Un’idea virale per il lavoro di tesi: dalla Bicocca a Bollate
di Sabrina Flisi*
Ho scelto come Laurea magistrale “Teoria e Tecnologia della Comunicazione” (TTC) per la sua particolarità; si tratta infatti di un corso multidisciplinare, dal carattere ibrido, che fonde due ambiti di studio apparentemente molto diversi: la Psicologia e l’Informatica.
In realtà queste due materie si amalgamano bene, e il corso di laurea forma persone in grado di muoversi all’interno della Rete, capaci di creare con dimestichezza progetti che sfruttano i mezzi tecnologici (siti Internet, advertisement…), tenendo conto del target di riferimento e delle sue esigenze. Ci è stato insegnato che, prima di qualsiasi lavoro pratico, si devono effettuare una ricerca e un’analisi teorica di tutti gli elementi coinvolti, rendendo i progetti finali completi e, se possibile, accessibili per chiunque. Mi piace pensare a TTC come a un corso che insegna a fare concretamente qualcosa, da trasmettere con passione a chi poi lo utilizza.
Il corso di Psicologia delle influenze sociali è una delle attività didattiche opzionali che lo studente può scegliere nel secondo anno di Laurea e fa parte della facoltà di Psicologia. Le lezioni sono tenute dalla professoressa Chiara Volpato e dalla giornalista Paola Ciccioli.
Ho deciso di scegliere il corso per i feedback positivi avuti dagli studenti dell’anno precedente. Psicologia delle influenze sociali è stato un vero e proprio percorso di studio e analisi, con un tema centrale: la donna e la sua condizione nel mondo attuale. Chiara Volpato e Paola Ciccioli hanno affiancato gli studenti frequentanti in questo percorso, unendo le rispettive competenze: la ordinario di Psicologia sociale ha saputo spiegare con chiarezza e semplicità gli aspetti più teorici e psicologici dell’argomento, come il sessismo o i pregiudizi, mentre Paola Ciccioli è riuscita a portare in aula uno spaccato della vita quotidiana e dei fatti di attualità che ci circondano.
Tra gli argomenti riguardanti il mondo femminile, uno in particolare mi ha da subito incuriosito: la situazione detentiva delle donne italiane. Le prime testimonianze riportate da Paola Ciccioli mi hanno trasportato in un mondo a se stante, quello della realtà carceraria, e mi sono accorta quanto fosse poca, e distorta, la mia conoscenza in proposito. Posso dire, a posteriori, che il mio interesse per l’argomento è iniziato proprio in seguito a quella prima lezione. Mi sono trovata a riflettere su come i media avessero plasmato le mie stesse idee sul carcere, oggi direi i miei pregiudizi.
Con l’intervento di Susanna Ripamonti, giornalista di cronaca giudiziaria e ora direttrice di carteBollate, il periodico scritto all’interno della seconda Casa di reclusione di Milano, il mio interesse è aumentato e il desiderio di saperne di più è stato esaudito con l’opportunità che il corso ci ha offerto di andare di persona in carcere. Ascoltando Susanna – invitata in aula – sono iniziati a fissarsi in me quei numeri che durante la stesura della tesi mi hanno sempre accompagnato. Il primo: 27, l’articolo della Costituzione sul principio della rieducazione. E poi: 7, i metri quadri di una cella media; 6, i colloqui mensili che i detenuti possono avere con i parenti e 22.853, le persone in cella oltre la capienza massima delle carceri italiane.
Per questioni burocratiche, la visita al carcere non è stata immediata. Prima di ottenere l’autorizzazione sono venuti in Bicocca a parlare due detenuti, Enrico e Franco. In un primo tempo la lezione era stata pensata per ascoltare le testimonianze di un uomo e una donna, così da poter confrontare i due differenti modi di stare in carcere. La donna che sarebbe dovuta venire non ha potuto ottenere il permesso necessario, cosicché c’è stato un cambio di programma e la lezione è stata incentrata sugli aspetti del carcere in generale e sul periodico carteBollate. La conversazione è stata molto interessante ed è stato decisamente insolito avere davanti due uomini detenuti, sapendo quindi che hanno compiuto reati, senza averne paura o essere in soggezione nei loro confronti. Il clima che si è creato è stato così amichevole che Enrico ha parlato apertamente di ciò che ha commesso: l’omicidio della moglie. Ricordo che nell’aula era sceso il silenzio e Paola Ciccioli ha spiegato quanto fossero per noi “pesanti” le sue parole, perché ci consentivano di comprendere meglio il femminicidio, di cui più volte si era parlato a lezione. Al di là del reato, e della reazione dei miei colleghi, mi sono stupita di me stessa: mi sono domandata se l’opinione che avevo di Enrico, ovvero il fatto che lo trovassi un uomo mite e gentile, anche dopo aver scoperto quello che aveva fatto, fosse cambiata. Con mia sorpresa ho capito che non importava cosa avesse commesso in passato, io con Enrico, l’uomo che ora avevo di fronte, un caffè al bar lo avrei preso. Lo avrei preso lo stesso. Un altro mio pregiudizio si è sgretolato in quell’istante: l’uomo cattivo, se gliene viene data la possibilità, può cambiare.
