di Romain Valentino

Mani in tasca, mentre vaga con lo sguardo nelle bellezze e i colori di Porto, Jean Marie Valentino è fotografato dalla moglie Marie-Paule Bernard. Lo scatto è del 2015, quando i genitori dell’autore di questo post sono andati a trovare Romain che per ragioni di studio era nella “capitale del Nord”. Intanto, sono sempre di più gli italiani che vanno a vivere in Portogallo (anche per godersi una pensione esentasse): http://quifinanza.it/pensioni/portogallo-nuovo-eden-dei-pensionati-italiani-ecco-perche/58231/
Cresce in modo esponenziale il numero di italiani che si trasferisce in Portogallo per motivi fiscali. Romain Valentino, filosofo e musicista, ci è andato invece per fare l’Erasmus ed è stata la città nella quale ha vissuto un anno, Porto, a “trasferirsi” nel suo cuore. Appare evidente da questo racconto che pubblichiamo in due parti.
“Alfarrabista”. Alfa come ‘α’, un accenno di deserto incastonato al centro: le prime volte che lessi questo termine nel settembre del 2015 su vecchie insegne di negozi polverosi della baixa di Porto (per me allora esotica e misteriosa) stimolava fortemente la mia fantasia, e, prima di scoprirne l’effettivo significato, lasciai passare abbastanza tempo da dover fare ancora oggi un piccolo ma significativo sforzo per ripescarlo dietro quei prodotti vaghi dell’immaginazione che il termine continua a richiamare alla mia mente. Ma se questa parola non si riferisce direttamente ad un mondo di alchimisti e antichi saggi da mille e una notte, il suo significato si mantiene in un ambito alquanto letterario, affascinante e perfino iniziatico.
In portoghese, un alfarrabista è infatti un collezionista-rivenditore di libri usati, gestore di una libreria detta alfarrabista, la versione lusofona e in muratura di ciò che i francesi chiamano bouquiniste. In questo Paese di esploratori, stretto tra una potenza a lungo minacciosa e un quasi altrettanto minaccioso oceano, la lingua – così come certi costumi – ha preso nel tempo forme uniche, spesso inaspettate per i cittadini europei medi e mediamente disinformati come me. Così, queste piccole ed oscure librerie piene di volumi impilati sono il monumento plurale e diffuso tutto portoghese che le contingenze storiche hanno dedicato ad Abū Naṣr Muḥammad ibn Muḥammad Fārābī, detto al-Farabi. In fin dei conti Platone, Aristotele, Aladino e Sheherazade sono molto più vicini di quanto ci si può aspettare.
Al-Farabi (Otrar, 870 d.C. – Damasco, 950 d.C.) fu infatti filosofo e traduttore aristotelico, politologo, fisico, musicista (inventore di un sistema tonale attualmente ancora in uso nel mondo arabo), nato nel territorio dell’attuale Kazakistan e attivo per quarant’anni nella Baghdad di un secolo posteriore all’età mitica in cui il sovrano Hārūn al-Rashīd porgeva l’orecchio ai meravigliosi racconti delle mille e una notte.
Nel nome portoghese dei venditori di libri usati si conserva l’idea di una saggezza accumulata nello scambio di codici e volumi antichi attraverso i continenti. E mentre oggigiorno le città in cui al-Farabi fu maggiormente presente – Baghdad, Aleppo e Damasco – sono diventate il simbolo desolante della distruzione materiale e culturale, le piccole librerie che si rifanno al suo nome continuano ad essere dei luoghi benedetti da tutti coloro che si nutrono dell’illusione di potervi trovare qualcosa, senza un’idea precisa dell’oggetto della propria ricerca.
Avrete immaginato che mi colloco in questa categoria di persone che preferirebbero comprare di seconda o terza mano un volume di dubbio interesse piuttosto che ordinare in una libreria comune la pubblicazione di punta del mese, con il solo scopo di ricreare la sensazione che accompagna le scoperte improbabili.
Qualcosa di simile avvenne nel mio incontro con L. in una sala da ballo di rua da Galeria de Paris.
Ero uscito solamente per bere un bicchiere con qualche amico e, come nella maggior parte delle notti più intense, avevo l’intenzione di rincasare presto. L. mi distolse facilmente dall’intento su cui io stesso facevo poco affidamento, e ne seguirono alcune ore di buoni ricordi, seguite a loro volta da un ulteriore suo passaggio in città poco tempo dopo e da un fine settimana nella sua Galizia natale.
Se il giorno che ci conoscemmo, usciti dalla triste discoteca in cui avevamo seguito altri amici, conversammo solamente in francese, in seguito il portoghese fu il nostro mezzo di comunicazione. Lingua di adozione per me, dotata dello stesso statuto di seconda casa della città in cui eravamo, il portoghese era per lei una versione un poco esotica del suo gallego materno – un tempo identici ed in seguito evolutisi in direzioni diverse. Di madre francese, natìa di un territorio da molti incluso nella lista delle “nazioni celtiche”, L. ha un dottorato di ricerca in letterature ispanofone con una tesi sul cantautore e poeta cubano Silvio Rodriguez, che redigeva, al tempo in cui ci siamo conosciuti, pacificamente isolata in una località balneare deserta a fine maggio, dove aveva a sua intera disposizione un modernissimo appartamento in uno di quei condomini che in estate si riempiono di madrileni.
Scrittrice a tempo perso, minuta, umile, gentile, pacifica, genuina, e con scurissimi capelli tagliati alla Ramones, L. si trovava perfettamente a suo agio nel silenzio dell’appartamento, o sulla piccola spiaggia semi-deserta qualche centinaio di metri più in giù, bagnata dalle acque sempre calme della ria, o ancora nei viaggi settimanali da una città all’altra per andare al lavoro a bordo della sua inspiegabile Fiesta ST con alettone e minigonne da giovane pieno di testosterone, voluta da suo padre “perché sicura”. Ancora oggi non riesco a far convivere pacificamente l’esilità del suo fisico e del suo carattere con il coraggio e l’autodeterminazione necessari ai miei occhi per vivere e lavorare in una tale solitudine.
I – continua
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