“Lelio Luttazzi presenta… Hiiiit Parade”

di Luca Bartolommei

Lelio Luttazzi al lavoro con Mina. Chissà, magari stanno provando “Una zebra a pois”, la canzone del 1960 scritta dal Maestro triestino (27 aprile 1923 – 8 luglio 2010) e portata al successo dalla “Tigre” che nel 2018 sarà festeggiata dalla città di Cremona con un fitto programma di iniziative culturali. La foto è dell’archivio Fondazione Lelio Luttazzi, istituzione animata con passione da Rossana, moglie del musicista che è stato protagonista della radio e della televisione italiane. Foto https://www.facebook.com/FondazioneLelioLuttazzi/

Solo un breve ricordo del Maestro Luttazzi, ma anche dei miei 9/13 anni, in un giorno particolare. Con affetto.

Venerdì ora di pranzo, secondo canale radiofonico, parte la sigla con accordi da kolossal hollywoodiano cui segue musica da circo per arrivare ad una chiusura swing. Poi “Lelio Luttazzi presenta… Hiiiit Paraaaade” o “iiiit pareid” o “chì paré” come, ripeto, diceva Elia la mia nonna senese. Forse eravamo soli lei e io, più probabilmente c’era anche qualcuno dei miei fratelli.

Nella cucina di piazzale Maciachini al 20 arrivavano le note delle canzoni più ascoltate, secondo l’indagine Doxa (Doxa = opinione dei mortali) della settimana.

Cantant*, gruppi, musica da film, insomma un po’ di tutto. Questo po’ di tutto ci veniva raccontato con uno stile unico da Lelio Luttazzi, vero centro di gravità della trasmissione, che tra gossip, aneddoti vari e battute ci aggiornava sulla musica leggera italiana e non. Ricordo quando citava i pareri di sue improbabili ammiratrici o fidanzate dai nomi e cognomi improponibili.

Una cosa importante: per me, e ho continuato a pensarlo a lungo ma ero davvero un bambino, la trasmissione era dal vivo! Mi immaginavo uno studio o addirittura un teatro dove gli artisti si susseguivano sul palco e presentavano le loro canzoni, in pratica un Sanremo radiofonico, con pubblico incluso, plaudente e vociante. Gli applausi che si sentivano durante le canzoni erano per me reali, i fan di questo o di quella cantante facevano a gara per sostenere i propri artisti preferiti. Mitico il grido “bravi Abba!!!”, che ancora usavamo ai tempi del liceo per scherzare tra di noi, magari dopo un’interrogazione in matematica finita stranamente bene. Purtroppo l’illusione è svanita quando, leggendo Topolino, ho appreso che Otis Redding, cantante che avevo appena ascoltato “live”, si era esibito qualche giorno prima negli Stati Uniti. Ma come, era a Hit Parade venerdì, ma come, noooo… non ditemi che… tutto registrato, erano solo dischi, “bravo Lucio” di qua, “brava Mina” di là, “bravi Dik-Dik”, tutte balle. Delusione come quando scopri che i doni a Natale non li porta Gesù Bambino.

Ricordo, breve citazione, di aver letto nelle pagine di informazione, sì perché su Topolino anche i bambini avevano diritto ad un minimo di cultura, almeno in quegli anni, di un giovane musicista italiano, figlio di un compositore, che si stava facendo strada, tale Riccardo Chailly, vi dice niente questo nome?

Sopravvissuto allo shock, continuavo ad ascoltare Luttazzi che ci spiegava che in classifica Dalida era presente con due brani, piuttosto che “Pensieri e parole” di Lucio Battisti dopo forse venti settimane di regno era diventata “damigella d’onore”, lasciando il posto di “canzone regina” a non ricordo quale altro brano.

E poi in classifica c’erano anche le sue canzoni, quelle di Lelio, dove protagonista era la bella Trieste, la sua città, di cui parlava attraverso le abitudini di un cane beone o che ci descriveva parlando dei suoi luoghi più significativi.

Pensare a Hit Parade senza Luttazzi equivale per me a pensare ai Genesis senza Peter Gabriel o ai Pink Floyd senza Roger Waters, va bene, tutto bello ma… qualcosa non c’è più, e sarebbe anche giusto piantarla lì, come poi accadde nel 1976.

Sull’isola greca con il libro che mi dice: “Il mondo cambia un cuore alla volta”

di Maria Elena Sini

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Maria Elena Sini durante la vacanza in Grecia di cui racconta, intensamente, in questo post

È stato un inverno lungo, cupo e doloroso per cui quando un amico che trascorreva l’estate nelle Cicladi mi ha invitato a passare una settimana a Paros ho accettato con gioia. Mi attirava l’idea di rilassarmi in un’ isola illuminata dalla luce degli Dei, circondata da mare pulito dove buon cibo, tradizioni, storia e archeologia si aggiungono alla per nulla scontata possibilità di trascorrere intere giornate in spiagge poco affollate anche in alta stagione.

Prima di partire, come faccio spesso prima di un viaggio, sono passata in libreria per comprare un libro che accompagnasse la mia avventura. Nel banco delle novità mi ha subito colpito La prima verità di Simona Vinci, edizioni Einaudi, e d’istinto l’ho acquistato perché, come ho letto nel risvolto della copertina, la storia che racconta è ambientata a Leros, un’isola del Dodecaneso. Durante il viaggio, tra un aereo e l’altro, ho iniziato la lettura e ho scoperto che la storia trattata era ispirata ad una vicenda realmente accaduta: quell’isola in passato era stata trasformata in un grande manicomio nel quale rinchiudere persone affette dalle più diverse patologie, schizofrenia, paranoia, persone che la famiglia non voleva o non poteva più accudire, persone violente definite “ingovernabili” che però in quella realtà non venivano realmente curate ma essenzialmente venivano recluse, allontanate dalla civiltà. Qualche anno fa, con grande scandalo, la stampa britannica ha rivelato che durante il regime dei colonnelli nell’isola di Leros erano stati deportati gli oppositori politici di tutta la Grecia facendoli convivere con i malati di mente, e la follia e l’isolamento aveva trasformato tutti in inquietanti relitti umani. Il romanzo è avvolgente, scorrendo le pagine si ha l’impressione di stare tra incubo e risveglio, si spalancano gli occhi su un’allucinazione nella quale Simona Vinci conduce il lettore attraverso immagini di rara forza con parole che permettono di raccontare l’indicibile.

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