A una persona amica, a proposito di scatoloni

di Mariagrazia Sinibaldi

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Mariagrazia Sinibaldi fotografata dalla nipote Sara Cianciotta il 3 dicembre scorso nella Biblioteca civica di Cologno Monzese per la presentazione di “È come vivere ancora”, il libro che raccoglie una selezione dei suoi post. Questione di giorni e avremo anche la versione ebook

Quanto tempo, è trascorso da quella prima tua letterina e quanto dal 3 dicembre, giorno della presentazione del mio libro nella Biblioteca di Cologno! È una sensazione strana quella che provo: tutto mi sembra accaduto ieri e nello stesso tempo mi sembra che tutto si perda nella notte dei tempi. Prima le vacanze estive che, non riesco a capire perché, ma sempre, tutti gli anni, mi fanno volare al di sopra della vita reale, tanto che mi sembra a volte di vivere vite parallele: una sorta di dialogo tra l’una e l’altra esistenza… e poi, odddio, LE FESTE! Quelle che io aspetto tutto l’anno, mescolando i ricordi del passato e le aspettative del presente per il futuro.

E alla fine arrivano, queste benedette feste e sono venti giorni di buriana, di tempesta, di eccitazione e di adrenalina a più non posso, di reincontri affettuosi, di tombola, di sette e mezzo, di spumante e di dolci tradizionali della cui ricetta pare io sia l’unica depositaria, di ricordi e di (diciamocelo pure) catastrofiche mangiate.

Già, i ricordi! Certe volte sono noiosa a me stessa, con questa storia dei ricordi.

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Che Storia è questa?

di Angela Giannitrapani

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Illustriamo la riflessione di Angela Giannitrapani con le immagini di tre libri presentati alla Casa della Memoria di Milano, cominciando da “Aliyah Bet – Sciesopoli, Il ritorno alla vita di 800 bambini sopravvissuti alla Shoah” di Anna Scandella (Edizioni Unicopli). Giannitrapani è l’autrice di “Quando cadrà la neve a Yol, Prigioniero in India” (Tra le righe libri), basato sui diari del padre

La Storia la sappiamo tutti. La Seconda guerra mondiale la conosciamo solo dai libri di scuola. La saggistica ha provveduto, certo, ad approfondire questo o quell’aspetto ma resta il fatto che, se non siamo ultraottantenni, di quella guerra abbiamo in mente ciò che è rimasto dai testi ufficiali. Gli ultraottantenni, bambini e adolescenti di allora, sanno molto di più. Per conoscere, infatti, basta informarsi ma per sapere, per cercare di capire credo sia necessario altro. Coloro che l’hanno vissuta quella guerra la sanno sulla pelle, nelle suggestioni, nei ricordi, in certi timori di oggi, in una fame inestinguibile. Quei brevi flashes, che ancora ci sanno mandare come lampi sui loro ricordi, sono squarci di tragedia privata che più dei proclami e dei bollettini ufficiali ci aiutano a capire. Ma è fatale perdere questo tipo di testimoni e con loro la fisicità e la corposità della testimonianza.

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“Smuggling”, la parola orribile dei trafficanti di esseri umani

di Andrea Di Nicola e Giampaolo Musumeci

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I principali Paesi di origine del traffico di esseri umani (fonte http://www.camera.it/)

Lungo le rotte dell’immigrazione, collocati in punti nevralgici e strategici, esistono tanti «area manager» che coordinano le fasi del traffico. Non sono i manovali dello smuggling (attività che indica il diretto trasporto o accompagnamento dei migranti attraverso le frontiere, ndr), non sono quelli che fanno il lavoro sporco. È una catena di individui indipendenti che interagiscono tra loro. Questi area manager negoziano direttamente le attività necessarie con fornitori locali di servizi che risiedono nei paesi di transito. Garantiscono prestazioni come un passaggio in auto, una sosta di un mese in un appartamento in attesa di un passaporto falso, la corruzione di un agente di frontiera. Questa figura e il migrante hanno spesso la stessa origine etnica.

