Pink Floyd, il lato oscuro di quelle trenta sterline a Clare Torry

Testo e foto di Luca Bartolommei

Mezzo secolo dalla pubblicazione di un disco dei Pink Floyd che si può definire, come pochi altri, storico. The Dark Side Of The Moon.

Ogni parola che si scriva o si dica sui Pink Floyd suscita polemiche. Il fatto mi sfinisce e chiedo a chi legge di evitare di farlo. Troppa noia mi deriva dai sotuttoìo, dai biografi, dagli esegeti, da chi conosce perfino quale dentifricio usasse Nick Mason nel 1970 e quanti, e se, ne abbia cambiati nel corso degli anni. Se poi si comincia a parlare di David Gilmour entriamo in un girone più che infernale da cui non si esce vivi. Questo è un post tipo “Astenersi perditempo” (e rompiballe). Ciò premesso, nel mese di marzo del 1973 (e anche qui non facciamola tanto lunga) veniva pubblicato l’ottavo album dei Pink Floyd dal titolo The Dark Side Of The Moon.

In quei giorni, moltitudini di persone ascoltarono il disco, molte cose cambiarono, e molte cose si svilupparono, e molte persone si stupirono, e molte persone incominciarono a suonare chitarre e anche altro, e molte persone continuarono a farsi gli acidi e gli spinelli ma con un sottofondo di musica unica. Tanti altri apprezzarono questo album anche se non si facevano né acidi né spinelli (o “joint”!). 

Io penso di aver ascoltato per la prima volta il long-playing l’anno successivo alla pubblicazione, ma ricordo benissimo il primo 45 giri nel juke-box al bar “della vecchia” che conteneva il brano che è tuttora il mio preferito di tutto l’album. Dark Side è stato il protagonista di innumerevoli feste in casa di amici, non tanto per lo sballo e balle varie ma per il ballo, in quanto Us and them dura quasi otto minuti ed è un lentone di quelli che mentre suona fai in tempo a conoscerti, innamorarti, baciarti e anche “mollarti”, se poi si lasciava andare anche Any colour you like i minuti diventavano almeno dieci. Possibile trionfo su tutti i fronti se si faceva scorrere tutto il resto fino al finale glorioso di Eclipse. Io, però, dopo un po’ ascoltavo solo la musica e mi distraevo e le ragazze (sì, ero etero) a volte ci rimanevano male.  Ma poi si ricominciava con Harvest e tutto si sistemava.

Nascita, morte, fuga, lo scorrere del tempo, il denaro, i rapporti interpersonali, la (inutile!) guerra, la pazzia. Una metafora della condizione umana, una sequenza di situazioni e stati d’animo che viviamo tutti i giorni. I testi di Roger Waters non perdonano, a quindici anni ascolti qualcuno che ti dice che “in un certo senso il sole è uguale a quello di ieri ma sei più vecchio, con meno fiato e di un giorno più vicino alla morte”. Orcocan, può dare fastidio ma è vero, c’è da rifletterci. Poi però parte uno dei due assoli che Gilmour suona nel disco e la situazione diventa più rilassata.

In quel tempo, una moltitudine di persone pensava che tutto dovesse essere un po’ fricchettone e un po’ ideologizzato, un po’ cioè-veramente-prendebene, un po’ sempre femminista, un po’ “corretto”, un po’ straccione (finto) e sciatto (vero), l’importante era essere liberi. E libere (sorry). Anche somare e somari.

Infatti ecco “Breathe, breathe in the air”, con queste parole inizia ‘sto monumento del rock, e siccome che siamo asini, lo si traduce con “Respira, respira nell’aria”. Ora, santamadonna, spiegatemi cosa vorrà mai dire compiutamente “respira nell’aria”, senza LSD ma cercando invece di usare il cervello. Vorrà dire che “sei sospeso per aria come un palloncino e ruoti su diversi assi come fossi in assenza di gravità e la storia ti prende bene quindi sei felice, respiri, anzi respira!”? No, testone e testoni, vuole semplicemente dire “Respira, inspira l’aria” perché andrebbe letto “Breathe in – the air” quasi un imperativo. Ma perché? Perché è appena nata una creatura e, di solito, è meglio che respiri… Le quattro urla femminili che precedono il primo accordo (miminorenòna, che dopo cinquant’anni è ancora un brivido con stranguglione ogni volta che lo ascolto) sono infatti relative alla metaforica venuta in questo mondaccio di una o un nuovo bebé. Non vi dico cosa certamente erano anzi, dovevano essere, (le urla) secondo il pattuglione di ricciocapellute (stereotipo) tondoocchialute (stereotipo) lungogonnate/zoccolcalzate (stereotipo) che si confrontava con noi poveri maschi-maschietti ciollandari durante le chiacchierate al liceo Cremona o alle feste di cui sopra. Tanto per non parlar di stereotipi.

