Il panico del terremoto e il sollievo di essere comunità

di Patrizia Cruciani

Sono trascorsi cinque anni ma le tracce del terremoto che ha sconvolto Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo non sono visibili soltanto nei ponteggi che sorreggono case e monumenti lesionati. L’anima delle persone è ancora segnata dalla paura scatenata da quelle scosse devastanti, paura che – come ci racconta l’autrice di questa testimonianza – ha potuto trovare una valvola di sfogo nel senso di comunità che tiene in piedi, e nonostante tutto, tanti piccoli centri della nostra Italia ferita. Come per esempio Urbisaglia, in provincia di Macerata, da cui oggi è arrivato il regalo di questo racconto.

La Rocca di Urbisaglia, nel Maceratese, fotografata oggi dall’archeologa Francesca Pettinari che ringraziamo per averci concesso l’utilizzo di questa immagine

Oddio lu terremotu! Queste le parole che pronunciai la notte del 24 agosto 2016.

Io ho un sonno a prova di cannonate, ma fui svegliata dal forte rumore della casa che si muoveva: aprii gli occhi e vidi le pareti della camera che si alzavano.

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«Macerata è Libera»

di Augusto Pantanetti

Domani, 30 giugno 2021, saranno 77 anni che Macerata è stata liberata dall’oppressione del nazifascismo. L’Amministrazione comunale della città marchigiana, guidata dal sindaco leghista Sandro Parcaroli, con una decisione senza precedenti ha (letteralmente) “snellito” la cerimonia istituzionale in ricordo dello storico 30 aprile 1944 e vietato ai rappresentanti dell’Anpi di tenere il loro discorso. Al punto che l’Associazione nazionale partigiani ha dovuto organizzare un altro incontro pubblico per il pomeriggio, durante il quale verranno letti brani dal libro Il Gruppo Bande Nicolò e la liberazione di Macerata del comandante partigiano Augusto Pantanetti. Vi proponiamo con commozione l’ultimo capitolo.

La bandiera che i partigiani issarono sul Monumento ai Caduti di Macerata la mattina del 30 giugno 1944 dove domani alle ore 19 si terrà la commemorazione delle democratiche e dei democratici maceratesi. La presidente dell’Anpi di Macerata, Lucrezia Boari (della quale trovate un intervento in questo blog) ha scritto: «Una bandiera cucita con la stoffa di un paracadute degli Alleati e dipinta a mano. Un tricolore senza lo stemma della monarchia. La bandiera dell’Italia che sognavano libera e migliore “per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contrario”».

Avanziamo a passo di lumaca. La gente viene avanti con noi continuando a manifestare con gioia, sino all’imbocco della città ormai libera. Con una autocarretta attraversiamo in un lampo la città e laggiù sullo sfondo, anche se piccolissima vista da lontano, laggiù sul monumento alla Vittoria svetta la nostra bandiera. Pino Pinci e i 12 ragazzi del suo gruppo hanno fatto il miracolo; alle ore 11 e 30, cioè ben 5 ore prima che noi si giungesse a Macerata, deponevano il vessillo bianco-rosso-verde sull’Ara che ricorda i caduti in guerra. Ma lasciamo a lui il compito di ricordare quest’ultima azione dei 296 giorni di preludio alla libertà, tanti furono i giorni della nostra guerriglia:

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La storia di una maestra dentro la grande Storia italiana