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«È così che parla la vera fede»

di Alāʾ al-Aswānī

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«Un muro di Berlino in Marienburger Strasse, nel quartiere Prenzlauer Berg, ospita il sorriso di Giulio Regeni» http://berlinocacioepepemagazine.com/ «Giulio Regeni è stato rapito, torturato e ucciso da ufficiali della sicurezza egiziana. Una certezza che gli Usa hanno acquisito dall’intelligence nelle settimane successive al ritrovamento del corpo martoriato del ricercatore italiano al Cairo» http://www.repubblica.it/esteri/2017/08/15/news/regeni_new_york_times-173119796/

Alle otto di mattina Taha e lo sheikh Shaker salirono sulla metropolitana per Helwan. Avevano trascorso intere giornate immersi in lunghe discussioni durante le quali lo sheikh aveva cercato di convincere Taha a dimenticare ciò che gli era successo e a ricominciare una nuova vita. Ma lui era ancora così indignato e pieno di collera da aver rasentato il suicidio più di una volta. Alla fine, al termine di una violenta discussione, lo sheikh gli aveva urlato: “Ma allora cosa vuoi? Non vuoi studiare, né lavorare, non vuoi vedere nessuno dei tuoi amici e neppure la tua famiglia. Cosa vuoi Taha?”.

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Siamo tutte migranti

«Il mio nome è Manuela e vivo in Scozia da 14 anni.

Una volta ho letto che alcuni effetti personali non sono le uniche cose che un rifugiato porta nel suo nuovo paese.

Credo che lo stesso valga per gli immigrati.

Credo di aver portato con me un modo d’essere diverso, una gentilezza diversa da quella dei locali.

Credo che il fondamento dell’integrazione non sia dimenticare chi si è e da dove si viene, ma condividere i propri valori, incorporandoli a quelli del nuovo paese in cui si vive.

Ho avuto il privilegio di lavorare 7 anni con bambini e donne di minoranze etniche e ho imparato molto sull’ignoranza e sui pregiudizi che c’erano in me.

Ho imparato che Musulmani, Buddisti e Cristiani possono pregare per me e ho trovato la mia sorella dell’anima: una bellissima donna Pachistana.

Essere un’immigrata mi ha insegnato che ciò che consideravo estraneo e lontano era in realtà vicino e familiare».

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«Impara», l’esortazione di Edda

di Edda Moretti Pagnanelli

ESORTAZIONE

Bambino,

che hai la fortuna

di andare a scuola,

impara,

e tu,

studente,

non perdere tempo

perché hai la testa piena di sogni!

Più tardi ti potresti pentire

ma inutilmente.

Fornaio: impara,

fra un’infornata e l’altra

apri un libro o un giornale,

prendi tutto quanto c’è di buono.

Impara, muratore:

se sei bravo nel lavoro

ma non sai le regole

della vita

ti crolla tutto intorno.

E tu, vecchia casalinga,

tra una pentola che bolle

e un calzino da rammendare,

impara il linguaggio

dei medici, dei politici,

degli specialisti di parole…

essi spesso le usano

per non farti capire,

ma tu impara,

e non ti dovrai mai pentire.

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Padri, madri, figli e dubbi

di Luca Bartolommei

Ecco un altro brano da ascoltare con i nostri figli. Il titolo, Father and son, è molto chiaro e non lascia dubbi sulle figure che animano la canzone. Due parole sull’album che la contiene. È il 1970 quando Steven Demetre Georgiou, questo il vero nome di Cat Stevens, pubblica il suo quarto LP, Tea for the Tillerman, che contiene, oltre a Father and son, altri brani di successo. Un disco gentile ed equilibrato, acustico e sognante.

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“Harold e Maude” è un film del 1971 diretto da Hal Ashby. La colonna sonora è di Cat Stevens, autore di “Father and son”, canzone sugli incontri e gli addii ai quali la vita ci chiede di prepararci

Alcuni brani dell’album furono inseriti nella colonna sonora di Harold e Maude, tenerissimo film del 1971 di Hal Ashby, insieme ad altre canzoni di Stevens, diventando parte integrante del film stesso. Per inciso, la pellicola narra dell’incontro tra un ragazzo di diciotto anni e una signora di settantanove, della loro amicizia che si trasforma in amore, e pur finendo in maniera drammatica, rimane un tenerissimo inno alla vita. Da vedere, magari anche questo, insieme.

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«Affidavo i miei figli a Gina, mamma sorella»

di Anna Caltagirone Antinori*

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Gina Aguzzi Ciccioli, qui giovane e sorridente, con Maria Vittoria e Fabrizio, i figli di Anna Caltagirone Antinori. L’autrice del post è stata maestra delle elementari di Paola Ciccioli, alla quale ha donato questa foto

Era il 1959 quando mio marito venne chiamato per un incarico a tempo determinato presso la Cassa di risparmio di Urbisaglia. Era un’occasione che non potevamo lasciarci sfuggire. Fernando accettò l’incarico e, per la durata dell’anno scolastico in corso, restai sola tutto il giorno con due bambini piccoli: Marvì di poco più di due anni e Fabrizio di pochi mesi. Ci eravamo sistemati nell’appartamento dell’edificio scolastico, in contrada Collevago del comune di Treia. Stavamo bene, circondati da brava gente impegnata tutto il giorno nei lavori dei campi. Era venuta a vivere con noi una ragazza che badava ai miei figli nelle ore in cui scendevo al piano inferiore per fare lezione ai bambini di una pluriclasse. Le mie giornate si somigliavano tutte, scandite dalle ore di lezione, poi la pappa per i bimbi, il pranzo e le faccende domestiche.