E poi lei, lei, Clare Torry, che lascia giusto qualche battuta di introduzione al pianoforte accarezzato da Richard Wright per poi farci precipitare senza possibilità di salvezza con la sua voce, i suoi vocalizzi, le sue grida, i sospiri, nel gorgo profondo di una delle più belle improvvisazioni che potessimo mai pensare di ascoltare. Ad alto volume The Great Gig In The Sky ti può far male, ti può uccidere. Infatti il pezzo tratta della morte. Inciso nel pomeriggio di una domenica, pare al secondo take, per il bel compenso di 30 sterline, il brano ha fruttato dopo anni e una causa risolta per via extra-giudiziale, una pensione più che d’oro a Clare Torry che se ne è vista riconoscere, finalmente e doverosamente, i diritti d’autore. Per la cronaca, quei furbacchioni di Roger Waters e compagni, non avevano nemmeno citato nei crediti la signorina brunetta col taglio a caschetto che aveva fatto quel po’ po’ di performance, che a mio parere ha dato un’identità precisa a una traccia che segna uno dei momenti più importanti dell’intera opera. Brava Clare!!! Anche per questo brano, in quei giorni ma penso duri ancora, la somaraggine di tradurne il titolo come “Il grande concerto nel cielo” era, come l’è che se diseva allora…, ah sì, egemonica, così come le considerazioni strampalate sul colore della “voce” e tutto il resto, della Torry. Ma tant’è. Anzi, fu.

Sul 45 giri di cui parlavo prima il lato A aveva incisa Money, sul retro c’era Any Colour You Like, che è, può sembrare strano, il mio brano preferito. Penso anche che contenga il terzo assolo che Gilmour esegue in Dark Side, forse non così celebrato come quelli di Time e Money, ma un signor assolo a tutti gli effetti. E qui mi sono dato l’assist per parlare di una versione dell’amatissimo album che secondo me è imbattibile.

Metà settembre 1974, Wembley Empire Pool, i Pink Floyd in tour con una scaletta straordinaria. Loro quattro a suonare con Dick Parry al sax e due vocalist, Venetta Fields e Carlena Williams delle Blackberries.

Musica ridotta all’essenziale, dinamiche pazzesche, la band che suona come poche altre volte, in questa formazione. Le due coriste che fanno le ripetizioni dell’eco su Us and them, il brevissimo solo di Gilmour in Breathe, il solo a mio parere monumentale su Any Colour dove si capisce, ma bene, che cosa può fare un Leslie che gira a tutta. Io resto sempre a bocca aperta e consiglio a chi mi legge di ascoltare questo concerto straordinario che contiene altri brani memorabili come Echoes con l’assolo di sax piuttosto che una versione “sperimentale” di udite udite, Shine On You Crazy Diamond. Il mio brutto carattere mi impone di parlare anche della traduzione somarissima del titolo di questo brano, perché ho letto cose tipo “Brilla su di te, diamante pazzo”. Amen.

Tornando al nostro LP del cuore per i saluti, spero solo che al di là delle parole che in tanti avremo sicuramente spropositato sull’argomento, rimangano la voglia e la voluttà di ascoltarlo ancora e ancora e ancora non dimenticando che “tutto ciò che è sotto il sole sembra (è) a posto, ma il sole è eclissato dalla luna”.

Ciao, I’ll see you on the dark side of the moon per il centenario!

#donnedellarealta #donnedellarealtablog

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Ecco The Great Gig In The Sky con Clare Torry, dal vivo – 1990

 

 

 

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