di Paola Ciccioli

La mente e la sensibilità delle bambine e dei bambini sono scrigni dove alcune immagini, parole ed emozioni si depositano per poi accendersi e indicare la strada agli incroci della vita. A me è successo con la Maestra Antinori, io l’ho sempre chiamata così, la mia maestra delle elementari. La osservavo mentre ci educava a un’altra esistenza possibile e mi dicevo: “da grande voglio assomigliare a lei”. Perché “un’altra esistenza possibile”? Perché noi, i miei amici ed io, venivamo da famiglie dove si parlava quasi esclusivamente il dialetto marchigiano, e la Maestra ci insegnava invece l’italiano. E che bell’italiano.  E perché noi, le mie amichette ed io, eravamo per legge non scritta destinate a studiare lo stretto necessario, abbandonare sul nascere aspirazioni a diplomi o lauree per maritarci assolutamente e quanto prima. E la Maestra, proprio perché maestra, dunque con un titolo di studio, ci dimostrava che invece i limiti e i divieti si potevano oltrepassare, eccome. Ho sempre portato con me il ricordo della Maestra Antinori: io ormai stabilita a Milano e lei nella sua casa alla periferia di Macerata che nei miei pensieri era sempre avvolta nel rosso dei tulipani che avevo visto un giorno passando accanto al suo cancello.

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“Sembrava un attore e parlava un italiano perfetto”, così la maestra si innamorò del suo Fernando

di Anna Caltagirone Antinori

Ci siamo quasi. La Maestra Anna sta completando il lavoro di scavo e scrittura dei suoi ricordi, ora a disposizione di chi vuol guardare un po’ più da vicino alle trasformazioni del nostro Paese e del nostro sistema scolastico e usare come lente di ingrandimento la storia di una ragazza che scappa dalla guerra e da Palermo per trovare nelle Marche la possibilità di vivere, diventare insegnante e costruire una famiglia. Dopo il bellissimo incontro del 14 ottobre scorso nella Biblioteca di Urbisaglia, dove la Maestra ha riacceso l’affetto e la stima di quando abitava e insegnava nella frazione Convento (ora risiede a Macerata), ci prepariamo a una nuova occasione di condivisione pubblica della sua esperienza. Seguiteci, vi daremo presto tutti i dettagli.

Grazie a Giulio Pantanetti che ci ha inviato “Informando”, il periodico dell’Amministrazione comunale di Urbisaglia (Mc) che ha dato molto spazio all’incontro in Biblioteca con la Maestra Anna Caltagirone Antinori

Vinsi il concorso magistrale nel 1951 e per l’anno scolastico 1951-52 fui assegnata alla scuola elementare statale di Monticole, frazione di San Severino Marche. Era una sede scomoda che raggiungevo solo col cavallo di San Francesco, cioè a piedi. La corriera mi lasciava sulla strada provinciale, a valle di un monticello chiamato Pitino e dopo circa cinque chilometri in salita arrivavo alla sede scolastica.

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«La mia Macerata, città che dimentica»

di Anna Bartolacci

Nella foto di Luna Simoncini, il corteo contro il razzismo e il fascismo che sabato 10 febbraio ha sfilato per le strade di Macerata e di fianco al simbolo della città, l’Arena Sferisterio. Di Macerata è l’autrice di questo post, Anna Bartolacci, professionista molto conosciuta nel centro marchigiano, anche per la sua attuale attività di commerciante. Proprio in queste ore, il ministro dell’Interno Marco Minniti ha definito «una rappreseglia aggravata dall’odio razziale» i colpi di pistola esplosi dal maceratese Luca Traini contro immigrati di origine africana dopo il ritrovamento del corpo fatto a pezzi di Pamela Mastropietro. Per l’orrenda fine della diciottenne romana sono ora indagati quattro nigeriani (http://www.ansa.it/marche/notizie/2018/02/12/pamela-ce-un-quarto-indagato_825dda63-2bde-4028-a9cd-11d970210b28.html)

Macerata, la città che dimentica che l’orrore e la follia sono appannaggio di tutti, non solo di chi non è italiano. Che ha dimenticato che un suo illustre concittadino, Bruno Carletti, direttore del centralissimo Teatro “Lauro Rossi”, nel non lontano 2006 picchiò la sua ex moglie con un bastone fino a ridurla in fin di vita, per poi gettarla, chiusa in un sacco nero dell’immondizia, dentro un cassonetto, dove, neanche un quarto d’ora prima del passaggio del camion di raccolta, fu scoperta per puro caso da un ragazzo di passaggio.

