di Tefta Matmuja

Tefta Matmuja fotografata dal compagno Christian. Quella che vi proponiamo è la seconda parte del discorso che ha tenuto a Roma nel corso dell’International Women’s Workshop for the Right to Education. Nel post precedente, pubblicato il 30 agosto, Tefta ha raccontato la sua formazione scolastica in Albania durante la dittatura
Purtroppo i politici non capirono. Inesperti della libertà e a conoscenza soltanto del potere, non si preoccuparono di migliorare le condizioni economiche del popolo. Il loro impegno era solo nel prendere il potere nel modo più rapido possibile. Ma la gente chiedeva libertà ormai. Non un’altra dittatura che prendesse il posto di quella precedente, anche se insistevano nel chiamarla democrazia. La gente iniziò a soffrire le privazioni economiche ed era impaurita dal fatto che nessun politico sembrava preoccuparsene.
Iniziammo noi. I giovani, la promessa futura classe dirigente e culturale dell’Albania. Licei ed università, tutti in marcia per chiedere che fossero garantiti e rispettati i nostri diritti. Marce pacifiche, scioperi della fame, e le forze che volevano conservare il potere, perché solo a quello erano interessate, cercavano di impedire tutto questo.
Il popolo spinto dalla delusione decise di prendere le armi e di rivoltarsi contro chi aveva promesso democrazia e benessere economico.
Nel 1997 l’Albania dichiarò di essere in piena guerra civile.
Non ci credetti fino a quando mia sorella non tornò a casa e disse di fare i rifornimenti di cibo ed altro perché non esiste più la polizia, non c’è più lo Stato e che tutto era stato preso d’assalto. Uscii di casa per vedere con i miei occhi tutto questo e mi spaventai perché il vicino mi salutò con in mano un fucile e tornai di corsa in casa con una sensazione davvero di terrore. Nulla più avrebbe potuto proteggermi, eravamo tutti costretti ad avere un’arma in casa per poterci difendere. Ogni amico, ogni conoscente, anche il vicino poteva diventare il nostro nemico in un attimo. Non ci potevamo fidare più di nessuno.

In un selfie, «tutti e tre». Sì, perché in questo scatto pubblicato su Facebook con mamma Tefta e papà Christian c’è (nel pancione) anche Zoe, venuta al mondo il 27 agosto
Mio fratello mi insegnò a pulire un’arma, così che eventualmente potessi avere la capacità di usarla. Mi rassicurava il fatto che mio cognato, che era nell’esercito, mandava ogni tanto un gruppo di militari sotto il suo comando per controllare che stessimo bene, e per far vedere agli altri che c’era chi si occupava e preoccupava di noi.
Non esisteva più nessuna istituzione, non si poteva andare più a scuola e da nessun’ altra parte. La notte dovevamo stare nella parte bassa della finestra perché la gente sparava per aria e le pallottole vaganti avevano già fatto tante vittime.
Per un mese, per trenta lunghi giorni, non uscimmo di casa. Poi ripresero a “funzionare” le istituzioni.
Mi resi conto che cosa voleva dire essere donna in mezzo ad una guerra di uomini.
Mancava un mese alla maturità, al compimento dei miei 18 anni, e dovevo andare a scuola tutti i giorni facendomi accompagnare da mio fratello perché nessuno mi facesse del male, così come le mie compagne erano accompagnate dal padre o da un fratello grande anche loro.
Odiavo tutto questo, lo rifiutavo con tutto il mio cuore. Veniva calpestata la mia dignità, la mia personalità non esisteva più, tutto il mio essere era ignorato da tutti. Solo la sopravvivenza era importante. Ebbi il coraggio di oppormi: a mia madre, alle mie amiche, ai miei fratelli, all’Albania, non volevo continuare in questa condizione.
Nessuno poteva e doveva farlo, nessuno mai doveva permettersi di violare la mia libertà di camminare libera per le strade della città, di avere dei pensieri, di sorridere.
Andai da sola il primo giorno dopo il cosiddetto ritorno alla normalità.
Tenevo gli occhi bene aperti ogni volta che una macchina mi passava vicina, ogni volta che lo sguardo di un ragazzo incrociava il mio. Con la testa inchinata verso il basso guardavo la strada, e stavo allerta.

