di Alba L’Astorina

Gina Marpillero: «Qui avevo 15, 16 anni. L’acqua la prendevo sul serio, non per posa, e le gambe le tenevo così perché ho sempre capito di averle un po’ stortine. Lo sfondo è la stalla con il fienile e l’orto dove la neve rimaneva fino a primavera perché non batteva mai il sole». In prima persona, a sottolineare una presenza ancora viva, le didascalie alle belle foto che Alba L’Astorina ha avuto dai figli della scrittrice friulana alla quale è dedicata una mostra a Milano
Eravamo solo in quattro lunedì scorso, al Circolo Filologico Milanese, a vedere la mostra fotografico-letteraria che Milano dedica in questi giorni alla scrittrice friulana Gina Marpillero: io, Bruna, Flora e Adriana. Eppure è stato come se per alcune ore in quella stanza, la bellissima sala liberty del palazzo ottocentesco di via Clerici 10, si fossero incrociati i destini e le storie di tante persone, vissute in tempi e spazi diversi, sullo sfondo di Guerre Grandi e piccole battaglie quotidiane. Madri friulane e napoletane in eterno dialogo con le proprie figlie, padri sfollati al nord o al sud, nonni spaesati nei confini ridisegnati dai nuovi imperi, fratelli persi al fronte o dentro i labirinti della propria mente. Nelle orecchie, una lingua materna, quella friulana, appresa e abbandonata da piccola, poi riemersa da chissà quale remoto angolo del proprio esistere grazie ad una poesia mormorata a voce alta, poi spezzata. E, nelle narici, odore di carta, di legno, di inchiostro…
La mostra è una delle tappe di un ciclo di manifestazioni iniziate in occasione del centenario della nascita scrittrice, nata nella carnica Arta Terme nel 1912 e vissuta a lungo nella bassa friulana. Me l’aveva segnalata proprio Bruna. Nelle sue parole: «era compagna di scuola di mia madre», ho riconosciuto l’orgoglio di chi non è fiero solo delle proprie origini ma anche della possibilità che storie e luoghi escano dai confini dei propri ricordi e vengano raccontati in giro per il mondo.
Dei luoghi di Bruna (e di Flora e di Adriana da piccola) la mostra ripercorre la storia del primo Novecento attraverso le foto di famiglia e le parole della scrittrice, le sue «storie di cortili e di corriere», di «essere di paese», vicende semplici e quotidiane di donne conosciute di persona o attraverso i racconti della madre. Donne vere, senza età, eroiche, intelligenti, fedeli al marito «come ad un elettrodomestico che non si cambia», tenaci, pazienti.
Storie di donne ma anche di uomini. E di donne più che di uomini non per un senso esclusivo di genere ma perché «spesso gli uomini erano assenti». Secondo un «andamento stagionale» che a Gina da piccola sembrava naturale, gli uomini di Tolmezzo o di Arta partivano per la guerra o a cercar lavoro all’estero, come muratori o lavoratori del legname. Anche l’assenza del proprio padre rientrava per Gina nell’ordine naturale delle cose. «All’infuori del sindaco, del segretario, del medico, del maestro, che erano dei veri padri», ricorda Gina, «tutti gli altri erano o nonni o uomini dispossenti. Quando erano a casa parevano degli estranei, erano come provvisori, impegnati nei lavori di rifinitura della casa, a tirar su pareti, muri grezzi, a dare il bianco, o andare nel bosco a far legna, e il più delle volte a trascorrere buona parte del loro tempo libero all’osteria.»

«Nella casera Riumâl. Io sono la seconda da sinistra. Alla mia sinistra, con i capelli ricci, c’è Gustavo Barbacetto, che passava l’estate a lavorare nella malga. Avevamo 15 anni». Gustavo è l’amore adolescenziale di Gina e a lui sono dedicate molte delle sue poesie in lingua friulana
Anche le case gli uomini le costruivano assecondando il ritmo dei loro flussi migratori, «a rate», lasciando le pareti abbandonate a metà per mesi interi; «finestre vuote nei piani superiori, come occhi che guardano lontano, in attesa che il padrone ritorni per sistemarle», fino a quando «gli attrezzi: il badile, la carriola, il martello, la cazzuola, sistemati con grande cura nel sottoscala, al rientro degli uomini, riprendevano vita.» I cortili delle case, sempre pieni dei grandi mucchi di sassi, di ghiaia e di sabbia, diventavano allora i punti di incontro dei bambini, le loro «spiagge».
In questo contesto, con gli uomini che erano tre mesi a casa e nove in Francia o altrove, «non poteva crearsi fra i coniugi un grande affiatamento affettuoso». Lavoro, stanchezza e sfinimento lasciavano tutti come «svuotati da ogni sentimento considerato superfluo». Nonostante questa freddezza di rapporti fra coniugi, malignava la madre di Gina, a Natale veniva sempre «imbastito» qualche bambino, che nasceva regolarmente nel settembre, ottobre dell’anno successivo.
Dai racconti della scrittrice prendono forma un luogo e un tempo, la Carnia del primo Novecento, con un forte senso della comunità e della solidarietà tra i suoi membri, favorito dall’andare a piedi o in bicicletta e dall’aver sempre i «cortili aperti»; un territorio diverso dalla Bassa del Friuli, dove Gina pure ha vissuto a lungo, e dove, invece, «si vive di più dentro le case, in maniera un po’ isolata». In una bellissima poesia dedicata al fiume friulano Corno, Gina lo contrappone al fiume della sua vallata carnica, il But, concludendo, però, che «si possono anche avere due amori diversi».

