlo dei Genesis, quelli veri, prima che diventassero la Phil Collins Band, di un album storico come Nursery Cryme e di un brano straordinario come The fountain of Salmacis. Riprendo ben volentieri il discorso sulle canzoni in inglese e sulla comprensione relativa dei relativi testi, nonché sulla musica che ha segnato drasticamente le mie scelte di ascolto, colpito la mia fantasia e la mia emotività.
Voglio precisare che non la farò lunga sul gruppo (ultimamente uso spesso questa espressione, ma giuro che non reggo più chi la fa lunga, approfondita e noiosa…) il periodo storico e tante altre cose, chi ha iniziato ad ascoltare (di solito anche male) i Genesis da adulto può fare a meno di continuare a leggere queste righe.Continua a leggere →
Ecco, mètes chì che va ben!!! ‘Taches al sostegn e poeu disinfetta ben i man. Le due foto, sia in solitaria sia con la congiunta, sono di Luca Bartolommei
Una puntatina veloce a Milano, zona Sant’ Ambrogio. Parcheggio, in un’Isola ancora piuttosto deserta, poi MM linea verde. Succede a volte e ieri è successo, di fare caso a particolari cui non hai mai prestato troppa attenzione come ad esempio i “segnaposto” sul pavimento nelle stazioni e sui treni della metropolitana. Il bollo rosso dice “stai qui”, ma quello che ha colpito mia moglie Paola Ciccioli è stato lo “stand here”. Continua a leggere →
Il Pelè, Giancarlo Peroncini, con il suo tollofono. Alla chitarra Nadir Scartabelli. Pelè e Nadir, un duo che fa parte della storia della musica milanese e che tanta ne ha scritta. Foto di Luca Bartolommei
Questa è la cronaca di una domenica di fine estate passata a cantare, ridere, ascoltare aneddoti vari tra amiche e amici più nuovi che vecchi al circolo Arci Pessina di Chiaravalle, a due passi dalla bellissima omonima abbazia, estrema periferia di Milano verso sud, vicino a Metanopoli e altri posti che si chiamano Sorigherio, Macconago piuttosto che Sesto Ulteriano.
Co-organizza Giuliano Mistrangeli, cultore della milanesità che trovate tutti i giorni sul ponte di comando dell’edicola di piazzale Lagosta. Si festeggia il compleanno di un amico, convocazione a mezzo Whatsapp con poche spiegazioni, un po’ tipo La Stangata, insomma bisogna che ci vada, tra l’altro non ci vediamo da un po’… Treno e poi metrò, a Turro saliamo in macchina con Giovanni Manzari (il festeggiato organizzatore) e Riccardo Cingottini. Entrambi li conoscerete meglio via via che la giornata scorrerà. Durante il tragitto si parla di dialetti vari, Giovanni sta facendo un dottorato tardivo sulla lingua pugliese e derivati ma sul milanese è un’enciclopedia, quando arriva una telefonata il cui tono è più o meno questo: «Ohei Giuliano, in dove l’è che te set?», «Siamo verso corso Lodi», «Va ben, però moeves perché el Pelè el gh’ha famm…».
Il 15 agosto, cioè ieri, ricorreva il cinquantunesimo anniversario di Woodstock e mi sento di scrivere qualcosa. Non tanto su quello che riguarda l’evento, il periodo storico, i figli dei fiori et similia ma piuttosto su come, tanto per cambiare, ho vissuto io a Milano tutto quello che a Woodstock era connesso. Sì, perché a quel nome sono legate tante cose, tanti discorsi (troppi), tante fantasie, utopie e miti che hanno caratterizzato il periodo dei primi anni Settanta, quello della mia adolescenza.
L’album triplo mi era stato regalato un Natale e ricordo di averlo ricomprato perché a forza di ascoltarlo, da solo, in compagnia, a casa mia o di altre/i, (sì, era sempre la mia copia che mi portavo appresso) su impianti dignitosi piuttosto che su qualche fonovaglia, poi spiego, si era irrimediabilmente consumato e danneggiato. Insomma Vustoc lo si conosceva praticamente a memoria, ci serviva per cercare di tirare giù ad orecchio il solo di Soul Sacrifice dei Santana o tutta Suite: Judy Blue Eyes(si abbreviava in la Suite) dei Crosby. I’m going home dei Ten Years After la sapeva suonare solo il Turotti (che aveva anche un nome proprio, Angelo), che è stato sempre il numero uno, ma era più grande e sapeva suonare tutta Sweet Jane compresa l’intro, robb de matt! Continua a leggere →
La terrazza di Lezzeno, frazione di Bellano, sul lago di Como, è stata per chi ci segue un punto di incontro virtuale durante le difficili settimane in cui l’Italia si è dovuta con ogni sua forza proteggere dalla pandemia da Corona Virus. Piano piano sta diventando un luogo di incontro reale, un piccolo studio tra acqua e boschi dove si coltivano amicizie consolidate e nascenti e si concretizzano progetti.
