di Romain Valentino
Venerdì 27 ottobre torna a Milano “Agenda Brasil”, l’appuntamento con la cultura e il cinema brasiliani che si snoda tra il Mic – Museo interattivo del cinema, lo Spazio Oberdan e altri luoghi della città. Salutiamo l’edizione 2017, la sesta, che segna la trasformazione di “Agenda Brasil” in un vero e proprio Festival internazionale di cinema brasiliano, con questo articolo di Romain Valentino che lo scorso anno è andato a vedere il film A Família Dionti, arricchendo poi le sue impressioni con frammenti di un’intervista con l’autore e regista Alan Minas.

Un’immagine da “A Família Dionti” il film di Alan Minas che il pubblico milanese ha potuto vedere grazie ad “Agenda Brasil” che anche quest’anno, dal 27 ottobre al 5 novembre, presenta un ricco programma di appuntamenti con il cinema, la musica e la letteratura brasiliani (http://vagaluna.it/)
“A cinque tese sott’acqua tuo padre giace.
Già corallo son le sue ossa
Ed i suoi occhi perle.
Tutto ciò che di lui deve perire
Subisce una metamorfosi marina
In qualche cosa di ricco e di strano.”
(William Shakespeare, La Tempesta)
“cê acredita que a gente pode deixar de ser gente? Virar outra coisa? Mas como isso acontece, que nem a gente morrer?” (“Tu ci credi che si possa smettere di essere persone, diventare altro? Ma come succede ‘sta cosa, che è quasi come morire?)
(Alan Minas, A Família Dionti)
Minas Gerais è un grande stato non costiero del Brasile, che contiene ampie campagne fatte di pianure e pendii verdi, una grande abbondanza di acqua, e terra rossa. Per il film A Família Dionti, Alan Minas ha scelto una terra che potesse sembrare sospesa: a tratti un anonimo paesino di contadini, a tratti un’arcadia meno illustre dove si parla un portoghese calmo e melodioso.
Il clima del film è la dolcezza, cui contribuisce la colonna sonora di Curtis Flow che prende a piene mani dal patrimonio del forró e del sertanejo. Le inquadrature sono senza pretese, un po’ perché il film è stato interamente realizzato con soli 200.000 euro, accumulati grazie al ricorso a più di un ente pubblico e grazie ad un atteggiamento di inclusione nel progetto e di condivisione che ha permesso di negoziare sul fronte delle remunerazioni, garantendo però che ognuno venisse pagato – come ci ha assicurato Alan in una lunga chiacchierata che abbiamo potuto fare via webcam – e un po’ perché il cinema a cui si rifà lavora programmaticamente con tecniche basiche. La narrazione oscilla in uno spazio di gioco tra una semplicità quasi infantile, e un realismo magico ben latinoamericano per cui eventi fuori dal normale sono naturalmente inseriti in un mondo per altri versi ordinario.
Il film racconta la storia di Kelton, un bambino ormai cresciuto che inizia una trasformazione. Si innamora di una figlia di circensi giunta nella sua classe, e come conseguenza di questo amore si scioglie in momenti drammatici diventando una pozzanghera di acqua che il padre e il fratello raccolgono con cura in bacinelle finché non torna in sé. Nel mondo gravido del film, l’acqua è il principio di trasformazione, e nulla possono fare i familiari se non adeguarsi all’incontenibile cambiamento di Kelton, e fare i conti con una necessità di cambiare che li riguarda e, in fondo, li spaventa. Lo sguardo dell’autore e regista è segnato dalla benevolenza e da una profonda cura. Ridimensionata la permanenza degli oggetti e delle persone, il buon atteggiamento nei confronti della vita è un equilibrio tra il desiderio di tenere ferme le cose, e la capacità di sposare l’inarrestabile gioco delle metamorfosi suggerito costantemente dalla presenza inaggirabile della natura con i suoi elementi.
È proprio l’amore a incarnare questa esperienza di perdita di controllo nell’abbandono all’altro, nell’apertura al cambiamento che spaventa e che lascia segni indelebili. Kelton diventa per la sua famiglia il portatore inconsapevole di questa verità dolce e difficile, un eletto che eredita dalla madre assente (morta o diventata acqua?) la qualità transeunte del medium. Ma, tra trasformarsi e morire, “che differenza c’è?” chiede retoricamente un personaggio del film. Alan Minas non dà la risposta, e il finale sospeso lascia ognuno libero di decidere se Kelton sia presente in una nuova forma o se non sia più che una corrente o un soffio di vento nella maestosa mutezza della natura. Una scelta originale che incrina la logica del racconto di formazione: l’eroe effettua un percorso ma non si può dire dove questo lo abbia portato. La ragazzina lo riconosce in una piccola nuvola che a tre metri di altezza piove ostinatamente su di lei, che danza felice. Una scelta che dipende anche da una precisa idea del lavoro del cineasta. «Mi piace che i film si arricchiscano grazie alle letture delle persone – spiega Minas – le loro lacune non sono un dispetto, ma un reale invito a partecipare alla loro storia. Quando tu rifletti e crei nella tua mente, stai costruendo insieme a me la storia di questo film, noi stiamo facendo cinema insieme». La benevolenza e la cura che colorano il film sono le stesse che si percepiscono nel modo sincero in cui Alan mostra di desiderare il confronto. «L’esistenza di queste finestre di interpretazione è importante. È anche un modo per fuggire dall’iperrealismo dominante del cinema odierno, soprattutto americano, in cui la creazione è già interamente confezionata: là non c’è affidamento all’altro, non c’è condivisione, non c’è contributo. Per questo trovo interessante lavorare con delle immagini che stimolino. Nel caso dello scioglimento di Kelton, ad esempio, la soluzione stimolante era non mostrarlo. Tutti hanno visto mille volte un effetto simile al cinema, non mostrandolo si dà invece allo spettatore lo spazio per immaginarlo. Si fa un’equazione imagética senza darne il risultato». L’esigenza di una postura attiva dello spettatore è infine una scelta che ha un significato politico. Nel momento in cui il governo di Michel Temer smantella poco a poco, insieme alle politiche di istruzione e di promozione sociale, le strutture di sostegno statale al campo della cultura, la condivisione di un progetto e di un’opera come bene comune che vive del contributo e del confronto collettivo appare essere l’unico orizzonte entro il quale immaginare un futuro per la piccola produzione cinematografica. «Non abbiamo idea di che cosa ci succederà – spiega Alan. E poi, con una risata un po’ amara – ‘futuro’ è una parola che noi non scriviamo più». Per quanto riguarda il presente, Alan lavora a diversi progetti, tra cui spicca la pubblicazione di un libro legato al film. A Família Dionti, uscito nelle sale brasiliane a marzo 2017, dopo essersi aggiudicato il premio di miglior sceneggiatura al Youngabout Film Festival di Bologna e i premi del pubblico ai festival di Brasilia e di Lisbona, continua il suo percorso di costruzione, facendo riflettere, con intelligente semplicità e con la giusta dose di comicità e di fantasia, sul cambiare delle cose e delle persone, sulla morte, sull’amore.
Molto dolce ed estremamente stimolante. Grazie, Paola.
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