Le Marche e il loro colore “cittadino, esatto, artigiano”

di Corrado Alvaro*

Oggi, sabato 30 novembre, le Marche saranno on air a partire dalle 16,45 e fino alle 20 su Radio ICN – NY. Silvia Tamburriello dall’università di Camerino e Anthony Pasquale dagli studi di New York si collegheranno con Spagna, Repubblica Ceca, Canada, Stati Uniti e Argentina per tenere viva l’attenzione sulle zone colpite dal terremoto di 3 anni fa, fare il punto sulla ricostruzione e rafforzare il legame con chi ha lasciato la “terra delle armonie” per altri Paesi. Ci sarà un collegamento anche con Milano a margine dell’incontro con Andrea Cherchi nell’Oratorio di San Protaso al Lorenteggio, organizzato per le ore 16 dalla scrittrice Paola Barsocchi e con l’intervento musicale di Paola Ciccioli e Luca Bartolommei che per il grande fotografo e il suo libro Semplicemente Milano hanno scritto una canzone.

Dedichiamo ai marchigiani sparsi per il mondo un ritratto d’epoca della loro regione.

Le Marche e i colori dall’alto di Pitino, San Severino Marche (foto di Paola Ciccioli)

La casa colonica delle Marche ha la sua storia. Nacque spontanea come un fiore errabondo. Prima fu di mota e quasi un attendamento sulla terra non ancora dissodata, quando l’agricoltura italiana non era arrivata alla sua perfezione d’oggi. Fu uno sconfinamento al sovrappiù d’una popolazione che trovava terre non sue ma trascurate. I pacifici conquistatori non avevano neppure arnesi di lavoro. I padroni delle terre fecero ad essi buon viso. “Se tu coltivi questo pezzo di terra ti fornisco gli utensili”. Bene. E poi: “Ora che lavori, ti do le sementi”. Bene. Così nacque la mezzadria, naturalmente; le abitazioni si ampliarono, si popolarono di famiglie e di animali, diedero quell’aspetto a tutta la Marca interna dove, da poggio a poggio sugli scrimoli dei colli e dei monti tutti col loro profilo a mucchio e a pigna culminanti nella chiesa col suo campanile a freccia, nel paesaggio dolce e aspro, monotono e inesauribile, diligente come la terra in Toscana e in Romagna, sotto un cielo dolce luminoso e un poco freddoloso di cui non si scordò mai Raffaello, un cielo intenso e rinascimentale, tra casa e casa, l’embrione del vecchio abituro di mota rispunta ancora. La conquista della terra per parte dei contadini delle Marche fu un’opera lunga. Ora la proprietà è molto spartita; in un ettaro di terra, che è un miracolo di diligenza, vive spesso una famigliola.

Appena un poco in alto, sui colli che salgono e scendono con un ritmo uguale, si domina il panorama col sentimento di trovarsi fra gente molto diligente; a entrare nei paesi, si scopre sempre una traccia di vecchia nobiltà, un palazzetto settecentesco, dell’epoca delle nuove fortune della borghesia, una chiesa romanica, e all’ombra di essi una popolazione tutta operosa che lavora ancora ai ferri battuti e che ha imparato bene i vecchi mestieri, fabbri e falegnami, buoni costruttori con l’unico elemento che offra il paese, il cotto. I paesi sono quasi tutti di mattoni, il mattone è messo anche di taglio per lastricare; sul cocuzzolo del colle cretoso gli abitanti sono dello stesso elemento: vengono fuori le più belle intonazioni di rosso, e il mattone dà un senso di diligenza umana. Le Marche hanno un colore tutto loro in Italia, cittadino, esatto, artigiano. Tra lo squillo dell’incudine e il raschio della pialla che è il suono di molti paesi qui, sulle soglie delle porte o nelle stanze a terreno le donne lavorano i loro pizzi e ricami.

Nelle Marche non c’è niente di quel pittoresco che incuriosisce il visitatore, ma intanto si entra subito in rapporto con questa regione come se si fosse penetrati in un cantiere di quelli all’antica, propriamente artigiani e individuali. È un paese che sta sulle sue; vi si intuisce una vita familiare molto chiusa e gelosa, una vita signorile sepolta negli anni e rimasta ferma e orgogliosa, insomma una nobiltà provinciale di cui sono arrivati nella grande tradizione italiana gli echi, che ha improntato di sé l’artigianato e il complesso familiare con caratteri non tanto facili da penetrare. Si dice comunemente che il marchigiano sia esatto, e forse troppo. Qui non c’è un solo accento di colore locale, di quello che rende avventurose tante regioni nostre. Ci si sente la Marca papale, le fortune maturate discretamente all’ombra della Chiesa, che hanno radunato nelle vecchie case i vecchi libri, i vecchi mobili, i vecchi orgogli e le vecchie tirannie familiari. Leopardi rappresenterebbe la biografia modello del marchigiano. Ne rappresenterebbe in sommo grado l’ingegno naturalmente cittadino; in lui come nella sua grande famiglia regionale, non si trova un solo accento popolaresco, quello stesso che anima violentemente il panorama del vicino Abruzzo. Chiuso nella sua stanza, nella sua biblioteca sotto gli occhi del padre severo che lo sorvegliava dal suo tavolo, Leopardi intuì, ragazzo solitario, molti segreti del mondo grande che non aveva ancora visitato, e nel mondo avvenire; e tutto ciò dal suo angolo di provincia, che sarebbe inesplicabile se non si tenesse conto dell’ingegno tutto cittadino delle Marche.

*Dal capitolo dedicato alle Marche nel libro di viaggi di Corrado Alvaro Itinerario italiano, 1941, dono di Roberto Fera a Paola Ciccioli (che ha curato il post).

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