Fernando partiva la mattina presto e tornava a sera inoltrata. La nostra preoccupazione era il mio dover stare sola, in campagna, senza mezzi di comunicazione (il telefono era a Chiesanuova a due chilometri di distanza) e senza mezzi di trasporto con due bambini in tenera età. Fernando non stava tranquillo e fu così che decisi di chiedere il trasferimento. Avevo già abbastanza punteggio, così lo ottenni a Convento di Urbisaglia e alla fine dell’anno scolastico cambiammo residenza.

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«Quelle che Chopin sull’enciclopedia lo cercano alla lettera S.»

di Michele Di Palma

Mentre Sara legge, il padre continua a mangiare. È davvero di poche parole. Alza gli occhi dal piatto solo per guardare la figlia. Ogni tanto scruta Sara, commentando la lettura con piccoli grugniti e imbarazzanti schiocchi di palato. Poi scrolla la testa, si pulisce la bocca con il tovagliolo di stoffa suo personale, alza le spalle e lo lascia cadere sul tavolo. Si rituffa sul piatto, i gomiti alzati, arrotolando gli spaghetti con l’aiuto di un cucchiaio. Mangia rumorosamente, sbrodolando dappertutto. È proprio una bestia il padre di Sara, è la prima volta che lo vedo mangiare. Lo frequento poco perché quando vengo a studiare da Sara, a casa non ci sta quasi mai. Torna tardi la sera dal lavoro, dice lei. Qualche volta lo incrocio per strada, quando vado in Facoltà. Mi limito a un saluto frettoloso e avanzo il passo. Lui si gonfia tutto, come per darsi importanza e con una mano alzata mi saluta chiamandomi Mariotto, anzi, Mariò, una cosa che non sopporto proprio. Mi dice proprio così: «Uè, Mariò…». Che fastidio. No, non ci ho mai voluto nulla a che spartire con il signor Gianni. Lo conoscevo, diciamo così, solo di riflesso. Ora, purtroppo, lo conosco in pieno. Ma fin da quando ho conosciuto Sara avevo, di questa rozzezza, un presentimento. Forse per il mio antico pregiudizio sui padri delle ragazze che frequento: ne ho sempre avuto una paura fottuta. Sara mi ha fatto capire una volta, tra mezze ammissioni, che suo padre è un tipo brusco, che va d’accordo con pochissime persone e che con lei e la madre non ha un bellissimo rapporto. Quando sta a casa, passa tutto il tempo libero a dipingere chiuso nel suo studio. Però quella volta mi ha anche detto che a suo padre sono simpatico, che quel “Mariotto” è una prova d’affetto. Io non lo so, il padre di Sara mi sembra soltanto un animale.

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Canzone per Rita

di Erica Sai

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L’immagine è tratta dal video di “Canzone” di Lucio Dalla, citata da Erica Sai in questo ricordo familiare di Rita Barozzi, morta tre giorni fa a 102 anni (il brano è contenuto nell’album “Canzoni” del 1996)

Rita è morta. Poco fa, sì. Aveva 102 anni, quasi 103 perché li avrebbe compiuti all’inizio di maggio; il 4 per la precisione, proprio come Lukas (il mio quasi nipotino) che invece ne farà due. Non ero lì, però secondo me è morta come è vissuta: senza “disturbare”.

Rita era una parente dal mio ramo paterno, cugina di mio nonno Valente; il nonno che non ho conosciuto perché è morto troppo presto, troppo anche per mio papà che era solo un bambino. È stata madrina di battesimo di mio papà, per quanto ne so in passato erano stati tenuti abbastanza vivi i rapporti con mia nonna che raccontava qualche episodio. A quei tempi c’era anche Livia, una cugina che ha vissuto tutta la vita con Rita e che molti anni fa ha iniziato ad ammalarsi. Comunque, mia nonna non aveva un gran bel carattere, mal sopportava le pesantezze caratteriali di Livia, e non era una persona molto predisposta a tirare per le lunghe le relazioni di aiuto. È stata mia mamma ad entrare nella dinamica e prestare la sua mano. Con la spesa al supermercato, poi con i medici, con l’assistenza in generale. Da decenni possiamo ormai dire.