«E la pancia non c’è più», sembra dire Tefta Matmuja nella foto del suo profilo Facebook, a sottolineare la “rivoluzione” di essere da pochissimo diventata madre. Ma quanta paura e solitudine ha dovuto attraversare prima di lasciarsi alle spalle “l’inverno” che aveva dentro durante la sua giovinezza in Albania
Si era diffusa la voce che le ragazze venivano ingannate, veniva fatto bere loro un drink con un sonnifero forte dentro, e si sarebbero risvegliate in un altro Paese per essere rese schiave ed avviate alla prostituzione.
Ero piena di rabbia, perché non si era più liberi, ed il pericolo era maggiore di un libro letto in meno, o di un comportamento imposto. Si rischiava la vita.
E iniziai ad essere meno femminile, a praticare la box, per ogni eventualità, questo perché mio fratello voleva che fossi pronta a difendermi in ogni momento. Dovevo imparare a non sentirmi più donna. Dovevo imparare ad essere un uomo.
Scoprii dopo che mio fratello osservava ogni mio movimento. Quando mi vide parlare con un nuovo compagno di classe, e pensò che fosse qualcuno che mi volesse ingannare, spuntò da non so dove e mi tirò con forza indietro, minacciando lui che l’avrebbe ammazzato in quel momento se poco poco avesse solo pensato di farmi del male.
Piansi nonostante le sue scuse, piansi perché non c’era niente di libero, nonostante sapessi che voleva solo proteggermi. Non si poteva essere donne ed iniziai ad amare la lettura.
Il libro Sikur te isha djale (in italiano Se solo fossi stato uomo) di Haki Stërmilli, scritto negli Anni ’30 parlava della situazione precaria della donna nella società albanese. Le cose non solo non erano cambiate in meglio, ma si era tornati indietro di quasi un secolo.
Vedevo che le mie compagne di classe erano meno pensierose al riguardo e vivevano come se nulla fosse, senza preoccuparsi troppo né del presente né tantomeno del futuro, fino a quando due di loro non le vidi più in classe, e tutte iniziammo a chiedere cosa fosse successo. Poco tempo dopo scoprimmo che due ragazzi che loro ultimamente frequentavano avevano pianificato di rapirle e venderle in Italia, ma per loro fortuna l’attenzione dei loro genitori le salvò. Furono salvate in tempo. Ma quante non furono così fortunate?
Il male era vicino a me, e così iniziai ad avere più paura, ed a rinchiudermi in me, ad avere ancora meno voglia di essere donna. Era il grande inverno dentro di me, nel mese di giugno.
Avevo un altro dittatore che comandava le mie mosse. Non potevo e non dovevo essere donna, bisognava esserlo il meno possibile. L’aggressività nei confronti di qualsiasi uomo che mi si avvicinava era palese. Li odiavo ed invidiavo nello stesso momento. Loro potevano tutto. Io no.
Loro uscivano sereni e tranquilli io no. Loro potevano ingannarmi io no. Loro potevano comandare io no. Non lo accettavo dentro di me e la lotta interiore era sempre più grande ed i litigi con mio fratello aumentavano ogni giorno di più. Lui sapeva il perché e continuava ad allenarmi come un maschio, facendomi fare pesi, flessioni, pugni al sacco. Voleva dirmi che tu puoi, puoi essere libera, ma devi anche saperti difendere in questa realtà dalle cose peggiori.

«Meravigliosa mamma», scrive Tefta su Facebook accanto a questa foto. Nella sua testimonianza, molto importante e intensa, afferma: «Io vengo da una brutta razza? Ma se ho una madre che ha cresciuto da sola sette figli, con tanta onestà, umiltà, educazione, cultura»
Qualche giorno dopo il mio diciottesimo compleanno, venne a casa mia sorella dicendomi che l’Albania aveva firmato un trattato con le università italiane per lo scambio degli studenti. Lei mi voleva libera da questo mondo, voleva che non vivessi mai quello che loro avevano vissuto, e sperava con tutto il suo cuore che io ce la facessi. Avrebbe fatto di tutto per questo.