Dalla terrazza di Lezzeno ci parla ora Giuliana Pogliani, figlia di Giuliano Pogliani, il divulgatore scientifico scampato ai bombardamenti che giorni prima e poi nella notte di ferragosto del 1943 distrussero Milano e che riparò con la famiglia proprio a Bellano dove qualche tempo dopo, poco più che ragazzino, decise di essere partigiano. Lo abbiamo ricordato nel post: «Io sono stato partigiano, a 16 anni ho scelto i monti».
Nelle memorie orali trasmesse dal padre alla figlia, le immagini della casa che crolla, di un balcone che resta miracolosamente in piedi, la fuga con la Balilla dai morti e dalla nebbia della paura e della guerra, la salvezza nel borgo sul lago.
La parola dunque a Giuliana Pogliani che con amore coltiva il valore anche dell’amicizia nata a Bellano tra suo padre e il poeta di origini calabresi Luciano Lombardi che nella raccolta “La stella dell’esilio (1985 – 1988)” scrive:
«Dedico queste poesie a Giuliano Pogliani. C’incontrammo sui monti del comasco nell’autunno del 1943. Avevo appena lasciato la villa d’Inesio dove avevo trascorso la fanciullezza. Lui era sfollato da Milano: alle spalle aveva solo macerie».
Questa la trascrizione della testimonianza di Giuliana Pogliani:
di Gabriella Cabrini – diario dall’ospedale di Cremona
«Il pensiero di non avere sufficiente energia per affrontare il prossimo autunno ingigantisce la paura di ciò che potrebbe essere pur se non c’è alcuna certezza di ciò che sarà ma la ragione mi fa vedere con più lucidità il futuro».
Ieri – martedì 11 agosto 2020 – Gabriella Cabrini ha scritto queste parole sulla sua pagina Facebook. Protetta dal calore degli affetti e delle amicizie, trascorre questi giorni d’estate cercando di superare tutto quel che ha dovuto affrontare a causa del Corona Virus e del ricovero ospedaliero. Il suo diario che abbiamo riproposto all’incontrario, cioè dalle dimissioni alla diagnosi di positività al virus, vale più di numeri e appelli: è la verità della sofferenza, propria e altrui, che da una corsia si è espansa fin nelle nostre case e nei nostri cuori per dire che noi vogliamo che nessuno si ammali perché siamo stati egoisti, stupidi o negligenti. (p.c.)
A partire dal 21 marzo abbiamo riproposto sul nostro blog il diario pubblico che Gabriella Cabrini ha tenuto durante i 14 giorni di ricovero ospedaliero a causa del Corona Virus. Donna ricca di interessi nata nel Piacentino ma da quasi quarant’anni residente a Cremona, Gabriella dal suo letto di sofferenza ha scattato numerose foto nelle varie ore del giorno alla chiesa di San Sigismondo che vedeva dalla finestra.
Joan Baez sul palco dell’Arena Civica di Milano il 24 luglio 1970. Questo è l’interno della copertina del vinile.Si può notare come l’immagine sia stata montata con destra e sinistra invertite, la cantante-chitarrista statunitense infatti non è mancina. Foto Picasa. Enez Vaz – WordPress.com
Joan Baez ci ha insegnato negli anni attraverso le sue canzoni ed il suo esempio che prendere una posizione è doveroso. Come descritto nel post di due giorni fa, ha dedicato Forever youngdi Bob Dylan, cantandola in pieno periodo di lockdown in un video dalla (presumo) cucina di casa, a quelli che lei ha definito gli Eroi della pandemia e ci ha fatto così conoscere il suo pensiero su quanto è successo e succede negli Stati Uniti.
Scrivendo le mie considerazioni su quel video ed il suo contenuto, mi sono ricordato del fatto che sono da poco trascorsi cinquant’anni dal suo famoso concerto tenuto all’Arena Civica di Milano il 24 luglio 1970. Io non ho assistito alla serata, va bene essere liberi e libertari, ma a dodici anni scordatelo proprio di andare, anche se con gli amici più grandi, perdipiù in motorino… in due… discorso chiuso, punto.
Questa è una breve cronaca di quella notte di musica fatta un po’ attraverso i racconti di chi c’era e un po’ facendo finta di esserci stato io, anche se con i calzoni corti… Continua a leggere →