«Cosa ti è rimasto di me, la tua maestra?»

di Anna Caltagirone Antinori

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Anna Caltagirone Antinori con Paola Ciccioli quando “la maestra Antinori”, così i suoi allievi la chiamano e la ricordano, ha insegnato nella scuola elementare della frazione Convento di Urbisaglia, nel Maceratese (foto dall’archivio privato della giornalista che ha inventato e dirige questo blog)

Da bambina il mio gioco preferito era fare la maestra. Ripiegavo più volte un foglio di carta e ritagliavo con le forbici il profilo della sagoma di un pupazzetto e veniva fuori una fila di femminucce con le sottane o maschietti con i pantaloncini, li coloravo e li mettevo seduti in fila su scatole di cartone. Sul tavolino preparavo la mia cattedra: una sveglia, un quaderno per il registro, il calamaio e la penna. Al muro appendevo una lavagnetta che mi era stata regalata e con il gessetto scrivevo i nomi degli alunni. Facevo l’appello e mettevo vicino ad ogni nome chiamato una crocetta o un segno meno, io stessa rispondevo: presente o assente. Scimmiottavo la mia maestra che ammiravo moltissimo e di cui avevo tanta soggezione.

Col passare degli anni mi convinsi sempre di più che ero portata per l’insegnamento. Frequentai l’Istituto magistrale e a 18 anni mi diplomai. Nel 1946 cominciai ad insegnare nelle scuole sussidiate: niente stipendio, a fine anno veniva il Direttore didattico ad esaminare gli alunni. Per ogni promosso il Comune ci assegnava un compenso. Era importante raggranellare punti per andare avanti in graduatoria e dopo 4 anni di sacrifici, ottenni l’incarico annuale che per me voleva dire stipendio mensile e indipendenza.

Nel 1950 partecipai al concorso magistrale e lo superai e col punteggio di servizio accumulato ottenni la cattedra. Per me voleva dire carriera assicurata e benessere. Allora c’era l’obbligo di risiedere nella sede scolastica e la mia prima sede fu Monticole, frazione di San Severino Marche (in provincia di Macerata). Avevo una scuoletta in una casa dove c’erano una camera e una cucina, a ridosso di una pineta, davanti mi sovrastava la torre di Pitino e intorno c’era il bosco. Per fortuna attorno a me c’erano una ventina di case abitate da contadini e pastori. Sostituivo una maestra di San Severino andata in pensione. Gli abitanti mi accolsero bene, felici di avere una maestra così giovane; io, di nascosto, piangevo perché mi sentivo al confino. I bambini erano carini, affettuosi e rispettosi e con loro passavo quasi tutto il giorno perché avevo più classi ripartite in orari diversi nella giornata.

Andavo in paese con la bicicletta perché non c’erano altri mezzi. L’inverno fu lungo, il freddo, la neve e la strada impervia mi tenevano chiusa in casa; per fortuna le lezioni mi impegnavano abbastanza.

Arrivò la primavera e la natura anche in quel posto sperduto era in pieno rigoglio e cominciai a fare delle belle passeggiate. Andavo spesso a trovare una collega a tre chilometri di distanza, anche lei quasi sempre sola perché il marito poliziotto partiva la mattina e tornava la sera. Nel piccolo borgo ero diventata amica di tutti, sapevo fare le iniezioni e tutti mi chiamavano. Scrivevo lettere a parenti lontani, ricamavo per passare il tempo vicino al camino acceso. Ero spesso invitata a mangiare la polenta, le tagliatelle o i dolci di Carnevale. In ogni festa non potevo mancare: si suonava la fisarmonica e si ballava. L’anno scolastico finì e chiesi il trasferimento. La sede nuova era sempre migliore della precedente perché l’avevo scelta io. Sono stata a Fontemaggio di Treia, sempre nel Maceratese, poi a Collevago di Treia e poi a Convento di Urbisaglia, dove mi sono fermata per circa 10 anni.

