Dato che vado a Dublino

Quasi un apologo sulla “Chi”izzazione del giornalismo italiano

Paola Ciccioli in Irlanda, luglio 1992 (il camper è di Leonardo Angeletti)

Paola Ciccioli in Irlanda, luglio 1992 (il camper è di Leonardo Angeletti)

di Paola Ciccioli*

I

ALL’ORA DI CENA

«La giornalista irlandese Elisabeth Murphey è stata trovata uccisa questa mattina nella sua casa di Dublino. La giovane cronista aveva realizzato dei servizi sui collegamenti tra la malavita organizzata e alcuni ambienti politico-finanziari del suo Paese. La Murphey, che lo scorso anno aveva vinto il Premio internazionale di giornalismo Veritas, aveva 33 anni. Le hanno sparato un colpo alla nuca da distanza ravvicinata».

Tutto qui. Quando il conduttore del telegiornale finì di leggere queste nove righe, dallo schermo scomparve anche l’immagine di una ragazza dai capelli rossi e un sorriso da liceale. Senza audio, si sarebbe potuto pensare a un servizio sugli esami di maturità. E invece era la notizia di un omicidio.

«Dio mio, sai che la conoscevo!», a Francesca la forchetta scivolò dalle mani e cadde con un tonfo attutito sul manto di insalata che aveva nel piatto.

«Conoscevi chi?», le chiese Paolo, suo marito, che fissava come ipnotizzato la Tv.

«Ma come, non hai sentito di quella poveretta? Elisabeth Murphey, la collega irlandese che hanno ammazzato. L’avevo incontrata all’Università di Pisa. Ti ricordi quella volta che sono andata a seguire il seminario sul giornalismo del Terzo Millennio… Poveretta, c’era pure lei… Sarà stato due anni fa…».

«Eh, sì, sono i rischi del mestiere», aveva commentato Paolo senza staccare lo sguardo dal video dove si rincorrevano, lampeggiando, una discarica, un carro armato caracollante su una piazza deserta, un salone foderato di arazzi, un pallone calciato da un ragazzo dalla pelle scura.

Saluti, sigla, pubblicità.

Francesca aveva continuato a fissare il marito, muta. Poi aveva spezzato il torpore di Paolo con una specie di lamento sillabato: «I-ris-chi-del-me-sti-e-re? I ris-chi-del-mes-ti-e-re-di-chi?».

Paolo si rese conto che ormai la cena era andata. «Dai, amore», piagnucolò, «non incominciare. Possibile che anche stasera ti va di aprire il dibattito. E dai, mica siamo al Circolo della stampa. Che cavolo. Questa è casa nostra, vorrei farti notare, non la sede del convegno “Media, quale futuro”.

Era in piedi. Fissò sconsolato l’arrosto di vitello che aveva scelto e preparato con cura. Poi si diresse verso la cucina e nello scaraventare le fette di carne sottili e irrorate di salsa nella pattumiera, riprese: «Riusciamo a cenare insieme, quando va bene, una volta alla settimana, ed ecco qua come va a finire. Domenica scorsa mi hai fatto una testa così perché secondo te dovevo rifiutarmi di fare l’intervista a Totuccio Reina. «È uno scandalo! Una vergogna!». Va bene, hanno voluto che gli chiedessi una sua previsione sul campionato. Ma che palle! Prendi tutto sul serio. In fondo non ci vedo niente di strano se si alleggeriscono un po’ le pagine. ‘Sto processo alla cupola di “Roba Nostra” rischia di andare avanti cent’anni, sai poi alla gente quanto gliene frega..».

Francesca scattò in piedi: «Ma che ti è successo, Paolo? Alleggerire le pagine? Ti rendi conto di quello che dici? Quello è un boss della mafia, il boss…». «Lasciatelo dire», la interruppe il marito. Tu stai attraversando un momento difficile e secondo te dovrebbe essere lo stesso per gli altri. Vorresti che il mondo intero organizzasse un’assemblea permanente sulla crisi dell’informazione. E la morale di qui, e l’etica di qua. Questa è la verità, altrimenti non si spiegherebbe come mai la morte di…, come si chiama quella irlandese?, altrimenti non si spiegherebbe come mai un fatto del genere, tutto sommato nell’ordine delle cose, dico io, possa sconvolgerti così tanto».