In seguito all’incontro con Enrico e Franco in università finalmente abbiamo ottenuto i permessi per visitare il carcere di Bollate. Mi è dispiaciuto vedere che non tutti i frequentanti fossero presenti, e in particolare che, per TTC, avessimo colto l’occasione solamente io e la collega Adriana Lombardo. Per noi è stata una giornata particolare, che sicuramente ci ha cambiate, in meglio.
I primi sentimenti che ho provato sono stati di tristezza e discriminazione, ancora prima di giungere a destinazione, in attesa dell’autobus 85 che da Rho Fiera porta all’Istituto penitenziario: c’è soltanto una navetta per chi deve recarsi in carcere. “Se prendi quell’autobus la gente sa dove vai, e ti guarda con occhi diversi”, è stato ciò che ho pensato. Il viaggio, un quarto d’ora in tutto, è servito per le ultime raccomandazioni da parte di Paola Ciccioli: lasciare a Susanna Ripamonti tutti gli apparecchi elettronici, mostrare la propria carta d’identità, non fare domande ai detenuti sui reati commessi. Una volta arrivati, in attesa del nostro turno, ho potuto osservare il passaggio dei visitatori tramite il metal detector, e ascoltare le parole fugaci, spesso in dialetto, scambiate con le guardie. Tutti portavano borse piene di vestiti puliti o qualcosa da mangiare. Molti ci guardavano, e sorridevano, quasi volessero incoraggiarci. Nessuno ha chiesto perché fossimo lì.
L’impatto con il carcere di Bollate non è stato così negativo come immaginavo, mi hanno incuriosito le finestre colorate e gli edifici squadrati, che non si differenziano molto da certe scuole dell’obbligo che si vedono a Milano.
Siamo da subito stati indirizzati al reparto femminile, per incontrare la redazione di carteBollate, formata da detenuti e volontari. La scelta del reparto è stata dettata dalle regole del carcere stesso: le donne recluse non possono uscire dalla propria sezione. Per cui, per coloro che partecipano a carteBollate, sarebbe stato impossibile incontrarci al di fuori dell’area a loro riservata. Rispetto alla struttura nella sua interezza, l’ala del femminile è una piccola “isola”, e rende bene l’idea che le detenute da subito ci trasmettono: “il nostro è un carcere dentro il carcere”.
L’incontro con la redazione si è svolto in un’aula vuota, tutti seduti in cerchio, tutti sullo stesso piano. Paola Ciccioli ha spiegato perché eravamo lì (“capire con i nostri occhi cos’è un mondo separato”) e ha dato a me la parola, per rompere il ghiaccio: presa di sorpresa, ho preferito iniziare con una domanda inerente il periodico carteBollate, chiedendone il funzionamento, cercando di instaurare un dialogo su un argomento neutrale. Superati i primi imbarazzi, da entrambe le parti, il clima è diventato da subito più disteso, c’è stata anche qualche risata e non sono mancati momenti di confronto. C’è stato un passaggio in particolare in cui si è accesa una piccola discussione tra detenuti, pacifica, sul modo di vivere il carcere. Ho così capito che il fatto che fossimo lì, come spettatori, fosse un privilegio per pochi: ascoltavo una donna che va a letto pensando alla sua compagna e al gesto folle compiuto, un uomo ancora bambino alla ricerca della felicità in soldi e belle ragazze, un padre di famiglia che ha deciso di seguire le orme dei familiari malgrado fossero già in carcere pure loro. Osservavo un detenuto tutto tatuato che ascoltava in disparte divertito. Vedevo una signora sofferente, che si guardava le mani e sospirava. E poi si sono scusati, pensando di averci escluso, quando invece ci hanno coinvolto in qualcosa di nuovo: ci hanno mostrato la loro umanità, mai vista in nessun servizio televisivo. Ci hanno mostrato la loro grinta, qualcuno la risolutezza nel voler cambiare, e migliorare, qualcuno i propri dubbi riguardo a una vita che contempli il rispetto delle regole. Ognuno si è mostrato senza maschere, perché queste nel carcere prima o poi cadono. Susanna già ce lo aveva accennato, ma è stato ben diverso constatarlo in prima persona.
La giornata è proseguita con un tour del carcere. “Tour” è proprio il termine che più si addice alla nostra visita. E noi, con i detenuti, eravamo quasi come una grande scolaresca, con gli alunni più grandi – i carcerati – che ci mostravano quello che noi ignoravamo e che mai avremmo potuto immaginare. Abbiamo scoperto che nel carcere si studia (e qualcuno viene scoperto a copiare), si dipinge, si cuce, si montano tablet e cellulari, si assemblano cataloghi (Ikea), si risponde alle telefonate dei call center e si piantano fiori.