Quello è stato il più bel periodo del mio insegnamento perché facevo scuola ai figli di amici fraterni. Ero la maestra, ma nello stesso tempo avevo modo di osservare e conoscere i bimbi fuori dall’aula scolastica; ero una di loro. Conoscevo di ogni bimbo non solo le capacità di apprendere, ma anche il vero carattere. Seguivo gli alunni in classe, sperimentavo la loro intelligenza e nel pomeriggio, durante il gioco, li tenevo d’occhio mentre liberi esprimevano spontaneamente la loro indole. Perciò, sapevo come prenderli e ottenere da loro il massimo. Ricordo la loro infanzia, da grandi li ho persi di vista. Mi è capitato in seguito di incontrarne alcuni, sono stati loro a farsi riconoscere e mi ha fatto piacere rivederli. Li avevo accolti a scuola fanciulletti, ora erano mamme, ingegneri, dottori, giornalisti, direttori, bravi lavoratori che occupano anche posti di responsabilità. Ogni volta che incontro un’alunna o un alunno mio, gli chiedo se è rimasto in lui qualcosa di me, se sono riuscita in minima parte a dare loro una giusta impronta. Io spero di sì, se non con la bravura, certamente con il cuore perché mi sono sempre e volentieri dedicata alla mia professione con amore e convinzione.

Volevo bene ai miei alunni, ma ho sempre mantenuto la distanza perché tenevo molto alla disciplina e alla loro educazione. Ognuno mi seguiva secondo le sue capacità, tutti erano coinvolti. Se qualcuno era un po’ svogliato, lo studiavo per capire qual era la cosa su cui potevo far leva e lo spronavo. Non ero del parere di mandarli sempre avanti, ad ogni costo; se credevo opportuno fermarlo perché immaturo, ne parlavo con i genitori e insieme si decideva il da fare. Il contatto con i genitori era costante perché avevo modo di incontrarli spesso nel negozio di alimentari, la domenica sul sagrato della chiesa o per le vie del paese. A Convento non ho incontrato casi particolari, i bambini erano ben curati e nutriti, non c’erano figli di papà, ma figli di lavoratori onesti, per me tutti uguali.

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Le tre maestre della scuola di Convento con le alunne e gli alunni in posa in mezzo alla campagna. Anna Caltagirone Antinori, prima da sinistra con il suo grembiule nero di stoffa lucida, ha pubblicato questa foto (insieme a poche altre) sul proprio diario Facebook

Nella scuola di Convento le aule erano tre e tre erano le maestre. Un’insegnante prendeva la classe più numerosa, le altre colleghe avevano la pluriclasse formata dagli alunni di due classi. Le colleghe venivano da Macerata con la propria macchina o con la corriera. La corriera che veniva da Macerata arrivava prima dell’orario scolastico, allora, poiché io abitavo nella scuola, facevo accomodare le colleghe per prendere insieme il caffè. Quello era il momento in cui potevamo scambiare due chiacchiere: si parlava del comportamento degli alunni e le colleghe chiedevano a me consigli perché sapevano che io avevo modo di conoscerli meglio.

Spesso ricevevamo la visita del Direttore o dell’Ispettore perché ci trovavamo sulla strada che da Macerata porta al circolo didattico da cui dipendeva la scuola. La visita di un superiore ci metteva in soggezione anche se sapevamo che tutto era in ordine. Il senso del dovere era così sentito che, anche se avevamo tutte molti anni di insegnamento alle spalle ci intimoriva e ci faceva stare sempre all’erta. Tra gli alunni alcuni eccellevano in bravura, ordine e comportamento e ti davano piena soddisfazione, altri meno dotati si sforzavano e si aiutavano con la buona volontà. Alcuni non avevano né voglia né capacità, allora mi consultavo con le colleghe e li inquadravamo nella pluriclasse in modo che potessero ripassare quel che non avevano appreso prima e, nello stesso tempo, ascoltavano lezioni nuove. In questo modo li recuperavamo e alla fine conseguivamo il risultato voluto.

Non ho mai voluto come alunni i miei figli perché volevo che distinguessero bene le figure di “mamma” e “insegnante”. Dicevo loro che alla maestra si doveva ubbidienza assoluta e massimo rispetto. Maria Vittoria e Fabrizio frequentarono la scuola di Urbisaglia. Marvì ebbe la fortuna di avere per 5 anni una bravissima insegnante: la signora Mita Canzonetta alla quale va ancora tutta la mia riconoscenza per avere insegnato a mia figlia a socializzare e ad amare lo studio. Anche Fabrizio nei primi 3 anni ebbe un bravo maestro di cui mi sfugge il nome e poi finì la scuola elementare al Convitto nazionale di Macerata.