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Il viaggio in Germania di zia Adina: sola, analfabeta e con il bagaglio dell’amore

di Eliana Ribes

Ma quale forza può sprigionarsi da una donna? Oggi la domanda riguarda Adina Malpiedi, la nostra zia Adina, che ha vissuto a Urbisaglia, nelle Marche, paese dove è nata anche l’autrice del post. Moglie di Virginio Agostinelli e madre delle gemelle Marina e Rosina, questa donna semplice e sorridente, ha sfidano (ma senza saperlo) pregiudizi e consuetudini, per stare accanto alla figlia emigrata che stava per partorire. Ecco la seconda e ultima parte del racconto di Eliana Ribes.

Adina Malpiedi, zia Adina, con le figlie Marina e Rosina (che ringraziamo di tutto cuore per aver fornito a Eliana Ribes questa foto dell’archivio privato)

Zia Adina era una bella donna, alta, robusta, con i capelli neri sempre legati a crocchia dietro la nuca. Da giovane aveva lavorato in filanda, ma da quando questa era stata chiusa non le metteva pensiero alcun genere di fatica. Si prestava anche ad aiutare nonno che faceva il cementista, un mestiere pesante. Me la ricordo con dei manicotti grigi fin sopra il gomito, che si infilava per preservare la pelle dall’irritazione del cemento e per non sporcarsi. Sempre silenziosa e attenta alle indicazioni di nonno che era molto esigente. Facevano tutto a mano, con delle forme di metallo o di legno, anche l’impasto, perché non c’era certo l’impastatrice. Comunque, un’ora prima che ritornasse a casa il marito, zio Virgì, che faceva l’operaio e andava a lavorare in bicicletta (doveva percorrere una quindicina di chilometri), lasciava perdere tutto e gli preparava la cena. Il profumo di quello che cucinava invadeva tutta la casa e mi faceva venire l’acquolina in bocca.Per me, comunque, l’impresa più memorabile è stata quando ha affrontato da sola, senza sapere né leggere né scrivere, il viaggio per la Germania. Continua a leggere

«La Grande Guerra le aveva tolto il marito, l’amore di una vita e un padre per il figlio»

di Eliana Ribes

«”I fiori della guerra” è un’installazione realizzata dall’ Associazione artistico culturale Fucina Alchemica ad opera di Alessio Spalluto, che vuole ricordare il sacrificio e le sofferenze di tutti i militari caduti nella Grande Guerra». L’installazione, che rimarrà esposta al pubblico a Urbino (in via Domenico Gasperini) fino al 6 settembre 2018, è segnalata nel sito della presidenza del Consiglio dei ministri dedicato al centeneraio della prima guerra mondiale (http://eventi.centenario1914-1918.it/it/evento/i-fiori-della-guerra)

Continua il racconto su Maria Cosimi, che Eliana Ribes chiama «nonna Longhèna», diventata moglie nel 1914 e vedova nel 1915.

Nonna Longhèna si era portata in dote anche una collana di coralli veri, quanto mi sarebbe piaciuto ammirarla, ma negli Anni ’50 l’aveva venduta, come tanti altri abitanti della zona, a certi imbroglioni che passavano per le case e che gliela avevano pagata tre soldi. La fede, invece, l’aveva dovuta dare alla patria, come se non fosse bastato quello che le aveva tolto durante la prima guerra: il marito, l’amore di una vita e un padre per il figlio. Aveva dovuto dare ancora, per un’altra guerra, quella del Duce!

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I gioielli segreti della nonna che nascondeva il viso sotto il fazzoletto

di Eliana Ribes

“La raccolta di fascine – Segheria campo Rossignolo”: ecco uno dei 50 scatti della mostra “La guerra negli occhi, la guerra nel cuore”, allestita a partire da sabato 16 settembre 2017 nel foyer dello Spazio Oberdan di Milano dalla Fondazione Cineteca Italiana che alla Grande Guerra dedica anche una rassegna con 5 lungometraggi e due documentari (http://www.cinetecamilano.it/rassegna/la-guerra-negli-occhi-la-guerra-nel-cuore)

Quand’ero piccola avevo due nonne, come tutti. Una, la madre di babbo, abitava con me, l’altra, la madre di mamma, stava di fronte a casa mia, dall’altra parte della strada. Si chiamavano tutte e due Maria; io, per distinguerle, la prima la chiamavo nonna Longhèna, la seconda nonna Lizzirina.