Stavolta era stata Francesca a correre a infilare la cena nella pattumiera. «No, Paolo. Non sto affatto confondendo cosa è successo a me con quello che sta succedendo alla nostra professione. A noi. A te». La interruppe il telefono. Paolo si precipitò verso il cordless appoggiato sul televisore da dentro il quale, nel frattempo, aveva attaccato ad agitarsi una signora sorridente e molto scollata».

«Oh, signora Rita, salve. Sì, grazie, me lo passi». «È quel rompiballe del direttore», fece lui con un filo di voce, non prima però di aver coperto la cornetta con la mano.

«Ciao, direttore, come va? Ancora al giornale?». Pausa. «Sì, certo. Ne stavo giusto parlando con mia moglie». Pausa. «Subito? Dublino? I precedenti?». Pausa. «Ho capito. Sì. Certo, certo. È chiaro. Occhei». Una pausa più lunga, poi i saluti: «D’accordo, direttore. Ti chiamo appena ho qualcosa». Rimettendo a posto il telefono portatile, Paolo zittì il televisore. Francesca stava sistemando i piatti nella lavastoviglie. Lui la prese per le spalle, la costrinse a voltarsi. Iniziò con voce dolcissima: «Ecco, lo vedi. Mi mandano a Dublino a seguire quella storia della tua Murrey».

«Murphey», lo corresse lei.

«Esatto», fece Paolo con il tono del presentatore di un gioco a quiz che dà per buona la risposta del concorrente. «Vedi», riprese, «che non è poi tutto così catastrofico come dici tu. Il direttore vuole pompare la storia, vuole un’inchiestona, vuole testimonianze, ricostruzioni, precedenti. Ammazza quanto gli piace ‘sto omicidio…». Lei si liberò dall’abbraccio. Paolo tornò verso il telefono: «Fammi chiamare subito la Air Lingus per sapere a che ora parte il primo volo». Francesca mise sul fuoco un pentolino. Infuso di camomilla. Paolo prese le Pagine Gialle alla ricerca del numero della compagnia aerea. Mentre sfogliava le chiese: «Amore, scusa. Ti ricordi per caso come si chiama il cantante solista degli U2? Sai, quel fustaccio…, quello che porta sempre gli occhiali strani, spaziali, dico io».

«Chi?».

«Dai, quello che pare un umanoide, un replicante uscito dritto dritto da una sequenza di quel film… Sai quel film dove piove sempre…».

«Bono, vuoi dire?».

«Ah, sì, lui».

«Che c’entra Bono con la Murphey?».

«Ma no, niente. Il direttore dice che, dato che vado a Dublino, forse è il caso che gli faccia un’intervista…».

«Perché, esce un nuovo disco?».

«No, no. È che pare che Lady Diana si sia presa una cotta per lui. Allora, dato che…».

La porta dell’ingresso sbattè con il boato del tuono.

Paola Ciccioli nei dintorni di Seattle, autunno 1996 (foto di Dave Ball)

Paola Ciccioli nei dintorni di Seattle, autunno 1996 (foto di Dave Ball)

*Pubblicherò sul blog soltanto questo primo capitolo, perché tutto il romanzetto verrà stampato su carta e corredato da elementi e analisi di realtà. L’ho scritto quasi interamente – un po’ per celia un po’ per non morir – nel 1996 a Seattle, dove mi ero “rifugiata” per sottrarmi allo scempio dei percorsi professionali consumato nella redazione di Chi, “fabbricato” un anno prima dalla Mondadori e affidato a Silvana Giacobini. La quale, chi si somiglia si piglia, fece decollare la stella Alfonso Signorini, ora alla guida di quel settimanale. Che ha contagiato, specie nella prima fase, anche i quotidiani un tempo autorevoli.

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