«Mi chiamo Mercedes Sosa, sono argentina»

di Rodolfo Braceli*

Mercedes Sosa (San Miguel de Tucumán, 9 luglio 1935 – Buenos Aires, 4 ottobre 2009) in una fotografia degli Anni ’60 scattata da Annemarie Heinrich, fotografa tedesca naturalizzata argentina, morta a Buenos Aires nel 2005,  https://commons.wikimedia.org

Questo estratto della biografia di Mercedes Sosa pubblicata in Italia da Giulio Perrone Editore è stato scelto da Francesco Pulitanò che, per l’Associazione Donne della realtà, sta preparando un omaggio alla cantora sudamericana di cui oggi 4 ottobre ricorre l’ottavo anniversario della scomparsa.

Tutto finisce ed anche il mio esilio che mi sembrava eterno finì. Dopo le dieci e mezza della sera del 18 febbraio 1982, mi trovavo sul palco dell’Opera, a Buenos Aires. Avevo paura, una grande paura di restare afona, come era successo durante il breve soggiorno in famiglia poco tempo prima. Cercai di restare sola nel camerino, di dimenticare quello che succedeva fuori.

Ma nel paese c’era ancora il terrore, perché c’erano ancora i militari a seminare la paura, a rapire gli innocenti. Sapevo che all’entrata del teatro perquisivano le persone, chiedevano loro di passare con borse e borsette aperte. Poteva succedere qualunque cosa, non per colpa di chi veniva ad ascoltarmi ma per colpa degli infiltrati. Daniel Grinbank, grande organizzatore di eventi, aveva fatto stampare dei volantini per scusarsi dei disturbi causati dal controllo delle borse. Io cercavo di respirare a fondo, piano, lentamente… Dal camerino sentivo i ritornelli: Negra non andare / Negra vieni fuori… Mi tappavo le orecchie per non farmi vincere dall’emozione. L’emozione è come una tenaglia per la gola del cantante… Toglievo le mani e sentivo di nuovo mille, duemila persone che gridavano in sala: Negra non andare / Negra vieni fuori / resta in Argentina / questo è il tuo paese… Oddio, è vero, questo è il mio paese. Come ho fatto ad andarmene, come ho fatto a sopportare tanta distanza da sola?

Lo spettacolo non iniziava mai, i minuti passavano, e io oscillavo tra il panico e la disperazione. Volevo uscire a cantare una volta per tutte. Fabiàn e Olguita Gatti cercavano di tranquillizzarmi dicendomi che fuori era tutto a posto. Mi misi il poncho, mi tolsi il poncho, un poncho nero con dei motivi rossi. Chiesi al chitarrista Omar Espinosa di ripassare insieme la prima canzone, ma lasciai perdere subito. Iniziai a sentire, con la stessa melodia di Partirà, la barca partirà, delle parole cantate da centinaia di voci… Resterà… la Negra resterà/ la Negra resterà…

Quando ero sola, volevo avere qualcuno vicino. Quando avevo persone vicino mi isolavo, avevo bisogno di restarmene da sola. Dire che ero nervosa è dire poco. Che paura mi faceva il palco! Mi ricordo che gridai: O esco subito a cantare o me ne vado al diavolo!

Finalmente mi diressi, insieme ai musicisti, verso il palco. Espinosa, prima di accomodarsi al suo posto si girò e mi fece, con grande delicatezza, una carezza sulla testa. Accelerai il passo e uscii. L’ovazione mi colpì in pieno petto, in faccia, fare gli ultimi passi per arrivare al centro del palco mi costò molta fatica, come se stessi remando controvento. Certo, quel vento contro era d’amore, era in realtà un vento a favore… Mi fece impressione che il pavimento del palco fosse soffice… piovevano garofani, e i garofani, come disse Jorge Aulicino, diventarono un tappeto. Nella vita ho calpestato molti garofani… Troppi per un essere umano.

Come avrò fatto a restare in piedi? Non lo so. Stavo attenta, questo lo so, a non guardare mai il pubblico. Dietro di me c’erano Domingo Cura, alla batteria, José Luis Castineira de Dios, al basso, e il chitarrista Omar Espinosa. Feci un altro passo, mi fermai, aspettai il silenzio. Mi sorpresi a sentire la mia voce… Che sarebbe successo se la voce non mi fosse uscita? Non lo so. Iniziai con Guitarra enlunarada, di un brasiliano, Marcos Valle, e poi cantai, non ricordo in che ordine, Los mareados, Los hermanos, Gracias a la vida, Alfonsina y el mar, Sueno con serpientes, Fuego de Anymama, Triunfo agrario, Polleritas, Volver a los 17, Druma Negrita… E alla fine, Cuando tenga la tierra e Canción con todos. Il mio ritorno, il tripudio di amore, di applausi, di garofani, si ripeteva ogni sera. Non parlavo. La prima cosa che dicevo, dopo aver cantato le prime canzoni era: Mi chiamo Mercedes Sosa, sono argentina.

Durò fino al 28 febbraio. Molti artisti mi accompagnarono in queste serate indimenticabili: Antonio Tarragò Ros, Leòn Gieco, Ariel Ramìrez, Raùl Barbosa, Rodolfo Mederos, Charly Garcìa. Altri vollero venire con me e mi ascoltavano dal pubblico, erano ancora sotto censura.

Come ho fatto a cantare? Non lo so, non lo so. Camminare su un tappeto di garofani è molto strano, quando piovono garofani è una sensazione indescrivibile… Sono momenti in cui vorrei fuggire di corsa e non fermarmi, vorrei fuggire di corsa per andarmi a gettare tra le braccia di mia madre…

*Mercedes Sosa – La Negra – Confessione che la grande cantante
sudamericana ha affidato allo scrittore argentino Rodolfo Braceli.
Testo estratto da “Parte III. Buenos Aires – L’esilio. Il mondo”.        

Traduzione di Carla De Grossi

(a cura di Paola Ciccioli, Francesco Pulitanò, Luca Bartolommei)

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