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«Cosa ti è rimasto di me, la tua maestra?»

di Anna Caltagirone Antinori

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Anna Caltagirone Antinori con Paola Ciccioli quando “la maestra Antinori”, così i suoi allievi la chiamano e la ricordano, ha insegnato nella scuola elementare della frazione Convento di Urbisaglia, nel Maceratese (foto dall’archivio privato della giornalista che ha inventato e dirige questo blog)

Da bambina il mio gioco preferito era fare la maestra. Ripiegavo più volte un foglio di carta e ritagliavo con le forbici il profilo della sagoma di un pupazzetto e veniva fuori una fila di femminucce con le sottane o maschietti con i pantaloncini, li coloravo e li mettevo seduti in fila su scatole di cartone. Sul tavolino preparavo la mia cattedra: una sveglia, un quaderno per il registro, il calamaio e la penna. Al muro appendevo una lavagnetta che mi era stata regalata e con il gessetto scrivevo i nomi degli alunni. Facevo l’appello e mettevo vicino ad ogni nome chiamato una crocetta o un segno meno, io stessa rispondevo: presente o assente. Scimmiottavo la mia maestra che ammiravo moltissimo e di cui avevo tanta soggezione.

Col passare degli anni mi convinsi sempre di più che ero portata per l’insegnamento. Frequentai l’Istituto magistrale e a 18 anni mi diplomai. Nel 1946 cominciai ad insegnare nelle scuole sussidiate: niente stipendio, a fine anno veniva il Direttore didattico ad esaminare gli alunni. Per ogni promosso il Comune ci assegnava un compenso. Era importante raggranellare punti per andare avanti in graduatoria e dopo 4 anni di sacrifici, ottenni l’incarico annuale che per me voleva dire stipendio mensile e indipendenza.

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Emma e un sorriso che sa di preghiera

di Eliana Ribes*

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Il sorriso di Emma Lulani, fotografata da Francesco Cianciotta per la mostra “Radici” ideata da Paola Ciccioli. Questo post di Eliana Ribes è stato scritto prima che Emma, novantatreenne, fosse costretta a lasciare la sua casa di Urbisaglia, nelle Marche, a causa del terremoto. Ora è sempre Eliana che ci aggiorna: «Emma sta a Macerata dalle sue, chiamiamole così, “consorelle” della Mater Misericordiae, in via Crispi. Ha preferito, e a ragione, questa sistemazione a quella della Casa di riposo dove, avendo la casa inagibile, si è trattenuta solo qualche giorno. Mio marito Silvano è andato a farle visita e l’ha trovata benissimo». Una carezza, Emma (e continua a farci pregare per Lina, grazie!)

Emma ad Urbisaglia è Emma, non occorre aggiungere il cognome. Ha novantatré anni ma è ancora piena di vitalità, circola per il paese, si interessa delle situazioni famigliari più critiche, cerca di capire se può fare qualcosa, e se non può fare niente ritorna a casa e recita una preghiera per chi ne ha bisogno. Il resto della giornata lo passa prevalentemente a confezionare a ferri o all’uncinetto dei lavori che le sono stati commissionati, il cui ricavato devolve alle missioni, interrompendosi ogni tanto per fumare una sigaretta.

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Serena, la parrucchiera che dispensa libri e felicità

di Margherita Rinaldi*

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Serena Mercanti, al centro con l’abitino chiaro, è qui con il reparto parrucco del Macerata Opera Festival. «Lavorare allo Sferisterio era nella mia scatola dei desideri», ha raccontato alla giornalista e blogger Margherita Rinaldi

Una cosa che ti colpisce quando conosci Serena Mercanti è che nel suo salone di parrucchiera c’è una piccola biblioteca. Cioè: mentre ti fai i capelli puoi leggere un libro, oppure puoi sfogliare gli album di foto dei suoi viaggi, o il catalogo di qualche mostra importante: arte, architettura, cinema… .

