di Marie Cardinal*
Ora mi sono messa in testa di raccontare la mia malattia. Mi sono concessa l’orrendo privilegio di descrivere quelle terrificanti immagini, quei dolori abominevoli, che nascevano in me al ricordo di avvenimenti passati. Mi sembra di essere un regista con la cinepresa, appollaiato in cima a una gru gigantesca: può scendere a livello della terra per riprendere in primo piano i particolari deformati di un viso, oppure salire in alto, sopra il set, per le scene d’insieme. Ricordo ad esempio quella prima visita, in una Parigi autunnale (ma era poi autunno?), con le luci della sera, e il vicolo nel quartiere di Alesia. Dentro il vicolo, il villino, dentro il villino lo studio immerso in una luce calda, dentro lo studio un uomo e una donna. Questa donna è sul divano, raggomitolata come un feto nell’utero.
Allora non sapevo che cominciavo appena a nascere e che vivevo i primi istanti di una lunga gestazione che doveva durare sette anni. Ero un embrione, il grosso embrione di me stessa.
*Lo sto rileggendo per la terza (è la terza?) volta. E ora in compagnia della matita, con la quale sottolineo frasi, passaggi, parole nelle quali mi riconosco. Chi è stato a suggerirmi Le parole per dirlo? Non me lo ricordo. E’ successo una vita fa. Mi viene in mente Nadia, l’amica di mia sorella alla quale devo le letture-alimento dell’adolescenza. A mia volta, nel corso degli anni, l’ho consigliato a donne che mi sembrava stessero cercando, con sincerità e dolore, la propria strada. Forse è per questo che nella mia vecchissima edizione Bompiani con la copertina blu mancano le pagine iniziali. Devo averci annotato qualcosa e poi regalato quei pensieri a qualcuno. Ho comprato il libro di Marie Cardinal anche nella versione originale, in francese. Me ne sono privata perché pensavo che fosse il regalo giusto per un’amica. Ma forse è stato un errore, un errore che rifarei.
Il brano che ho scelto è tratto dal primo capitolo: “Al medico che mi ha aiutata a nascere”. (Paola Ciccioli)
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