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La solidarietà che guarisce il mondo

di Maria Elena Sini

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Un’immagine da “Miracolo a Le Havre” del regista finlandese Aki Kaurismäki. Il film è inserito nella rassegna “Kaurismäki in 35 mm” presentata da Fondazione Cineteca Italiana allo Spazio Oberdan di Milano dal 22 maggio al 4 giugno 2017. In programma 13 film, compreso l’appena uscito “L’altro volto della speranza” (http://oberdan.cinetecamilano.it/eventi/cineteca-70-in-35mm-aki-kaurismaki/)

Durante le feste la televisione ci ha propinato film traboccanti di buoni sentimenti: se siamo stati fortunati ci è toccato “La vita è meravigliosa“ di Frank Capra, che viene rispolverato per ogni Natale, se ci è andata male ci siamo beccati film melensi e stucchevoli su renne ferite, alberi di Natale consegnati in ritardo, regali smarriti etc…

Ma, per caso, facendo zapping da un canale all’altro, ho visto su Rai 5 il perfetto film di Natale, una favola moderna con una tematica attuale, che senza retorica e senza enfasi, con uno stile minimalista affronta il problema della clandestinità. “Miracolo a Le Havre” di Aki Kaurismäki è ambientato nella città portuale che dà il titolo al film, dove uno scalcinato lucida scarpe, Marcel Marx, con un passato di scrittore bohémien, entra casualmente in rapporto con un giovane migrante africano, Idrissa, arrivato dentro un container e sfuggito ai controlli della polizia che lo cerca. L’uomo, la cui moglie nel frattempo ha scoperto di avere una malattia che le lascia poco da vivere, si prende cura del ragazzo e cerca di fargli passare la Manica per raggiungere la madre in Inghilterra, facendo rete con i suoi amici del quartiere e cercando di eludere le attenzioni del commissario Monet. Marcel e Idrissa non hanno niente in comune, solo il senso della propria vita marginale e minacciata: l’uomo dalla paura di restare solo e il ragazzo dal fallimento del viaggio che doveva portarlo a Londra.

La denuncia sociale di “Miracolo a Le Havre” sta nella contrapposizione tra Marcel e i suoi amici, persone semplici che però si mostrano subito pronte ad aiutarlo e sostenerlo una volta conosciuto il suo piano per far arrivare il ragazzo in Inghilterra, e un sistema politico e giudiziario cieco e meccanico, nel quale però fortunatamente esistono ancora anticorpi d’umanità d’altri tempi. D’altri tempi infatti è tutta la comunità che abita intorno al porto e d’altri tempi è il commissario, una figura con una grande carica morale, implacabile nell’arrestare i criminali ma generoso con gli indifesi.

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Il gancio delle anime e dei ricordi

di Mariagrazia Sinibaldi

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Questa e le altre foto del post provengono dall’archivio privato di Mariagrazia Sinibaldi e sono state scattate In Marocco alla fine degli Anni ’60

Certamente uno psicologo o qualcuno che eserciti uno di quei mestieri il cui nome inizia con ‘ps’, che studi la mente umana, la psiche appunto, potrebbe spiegare il meccanismo che lega un ricordo antico di un certo tipo ad una recente esperienza di tutt’altro genere. E ancora di più: come il racconto di un’esperienza vissuta da una persona possa legare questa ad un’altra in modo così forte da generare in questa seconda un déjà vu tanto limpido, vivido, colorato e odoroso da trasformarsi a sua volta in vita reale e immanente… Follie? Forse.

«Perché – si chiedeva la Vecchia signora – il racconto del mio amico ha scatenato in me quel groviglio di ganci che mi ha trascinato in tutt’altro mondo e in tutt’altro tempo? Forse perché il mio amico era mio amico un milione di anni fa, perso di vista (complice la vita di ognuno dei due) e casualmente ritrovato? Può essere? Forse.

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«Eravamo come due cavalli che galoppano fianco a fianco»

di Anna Bikont e Joanna Szczęsna

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La poetessa Premio Nobel Wisława Szymborska con lo scrittore Kornel Filipowicz al quale è stata legata ventitré anni. La foto è stata scattata da un’altra poetessa polacca (della quale potete leggere in questo blog “L’esame”), Ewa Lipska, ed è tratta dal sito http://www.wysokieobcasy.pl/

Ewa Lipska ci ha raccontato che la notte di San Silvestro del 1989 Filipowicz e la Szymborska erano andati a casa sua e insieme avevano giocato a Scarabeo:

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