I libri li prendi, li cominci, poi se vuoi prosegui la lettura la volta successiva. Come ho fatto io con Eva Luna della Allende. Eva Luna, che poi è anche il nome (e cognome) della bimba di Serena. Per tutto questo ti viene voglia di farle un po’ di domande. E scopri una bella storia, quella di una ragazza che voleva fare la parrucchiera e che con questo mestiere è cresciuta, fino a coniugarlo con la moda, con l’arte, con lo spettacolo, con l’amore per la città dalla quale ha deciso di farsi adottare.

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«Finalmente ho pianto»

di Giuseppe Di Modugno*

GIARDINI DIAZ

giardini diaz

I Giardini Diaz di Macerata. Con un grazie e gli auguri di Buon Anno a Loretta Bentivoglio dell’ufficio stampa del Comune che ci ha fornito l’immagine

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«Due anni fa mi hanno diagnosticato la Sla, oggi dico che la cura riguarda tutti»

di Lina Forconi*

da Il Resto del Carlino, edizione di Macerata

Lina

Lina Forconi a Urbisaglia, il paese marchigiano in cui risiede. Laureata in Psicologia a Roma, ha esercitato la propria professione nelle scuole, in costante contatto con adolescenti in difficoltà

Sembrava una banale storta della caviglia destra, ma che qualcosa non quadrasse l’ho capito quando, improvvisamente, ho sentito la gamba destra rigida e quel giorno, nel marzo del 2012, sono riuscita ad arrivare a scuola solo con grandissima fatica. E pensare che fino a quel momento parcheggiavo distante per poter fare qualche passo a piedi! In ogni caso, almeno all’inizio, diedi tutta la colpa a quella storta. Successivamente ho cominciato ad inciampare, e qualche volta sono caduta, ma pensavo, o meglio i familiari e gli amici pensavano, alla caviglia. Poi nel mese di novembre è arrivata la diagnosi: Sla.

Il medico usò un eufemismo, malattia del motoneurone, perché disse che prima di una diagnosi così grave preferiva sentirsi con un centro specializzato. Potete immaginare quello che si prova.

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Cuerpo de mujer, Corpo di donna

di Pablo Neruda

Cuerpo de mujer

Sono i versi del poeta cileno che ieri ho voluto dedicare a Ombretta Buongarzoni per l’inaugurazione della sua mostra alla Locanda delle Logge di Urbisaglia, l’antro magico in cima a una delle colline della “terra delle armonie” maceratesi nel quale entrambe siamo nate.

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Sapevo cosa fosse la Sla. Ma non quello che la mia amica in carrozzina avrebbe dovuto affrontare

di Paola Ciccioli

Lina, nella versione con gli occhiali, e il suo coro

Lina Forconi, nella versione con gli occhiali, e il suo coro

Certo che sapevo cosa fosse la Sla. Libri, film, il nero al lutto della nazionale per la morte del calciatore Stefano Borgonovo, i malati costretti ad assediare il Parlamento per chiedere fondi per l’assistenza domiciliare. Certo che sapevo.

Quel che non sapevo è che, un anno e 10 mesi fa, di Sclerosi Laterale Amiotrofica si sarebbe ammalata la mia più cara e amata amica dai tempi dell’infanzia, Lina. Lina Forconi, psicologa, appassionata di musica, di canto, di buone letture e di tutto ciò che è bello.

Tre anni più di me, la sua casa e la mia separate da un prato dove continua a invecchiare un olmo sotto cui hanno chiacchierato e preso il fresco le nostre madri. A Convento di Urbisaglia, quindici minuti di macchina (traffico permettendo) da Macerata, dove c’è lo Sferisterio e dove da bambine andavamo a sentire le opere. E, se a un certo punto faceva freddo, perché al teatro all’aperto quando noi eravamo piccole capitava che facesse freddo anche in agosto, allora ci coprivamo sotto lo stesso plaid. Continua a leggere