I migliori sarebbero stati selezionati, fece tutto lei nella raccolta della documentazione. Feci un corso accelerato di italiano in poco tempo.
Mi preparai per il concorso, e poi in attesa della risposta dell’ambasciata italiana mi preparavo per i concorsi delle università albanesi essendo molto duri i test di ingresso.
Il suono del telefono diede fine alla mia attesa ed entrai in un mondo irreale, in cui nulla sembrava vero. Si stava realizzando un sogno. Il poter ritornare a vivere, ad essere donna di nuovo.
Pensai alla prima volta che avevo sentito parlare dell’Italia, di Roma, e mi tornò in mente il libro di storia che avevo studiato quando avevo 11 anni. Avevo letto lì di Giulio Cesare, trattato in una mezza pagina di un libro. Quel poco detto su Roma, su lui ed altri come lui che avevano buttato giù le basi per il mondo libero, mi aveva fatto sognare Roma e mi venne in mente una promessa fatta alle mie vicine di casa che avevano la mia stessa età: «io andrò a studiare a Roma». E la loro risposta fu: «ma cosa dici, nessuno dovrà sentire quel che hai detto, altrimenti i tuoi genitori subiranno una dura punizione, forse anche la prigione». Ero una traditrice del Paese. Mi guardavano sfiduciate e con paura.
Invece il momento era arrivato, dopo pochi giorni avrei lasciato l’Albania e mi sarei immersa in un mondo sconosciuto. Furono la nave che partì da Durazzo per Bari e le mie lacrime quando salutai mamma che mi fecero capire che veramente io stavo andando via.
Mi accompagnò il tramonto che illuminava il cielo di Durazzo nella partenza verso il nuovo mondo, durante la notte, in sottofondo il suono delle onde che sbattevano sulla nave, dentro di me sentivo un miscuglio di sensazioni indistinguibili: ero entusiasta e triste allo stesso tempo, ed avevo paura del nuovo e sconosciuto mondo che nella terraferma mi aspettava.
Il viaggio durò un attimo e durò un tempo infinito. Ero felice e tremavo di paura. Ridevo e le lacrime mi scorrevano sul viso. Lasciavo la mia casa e la mia terra, senza sapere cosa avrei trovato.

Madre Teresa di Calcutta: “Io di lei sapevo poco, capii quanto poco ci avesse permesso quel regime politico di sapere, anche sulle persone grandi che come lei avevano usato la forza dell’amore per regalare al mondo una vita più felice”
Roma, il mio sogno realizzato, vederlo, era così irreale per me che non smettevo di ripetermi che ero qui, ce l’avevo fatta. Roma il mio sogno nato durante la dittatura, tenuto nascosto per anni dentro di me. La dittatura non mi aveva sottomessa mai, avevo sognato il mondo capitalista, l’al di là del mare. Io sapevo che c’era l’al di là del nostro mare. Ce lo tenevano nascosto, il mondo. Io lo toccavo il mio sogno e lo amai il primo giorno, e non ho smesso mai di amarlo.
Il terzo giorno a Roma, alla fermata dell’autobus, mi sono rivolta ad un prete per chiedere l’indicazione su una strada e lui dopo aver capito che ero albanese mi si è rivolto con molta aggressività dicendo voi avete cacciato via Madre Teresa di Calcutta, essendo lei di origine albanese. Io di lei sapevo poco, capii quanto poco ci avesse permesso quel regime politico di sapere, anche sulle persone grandi che come lei avevano usato la forza dell’amore per regalare al mondo una vita più felice.
I primi giorni all’università iniziai a rendermi conto che la strada era lunga e molto dura.
E nel mio sogno c’era stato solo l’arrivo, ma nulla del percorso. Mi sentìi appena nata, nata a 18 anni, a Roma, senza genitori, fratelli e sorelle, amici e amiche, parenti e vicini.
Ero solamente io, Tefta, con il mio desiderio di studiare, di sapere, e di farcela. Con il desiderio di vivere.