Una recente immagine di Sabrina Flisi, oggi affermata Business analyst (con la passione del fitness e diploma da personal trainer)
Il momento migliore della giornata è stato il pranzo: sono state apparecchiate due tavolate nello spazio dei colloqui del reparto femminile, e abbiamo mangiato pizza tutti insieme. È proprio in quel momento che è esplosa la curiosità dei detenuti nei nostri confronti: “Che cosa fate?”, “Di dove siete?”, “Davvero non si trova lavoro?”. Si sono poi creati piccoli gruppi in cui c’era chi parlava di politica, chi della propria terra d’origine, dei propri figli, o di musica. E intanto venivano scattate foto ricordo, le donne portavano il caffè appena fatto nella propria cella, e alcuni si allontanavano di tanto in tanto e se ne stavano in disparte per non essere troppo coinvolti. Perché, come qualcuno di loro mi ha spiegato, simili incontri fanno sia un gran bene che un gran male: per un momento si respira la libertà, la spensieratezza, e si ha la consapevolezza che delle persone ora sanno chi sei, e non solo cosa hai fatto. Ma subito dopo, quando tutto finisce, la detenzione è un brusco ritorno alla realtà dell’isolamento.
Il congedo dai nostri “amici” detenuti è avvenuto rapidamente. Percorrendo la via verso l’uscita, il muro altissimo che cinge tutta la struttura del carcere mi ha provocato un senso di soffocamento e di angoscia. Non sono l’unica ad avere avuto questa sensazione, i primi a esserne intimoriti sono i detenuti stessi. Saluti veloci, qualche stretta di mano e siamo di nuovo fuori, dove il tempo scorre e a nessuno sembra interessare cosa nasconda quell’alta barriera di cemento armato. Quando mettiamo piede oltre il posto di guardia siamo tutti abbastanza provati: ognuno lascia una parte di sé là dentro.
Sono tornata a casa fermamente convinta dell’idea che la visita a Bollate non dovesse rimanere un episodio unicamente accademico. Ho promesso a me stessa che avrei rivisto quelle persone, e avrei fatto qualcosa per loro. So che se sono lì dentro è perché hanno una giusta pena da scontare: ma so anche che un uomo per cambiare e crescere deve averne la possibilità. È da qui, confrontandomi con Adriana Lombardo, che è emerso il desiderio di creare qualcosa di nuovo, e di dare voce a chi non ha voce. Qualcosa per cui l’università ci ha formato, da poter gestire, creare e personalizzare. Un’idea virale, che potesse diffondersi velocemente. Internet è lo strumento per eccellenza che fa al caso nostro, così lontano dal mondo di reclusione, così vicino alla gente di tutti i giorni: e noi siamo il tramite tra i due mondi, tra il dentro e il fuori. La nostra idea è diventata quindi una piattaforma, e poi un blog: il blog di carteBollate.
*Sabrina Flisi si è laureata oggi con 110 e lode all’Università Bicocca di Milano. Il titolo della sua tesi è: «Carcere, media e tecnologia: nasce il blog di CarteBollate». Quella che avete appena letto è l’introduzione.
AGGIORNATO IL 22 FEBBRAIO 2019
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Sabrina Flisi si è laureata oggi con 110 e lode all’Università Bicocca di Milano. Il titolo della sua tesi è: «Carcere, media e tecnologia: nasce il blog di CarteBollate». Quella che leggete qui è l’introduzione.
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Brava Sabrina, grazie a te nella redazione di carteBollate ci sentiamo un po’ tutti 110 e lode!
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Senza di te e l’aiuto della redazione questa tesi non esisterebbe! Ci vediamo presto. Un abbraccio, Sabrina.
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L’ argomento è molto interessante, accende la curiosità ma non la soddisfa. Vorrei saperne di più sulla vita del detenuto in carcere. Chiedo cortesemente alla signorina Sabrina , se conosce qualche testo che tratta l’argomento ,di segnalarmelo. Complimenti per la tesi! Distinti saluti.
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Ciao Anna, ti ringrazio.
Benché la letteratura a riguardo non sia ampia, sicuramente può trovare interessanti le seguenti fonti.
I giornali scritti direttamente in carcere sono ottimi per approfondire l’argomento. Oltre a Carte Bollate c’è Ristretti Orizzonti (scritto dalla Casa di Reclusione di Padova, http://www.ristretti.it/) che è stato il pioniere e con il suo Osservatorio e Centro Studi è un vero e proprio punto di riferimento anche per gli addetti al lavoro.
Se invece vuole leggere qualcosa di autobiografico il detenuto Carmelo Musumeci – ergastolano che ho avuto modo di intervistare per il progetto di tesi – ha scritto diversi libri e sul suo sito (http://www.carmelomusumeci.com/) trova diari e lettere.
Buona giornata
Sabrina
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