Bruna, figlia di Franca Ermano De Marchi, una compagna di scuola di Tolmezzo di Gina Marpillero, visita la mostra (foto di Alba L’Astorina)
Resta un mistero come Gina abbia potuto conservare tanto a lungo un ricordo così lucido della sua infanzia, se si pensa che ha cominciato a scrivere solo a 70 anni (in realtà a 68, ma diceva 70 perché le sembrava «un’età più interessante»). Il perché lo spiega invece lei: non per velleità letteraria né per vanità ma per necessità, per «scaricare le idee, i ricordi, le considerazioni, alleggerire la mente delle cose sognate e non fatte», per lasciare traccia di quel che è stato, di quella «confusione di eroi e controeroi, giubbe rosse, fascisti, partigiani, conquiste di imperi, cadute di imperi». Senza pretese di ricostruire la Storia, ma solo di lasciare, come scrive in una delle sue lettere al nipote Dario, «ricordi semplici di cose leggere, quasi stupide». D’altra parte scrivere da giovane le era sempre sembrato una «perdita di tempo», e poi «la vita va vissuta par ordin», in maniera ordinata, assecondando l’ordine di quello che capita, senza ostinarsi a voler raggiungere qualcosa di particolare. Così, a Gina è capitato, dopo il primo racconto, di sfilarne un altro e un altro ancora, come una «catena di figli usciti in maniera naturale», senza ansie di successo (e ancor meno di insuccesso), snocciolando «gente e pensieri in disordine», usando nelle poesie la lingua friulana, così «modesta di aggettivi», ma più adeguata dell’italiano a raccontare le sue storie di «vite vissute e sofferte, e superate con superbia, come una corsa ad ostacoli, accettando le cose belle e le cose brutte, perché quella è la vita.»
Un gesto di responsabilità è questo ricordare ad alta voce di Gina, in totale continuità con lo spirito della sua antica famiglia dove, in una lettera ai posteri il bisnonno Paolo esorta: «e voi, figli e nipoti miei, imparate e ricordate!»
La mostra di Gina Marpillero a Milano, curata dai figli, Fabiano e Caterina Zaina (che ringraziamo per le foto che ci hanno concesso) e dalla direttrice della Biblioteca Civica di San Giorgio di Nogaro, Ivana Battaglia, dura fino al 18 febbraio, per poi continuare il suo lungo peregrinare in tutta Italia.
VITA DI GINA MARPILLERO NEL NOVECENTO FRIULANO “… e di quella bambina ho sempre nostalgia…”
Per informazioni: Tel. 02 86462689
Note: segnalo due belle interviste a Gina su youtube:
https://www.youtube.com/watch?v=o9tlls_CWyo e https://www.youtube.com/watch?v=IzbgKAGuFSc
Alba, fai venire il desiderio non di andare a vedere una mostra ma di attraversare una vita di donna, a nome di mille, in un primo Novecento poco raccontato. Angela
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un periodo e anche un luogo, la Carnia e il Friuli in generale, poco raccontati, e che invece meritano molto. Un luogo che forse sembra essere il più lontano da Napoli, e di cui, eppure, sento tutto il calore e la forza ….
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Bella storia di donna, bel pezzo, bella alchimia: grazie!
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devo aggiungere il commento di Adriana (una delle amiche, friulana-napoletana, presenti alla mostra): “Trincee della memoria … fiume carsico nel ghiaccio roccioso della mia carne. Dilava ” poetico come lei sa essere
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Spero di poter incontrare questa mostra in qualche altra tappa
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