Ero sola, nell’affrontare una battaglia in un terreno sconosciuto. Senza nessuno. Ero solo io che dovevo badare a me stessa. Io e le mie forze. Non avevo altro. Nessuno che mi poteva dire ce la farai, stai tranquilla, andrà tutto bene, non ti preoccupare. Nessuno.
Le strade affollate per me erano vuote. Non riconoscevo i luoghi, non c’era niente che mi ricordasse le mie emozioni. Non c’era nulla del mio vissuto in nessun posto.
Imparai cos’era il permesso di soggiorno, dov’era il commissariato, la strada dalla casa dove vivevo all’università, dover cucinare per me.
Mangiavo da sola. Era così nuovo e freddo tutto questo.
Mi mancava la tavola piena di gente, la cucina di mamma, qualcuno con cui parlare, un viso che potevo aver visto anche una sola volta.
Tutto questo mi addolorava, e rendeva tutto più difficile.
All’università era tutto diverso, le aule erano grandissime ed io ero solo una delle tante persone che giravano là dentro, e passavo inosservata anche agli occhi di dio. Mi sentivo un buco nell’acqua, un fantasma con un solo amico, il mio diario.
Ero sola, con mille persone attorno a me ed anche se mi mettevo ad urlare nessuno avrebbe ascoltato il mio grido.
Ogni tanto tornavo a Termini, lì da dove ero arrivata, a guardare i treni che andavano e venivano.
Mi ricordava il mio arrivo ed il mio sogno.

«Leaving», lasciando Tirana. L’aeroporto della capitale albanese è intitolato a Madre Teresa di Calcutta, proclamata santa da Papa Francesco. «Al secolo Gonxha Agnes Bojaxhiu (Skopje 1910 – Calcutta 1997), nacque da famiglia benestante d’origine albanese a Skopje, nell’odierna Macedonia, il 26 agosto 1910»
Ogni giorno era dura, dover capire il mondo intorno a me, dover lottare contro i pregiudizi sugli albanesi, sulle donne albanesi, e fare capire alla gente che non tutto è come i mass media raccontano.
Fu ancora più difficile capire le persone che mi circondavano ogni giorno. Comprendere la cultura del posto dove orami vivevo e studiavo. Farmi capire da loro.
Ogni giorno diventava ancora più dura, i mass media parlavano male degli albanesi, che venivano descritti tutti come degli uomini e donne senza cuore, senza identità, personalità, e non potevi lamentarti perché era inutile, nulla poteva cambiare quello che ormai si era diffuso nella mente del popolo.
I primi anni che stavo in Italia, mi capitò in una situazione particolare, in riferimento a persone che devo ammettere davvero si erano comportate molto male, di ascoltare questa frase: «siete una brutta razza».
Iniziai a riflettere come mai la gente può pensare questo su tutti gli albanesi.
Io vengo da una brutta razza. Ma se ho una madre che ha cresciuto da sola sette figli, con tanta onestà, umiltà, educazione, cultura.
Perché lei dovrebbe essere la mia brutta razza?
Eppure non ha mai fatto del male a nessuno, ha lottato con tutte le sue forze per avere voce in capitolo in quanto donna, nell’Albania comunista.
Si è trovata da un giorno all’altro a fare l’uomo e la donna di casa. Che male mai avrà fatto lei, per meritarsi di sentir dire che è la genesi di una brutta razza?
Donne come lei ce ne sono poche, rare ed uniche al mondo. Non ha mai smesso di amare mio padre, anche dopo molto tempo che lui non c’era più, non ha mai rinunciato alla promessa fatta a lui, nel letto della sua morte, che ci avrebbe cresciuto senza farci mancare nulla, che ci avrebbe dato l’educazione e l’istruzione come se lui fosse lì accanto a lei.
Andava al lavoro la mattina presto, e quando ci svegliavamo avevamo la colazione pronta ed i nostri vestiti, lavati, cuciti e stirati.
Faceva la contabile in un mobilificio, lavoro avuto quando mio padre era vivo e mantenuto con tanta forza quando lui è morto, difeso con le unghie dai suoi colleghi maschi che non avevano fiducia nei suoi confronti in quanto donna con dei figli. Ma a lei serviva per farci crescere e nutrirci. E lavorava con tutte le sue forze senza sosta.
