di Erica Sai

Sabato 18 giugno: un abbraccio che vale più di mille proclami al primo Gay Pride di Varese. La nostra Erica Sai ha partecipato alla manifestazione perché, come giustamente sottolinea in questa sua riflessione, i diritti riguardano tutti, indipendentemente dall’orientamento sessuale di ciascuno di noi (foto dalla pagina Facebook di Varese Pride)
Le bandiere arcobaleno sventolano qua e là. Spicca una bandiera della Sardegna, solitaria. Non manca mai una bandiera sarda quando c’è l’occasione per portarla in giro. Un fiume di persone per il primo Varese Pride, un concentrato di colori che si snoda a dipingere le vie della città. Una sveglia per Varese, che suona a squilli decisi; un movimento nuovo per questo luogo talvolta troppo grigio, troppo conservatore di quel conservatorismo che finge di non vedere, che vuol convincersi che alcune cose non esistano voltando lo sguardo.
È una giornata storica insomma, per la prima volta la comunità LGBT si scopre in una manifestazione ufficiale. Uso questa sigla per comodità, perché è la più usata, con la consapevolezza che le lettere non sono tutte, non completano quella varietà che non rientra nel canone (come tale lo si propone) dell’eterosessualità. La prima manifestazione ufficiale, quindi, che prende un respiro d’aria fresca e lancia un urlo. Il comune però non lo sente, non lo vuole sentire, e infatti non dà il patrocinio che invece viene dato dalla provincia e dal consolato americano. Il percorso ufficiale cambia un po’ di volte, buona metafora della fatica che tutti coloro che escono dal canone hanno affrontato e devono affrontare ogni giorno, in generale e probabilmente ancora di più in questo ambiente di provincia, maggiormente avvezzo alle chiusure. Ma l’urlo esplode lo stesso, e lo fa in modo gioioso e pacifico, nonostante tutto.

La forza dell’affetto, dell’amore e della partecipazione ha portato “un po’ di aria fresca” in un ambiente provinciale caratterizzato in passato dalla chiusura sui diritti civili
È una grande festa composita, ci sono un po’ tutti, dai bambini agli anziani, dai fidanzati agli amici ai solitari, dai genitori ai figli. Ognuno con il suo orientamento sessuale, ognuno con il suo desiderio di indossare una maglietta o un corpettino, ognuno con il desiderio di distinguersi nella folla o amalgamarsi ad essa. Ognuno, insomma, con la voglia di mostrare se stesso e fare il tifo per tutti.
Due signori camminano abbracciati, non si sono staccati mai fintanto che sono rimasti davanti ai miei occhi, magari non lo hanno fatto per tutta la durata del corteo, chi lo sa. E chi lo sa se vanno sempre a spasso così abbracciati o se questo è il primo giorno in cui si sentono liberi di farlo per quelle vie, illuminati da quei raggi. Un ragazzo per la via cammina contro corrente sul marciapiede e cerca di rovinare la festa provocando verbalmente, un mio amico reagisce rispondendo ma il battibecco si dissipa presto. Una festa così bella non si riesce a rovinare facilmente, neanche se un ragazzetto (mica tanto, vent’anni tutti) alza la voce dicendo: “Dovete fare per forza queste cose?”, come se sorridere per la città chiedendo che tutti possano farlo sempre sia un qualcosa di oscuro, di negativo. Si va avanti ballando e chiacchierando. Alla fine del corteo si ricordano le vittime dell’atroce strage di Orlando da poco accaduta e si ascoltano diversi discorsi, sul palco si succedono i portavoce di varie associazioni. Sale anche una rappresentante dell’associazione Agedo Milano, l’associazione di genitori parenti ed amici di omosessuali. È una mamma, “Uccidono i nostri figli!” grida con forza ed emozione al microfono e fa un bel discorso sull’importanza dell’accettazione in famiglia dell’orientamento sessuale dei propri figli, una grandissima causa di sofferenza ancora oggi; bisogna accettarli per le persone che sono e non per l’orientamento sessuale che hanno, questa è la sintesi. La figlia di una signora che è nel nostro gruppo si avvicina ad abbracciare la sua mamma proprio nel mezzo di questo discorso, scendono lacrime dolci. Un temporale pone bruscamente fine a questa bella festa che già si stava concludendo, ma considerato il cattivo tempo di quei giorni c’è da essere felici che il cielo abbia atteso tutto il pomeriggio prima di esplodere.
Questa non è la mia causa personale, ad un primo sguardo non mi tocca direttamente; ma è sicuramente una cosa che finisce per riguardare la società ed io non posso far altro che abbracciare questa causa, perché per me il sociale in fondo è personale, arriva a toccare ognuno di noi dal momento che di una società armoniosa si beneficia tutti. Credo, quindi, nel fulcro di ciò che la comunità LGBT rivendica: rispetto e diritti. Che poi sono anche doveri, ma noi preferiamo screditare togliendo la parte del dovere ed inchiodando i non eterosessuali nello stereotipo costruito negli anni dove tutto è instabilità e dissipazione (mi riferisco precisamente al famoso obbligo di fedeltà cancellato dalla recente legge sulle unioni civili). Soprattutto in primo piano io metterei il rispetto, che è la base di qualsiasi cosa e manca ancora così tanto. Rispetto per le persone, che non possono essere giudicate e classificate dall’orientamento sessuale; che non può rientrare nei metri di giudizio per considerare l’altro, ho l’impressione siano ben altre e molte le categorie che bisognerebbe prendere in esame per decidere se una persona ci sembra una brava persona o no. Il rispetto ha sede anche nella consapevolezza di non poter sapere quale sia il vissuto di chi si trova nelle condizioni in cui la nostra società, mediamente, mette chi non è etero. Diventa rispetto per le battaglie altrui (di tutti ma più specificamente e direttamente di altri) che si decide di abbracciare, per come è stato pensato di portarle avanti.

Questo post ci dà la possibilità di annunciare la trentesima edizione del Festival MIX Milano di Cinema Gaylesbico e Queer Culture che si apre oggi con il film “Théo et Hugo dans le même bateau” di Olivier Ducastel e Jacques Martineau, cui si riferisce l’immagine (www.facebook.com/Festival.Mix.Milano)
Per questo motivo, si è rivelato decisamente fastidioso leggere il giorno dopo alcuni post su Facebook nei quali si criticava la manifestazione in un modo piuttosto classico. Sono state selezionate alcune foto, quasi tutte dei carri, commentando sostanzialmente che i diritti e l’uguaglianza non si ottengono travestendosi da donne e facendo gesti provocatori. Sorvolando sull’uso politico della questione nel senso più stretto del termine, perché sono stati citati i candidati sindaci alle elezioni amministrative svoltesi il giorno dopo, è interessante notare l’uso distorto delle immagini e dei concetti.
In quella manifestazione sfilavano centinaia di jeans e magliette molto semplici, ma si è preferito focalizzare l’attenzione su quegli “estremi” che sono fatti apposta per essere tali e componevano una piccolissima percentuale della folla caratterizzata in modo ben diverso. Con precisione viene stravolto tutto e si usano le immagini e le parole per presentare una realtà che nei fatti è molto diversa, inchiodandola ancora una volta negli stereotipi e facendo in modo che chi non si affaccia a guardarla da vicino, questa realtà, la veda come un mostro strano, senza sfumature. Le sfumature invece ci sono, come in ogni cosa che riguarda la persona , ed i colori dell’arcobaleno sono una buona metafora.
C’è sempre qualcuno che deve dire come devono essere portate avanti le battaglie degli altri, è veramente fastidioso ma non bisogna inciamparci.