di Daniela Natale*
Mica scemo, lui. Il bel maglioncino nuovo, morbido e caldo, costato un occhio della testa, se l’è ben messo in valigia. La felpa grigia, invece, ormai logora e con la macchiolina, mai più andata via, di vernice verde sulla schiena, quella no, non l’ha voluta. È ormai vecchia quella felpa, l’avrà indossata quelle mille e passa volte in casa, nei weekend, quando il mondo spariva e la pioggia di Milano ci invitava a chiuderci in casa e guardare un dvd senza pretese. La indossava pure quando si metteva in testa di riparare i vari rubinetti, interruttori e fili elettrici che con cadenza regolare decidevano di autodistruggersi, sempre di pomeriggio e sempre di domenica. Non chiamava mica un tecnico, lui. Non subito. Svitava, rompeva, tagliava e sbuffava, finché non c’era più nulla da fare se non chiamare qualcuno che aggiustasse quello e l’altro.
Me la lascia li, quella felpa, nel primo cassetto dell’armadio, intrisa di ricordi, tanti, e del suo odore, che ha infestato quel maledetto cassetto. Ieri sera, ascoltando un pezzo di Collins e obnubilata dalla guerra ormonale che mi abbatte una volta al mese, l’ho presa in mano, come in una delle migliori scene al rallentatore di Beautiful, sono crollata… e mi sono sentita stupida: perché parlottavo con una felpa grigia con la scritta University non so che cosa e perché ci ero ricascata. Di nuovo.
Dopo una doccia necessaria e rigenerante, le alternative delineate ai miei occhi erano sostanzialmente due: restare in casa, vittima della mia stessa valle di lacrime, o uscire, chiudendo per qualche ora i miei fallimenti e le mie incazzature dentro quella casa.
Facile. Esco. Anzi, prima chiamo Valeria. Senza troppi fronzoli, ma insistendo più del previsto, la convinco. Il resto è storia.
È molto difficile coltivare rapporti profondi qui, a Milano. Valeria fa parte di quelle due o al massimo tre persone su cui so di poter contare, che ci sono sempre, per una parola di conforto o per un pomeriggio di shopping sfrenato o perché devo staccare la spina. Lei è il tipo di donna che si basta da sola, che di uomini nella sua vita ne ha visti passare tanti e conosce molto bene cosa passa loro per la testa, quando e se decidono di usarla. È la compagna ideale soprattutto quando si tratta di analizzare nel dettaglio l’epilogo di una storia andata male, vede i pro e i contro, e con assoluta freddezza e razionalità finisce per trasmetterti il quadro completo, suggerendoti le mosse future che puntualmente si rivelano vincenti. Ieri sera, anche a causa dei cocktail particolarmente carichi di alcol, le è mancata la sua proverbiale lucidità e, tra una pizzetta e una tartina, si è lasciata andare a più di un insulto al mio amante, e al genere maschile nella sua totalità. Ci siamo sfogate, insomma. Ben venga una sana serata di chiacchiere rosa senza senso, per sentirci ancora vive e reattive in questa città.
Ricordo come fosse oggi l’impatto col genere umano milanese. Ero appena arrivata in Stazione Centrale, con uno di quei treni-galera che di notte spostano masse informi di gente odorosa di mortadella dal profondo Sud Italia al lontano Nord. Un mondo parallelo che iniziava alle 19.55 a Lecce e finiva dodici, dico dodici, ore dopo a Milano. Avevo studiato perfettamente il percorso che dalla stazione mi avrebbe portato in zona Bicocca per il colloquio in Pirelli, dovevo prendere l’82, ma, come memorizzato da bambina, sempre meglio chiedere all’autista, che non si sa mai. Alla mia domanda circa la direzione dell’autobus, l’autista (non) rispose, indicandomi la targhetta “Vietato parlare al conducente”.
Sti cazzi, pensai.
* Questa è la seconda puntata di un racconto che Paola Ciccioli e Daniela Natale stanno scrivendo “in diretta” sul blog. Qui la prima parte: Diamoci all’alcol, sotto un cielo affumicato