Tornava il pomeriggio tardi e si dedicava a tutti noi, e la sera quando noi dormivamo lei restava sveglia a preparare quello che a noi serviva, a preoccuparsi che a noi non mancasse niente.
Era questa la brutta razza per la gente: il suo spirito di sacrificio, il suo cuore enorme, la sua anima buona ed instancabile nonostante le tante delusioni della vita?
Essere vedova durante la dittatura era così difficile per una donna. Nessuno la considerava, nessuno la ascoltava, nessuno la capiva o comprendeva.
Ciò che contava era l’opinione degli altri, e bisognava essere conformi.
Se lui fosse vivo, lo ripeteva quando era stanca di lottare – pensava a mio padre – sarebbe stato diverso, diceva. Ed aggiungeva: «lui sì che è stato fortunato, ha lasciato a me la parte più difficile». Ma sapevo che erano parole dette con l’animo di chi ha paura di non farcela, e che avrebbe dato la sua vita per riuscirci.
Lei è unica, unica donna al mondo che ha tirato avanti con tante persone contro, impedendo a tutti di intromettersi nella nostra educazione. Ci ha cresciuti liberi, come anche papà avrebbe voluto.
Liberi di essere, di sognare, di vivere, di amare. Mai fare del male, mai lo dovete fare ci raccomandava.
Eppure non c’era un dio a qual tempo nell’Albania atea, ma lei le parole di dio ce le ha trasmesse con il suo amore.
Eppure io non credo che questa sia la brutta razza, mi dicevo. Sono fiera di essere figlia di mia madre e mio padre, sorella delle mie sorelle e fratelli.
Ogni volta che conoscevo una persona nuova sentivo l’obbligo di dire da dove venivo, come ero arrivata qua e perché stavo qua, per ricevere alla fine l’alta votazione: «non sembri albanese». Odiavo questa frase, mi chiedevo sempre cosa volesse dire, a maggior ragione detta da persone che non avevano mai conosciuto direttamente una persona che veniva dall’Albania. Un giorno ebbi il coraggio di chiedere a qualcuno cosa volesse dire con questa frase, ricevetti come risposta il silenzio.
Sentivo dentro di me tanta rabbia.

Tefta in un pub di Tirana durante una vacanza in Albania. A proposito della sua scelta di stabilirsi in Italia racconta: «Decisi con tanto dolore di tornare e lottare qui, nella città che avevo adottato e mi aveva adottata per trovare me stessa»
Sfogliando in metropolitana il giornale gratuito tre anni fa, c’era scritto che i più pericolosi in Italia sono gli albanesi, la fonte del sondaggio era sconosciuta. Chiamai il giornale per sapere come mai si fossero permessi di scrivere un articolo così. La risposta di chi mi ha rispoe al telefono fu ancora più sconcertante dell’articolo: «fa clamore così com’è scritto».
Articoli scritti tanto per fare clamore, e senza pensare a quante persone potevano ferire. Erano questi i mass media italiani.
Dopo la laurea, tornai in Albania, perché così potevo trasmettere qualcosa di bello di quello che avevo studiato, di quello che avevo vissuto, visto, ed imparato vivendo in un Paese che non era il mio. Dovevo lavorare nel dipartimento di un ministro donna, tanto ammirata e stimata da tutti e per me era il più grande apprezzamento dover lavorare con la sua squadra.
Vidi che l’Albania in mia assenza si era evoluta in un’altra direzione. Avevo ritrovato un mondo che non era il comunismo, che non era il caos che avevo vissuto, non era la guerra civile, era un altro mondo estraneo al mio, ed io ormai ero diventata diversa.
Le donne dovevano essere super curate oppure avere un compagno benestante o di potere per essere ascoltate.
Capii che il sogno della donna libera aveva ceduto al compromesso di una vita facile.
Mi sentivo estranea nella mia città, tutto era così nuovo nel mio Paese natale dove avevo tanto sofferto, tanto gioito e tanto sognato.
Decisi con tanto dolore di tornare e lottare qui, nella città che avevo adottato e mi aveva adottata per trovare me stessa.
(seconda parte – Fine)