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Amita Canzonetta Piccinini, “la maestra Mita”, in uno scatto di Francesco Cianciotta per la mostra “Radici” ideata da Paola Ciccioli

Lasciai la scuola di Convento perché era uscito un bando che assegnava un mutuo per costruire la casa agli insegnanti che avevano un certo numero di anni di servizio. Io avevo tutti i requisiti e ottenni il mutuo per costruire la casa. Dove? Giustamente Fernando mi fece capire che era il caso di trasferirci a Macerata perché già in quell’anno Marvì, la più grande dei miei figli, frequentava le medie e, dovendo poi continuare a studiare, l’avevamo iscritta a Macerata. Era un disagio fare avanti e indietro con la corriera perché l’orario non coincideva con quello della scuola e spesso Marvì aspettava per la strada. Poiché tutti e tre i figli si sarebbero trovati in queste condizioni, decidemmo di comprare l’area fabbricabile a Macerata e costruimmo qui la casa. Ho pianto per tanto tempo per aver lasciato “il Convento”, poi mi sono rassegnata perché per i figli si fa qualsiasi sacrificio.

Alla scuola De Amicis di Macerata ho concluso la mia carriera di maestra. Dopo 42 anni trascorsi tra i banchi di scuola, a 61 anni sono andata in pensione, non perché fossi stanca del mio lavoro, ma perché avevo bisogno di un po’ più di tempo da dedicare alla mia famiglia. Maria Vittoria si era sposata e insegnava a Varese. Alberto, dopo l’università si era stabilito a Pisa e io spesso preparavo la valigia e andavo a trovare ora l’una, ora l’altro. Da pensionata, della scuola mi è rimasto il rimpianto di non avere più il contatto umano con tanti bambini e con tante famiglie. Ora, in vecchiaia, se esco incontro spesso persone che mi ricordano e mi vengono a salutare con affetto e questo mi riempie il cuore di gioia, anche se mi commuove e mi strappa qualche lacrima.

Da pensionata, ho letto molti libri che i miei figli mi regalano spesso perché sanno che è il mio passatempo preferito. Io li leggo, li catalogo e ho raccolto una piccola biblioteca di cui sono molto gelosa. Passo qualche ora al computer che mi fa compagnia. Mio figlio Alberto vorrebbe regalarmene uno un po’ più moderno, ma io non ho più l’età per stare dietro a tante novità e mi accontento di quello che ho.

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2 thoughts on “«Cosa ti è rimasto di me, la tua maestra?»

  1. La maestra Mita. La mia amata maestra cui devo molto. La maestra Mita era cliente di mia madre Zita, la sarta. Essendo io nata nel febbraio del 1947, tutte le mie amiche del ’46 sarebbero andate alla scuola dei grandi e solo io sarei rimasta all’asilo delle suore. Piangevo, piangevo inconsolabile. Mia madre chiese consiglio alla maestra Mita. “Si può fare”, sentenziò. “La bambina è volenterosa e la possiamo iscrivere alla prima elementare ed alla fine dell’anno scolastico sosterrà l’esame di ammissione alla seconda”. Così fu fatto. E andò bene.
    Alla fine delle elementari si pose un ulteriore problema. Enorme.
    Mi sarebbe piaciuto continuare a studiare ma ad Urbisaglia le medie non c’erano (la media dell’obbligo è del ’62) e comunque bisognava sostenere l’esame di ammissione e decidere di allontanarsi a 10 anni da casa. Apriti cielo. Mamma in lacrime (per me aveva pensato ad un futuro da sarta, con lei). Babbo non piangeva ma si sfogava coloritamente.
    E qui scattò il metodo della maestra Mita: “lasciamola provare. Io la preparo e… forse ce la fa”.
    Andò bene e mi trovai a frequentare le medie a Cingoli da una zia sorella di mio padre. Mi sentivo deportata in terra straniera (quasi immigrata) ma se era quello lo scotto da pagare…
    Pagai e andò bene.
    Fine delle medie. Volevo fare la maestra…
    Solita sequenza. Solito intervento della maestra.
    Mi iscrissi all’Istituto Magistrale di San Ginesio.
    Pagai con 4 anni di Collegio, non proprio congeniale al mio carattere.
    Andò bene… ma volevo fare la professoressa…
    E qui intervennero la maestra Mita e il mio fidanzato Giovanni.
    Era il 1964.
    Mi iscrissi alla facoltà di Magistero a Roma.
    Andò bene.
    Da allora prima maestra, poi professoressa poi direttrice didattica e preside per trent’anni.
    E non dovrei essere grata alla MIA maestra Mita?

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