“Sembrava un attore e parlava un italiano perfetto”, così la maestra si innamorò del suo Fernando

di Anna Caltagirone Antinori

Ci siamo quasi. La Maestra Anna sta completando il lavoro di scavo e scrittura dei suoi ricordi, ora a disposizione di chi vuol guardare un po’ più da vicino alle trasformazioni del nostro Paese e del nostro sistema scolastico e usare come lente di ingrandimento la storia di una ragazza che scappa dalla guerra e da Palermo per trovare nelle Marche la possibilità di vivere, diventare insegnante e costruire una famiglia. Dopo il bellissimo incontro del 14 ottobre scorso nella Biblioteca di Urbisaglia, dove la Maestra ha riacceso l’affetto e la stima di quando abitava e insegnava nella frazione Convento (ora risiede a Macerata), ci prepariamo a una nuova occasione di condivisione pubblica della sua esperienza. Seguiteci, vi daremo presto tutti i dettagli.

Grazie a Giulio Pantanetti che ci ha inviato “Informando”, il periodico dell’Amministrazione comunale di Urbisaglia (Mc) che ha dato molto spazio all’incontro in Biblioteca con la Maestra Anna Caltagirone Antinori

Vinsi il concorso magistrale nel 1951 e per l’anno scolastico 1951-52 fui assegnata alla scuola elementare statale di Monticole, frazione di San Severino Marche. Era una sede scomoda che raggiungevo solo col cavallo di San Francesco, cioè a piedi. La corriera mi lasciava sulla strada provinciale, a valle di un monticello chiamato Pitino e dopo circa cinque chilometri in salita arrivavo alla sede scolastica.

Quell’anno nella zona erano state assegnate due insegnanti di prima nomina: Maria Sorcionovo alla scuola in contrada Bagno, io a quella in contrada Monticole di San Severino. Maria si era sposata da poco e il marito, poliziotto in servizio a Macerata, tutte le sere tornava da lei. Io stavo sola in una scuoletta non isolata, ma contigua ad un’altra casa abitata da una vecchietta, il figlio e la giovane nuora. I disagi erano tanti: nella scuola non c’era l’acqua, il bagnetto era alla turca con un tubo che si perdeva nei campi e l’aula era riscaldata da una stufa a legna.

La mia camera e la cucina venivano “intiepidite” dal fuoco del camino. Bisognava adattarsi e cercare di superare tante difficoltà, ma io ero giovane e lo stipendio, che finalmente arrivava ogni mese, rendeva ogni sacrificio sopportabile.

Il piccolo borgo di montagna era abitato da contadini e pastori; avevano tutti un campo da coltivare, nella stalla qualche mucca da lavoro e due o tre pecore o caprette da latte per fare il formaggio e per fornire la lana.

Ogni famiglia aveva il suo pollaio, una conigliera e perciò avevano di che nutrirsi. I bambini venivano a scuola puliti e ben pasciuti con belle guancette rosee. Alcuni erano lo specchio della salute perché respiravano l’aria della pineta che ci circondava. Nel pomeriggio li vedevo passare con una borsa a tracolla, “ciocchette” di legno ai piedi e un bastone per tenere a bada due pecorelle. Salivano sul monte e tenevano d’occhio le pecore mentre pascolavano. I più volenterosi, oltre alla merenda, mettevano nella borsa un libro per leggere e un quaderno per fare i compiti.

Per sentirmi meno sola avevo preso accordi con la collega Maria: ogni giovedì alle due del pomeriggio partivamo da casa per incontrarci a metà strada, in uno spaccio di campagna, dove facevo le provviste per la settimana.

Una bella giornata di ottobre, uscendo dallo spaccio, c’inoltrammo in un sentiero per una passeggiata. L’aria tiepida e la natura vestita dei colori dell’autunno ci avevano messo di buon umore: chiacchieravamo allegramente e ridevamo, quando ci accorgemmo che ci seguiva un gruppo di ragazzi, anche loro scherzavano e ridevano. Quando furono più vicini ci chiesero come ci trovassimo nella nuova sede. Non ci voltammo e non rispondemmo perché allora non si dava confidenza agli estranei. Uno di loro commentò che per noi, ragazze di città, stare a Pitino doveva essere come stare al confino. Quella “o” finale di confino m’incuriosì e mi voltai per vedere chi stesse parlando. Vidi un ragazzo alto, con un maglione bianco, i capelli neri ben ravviati e un viso da attore cinematografico: parlava un italiano perfetto.

Fernando Antinori, uomo di innata eleganza, in una foto giovanile dall’archivio privato di sua moglie Anna

Giunti al bivio, salutai Maria e tornai a casa. Pensavo continuamente a quel bel ragazzo. Il giorno dopo chiesi alla vicina chi poteva essere. Seppi che era il figlio più grande di una famiglia di contadini che abitava nei paraggi, che studiava medicina a Roma e che ogni tanto tornava a casa.

 

Passò del tempo e un giovedì, dopo avere fatto la passeggiata con Maria, tornando a casa incontrai quel ragazzo e facemmo un tratto di strada insieme. Mi raccontò le sue peripezie: disse che aveva fatto il liceo classico e poi era andato a Roma per frequentare la facoltà di medicina, ma verso la fine del secondo anno era tornato a casa perché i suoi non avevano i mezzi per mantenerlo agli studi. Mi disse che per affrontare le spese, la mattina seguiva le lezioni in facoltà, nel pomeriggio faceva l’assistente ai lavori in un cantiere edile, studiava di notte e mangiava poco e male.

Rimase molto amareggiato quando seppe in ritardo di un bando di concorso per l’assegnazione di una borsa di studio, per la quale aveva tutti i requisiti richiesti e che avrebbe potuto risolvere tutti i suoi problemi. Deluso e stanco, aveva deciso di tornare a casa e rinunciare al suo sogno.

Capii subito che era un bravo ragazzo e mi affezionai a lui; cercavo di incoraggiarlo e tirarlo su di morale.

Avevo con me molti libri di scuola perché avevo sostenuto da poco gli esami del concorso, Fernando me li chiese in prestito “per passare tempo”. A giugno, terminato l’anno scolastico, tornai in Sicilia per trascorrere le vacanze estive in famiglia. Nel frattempo feci domanda di trasferimento per una sede più vicina a Macerata; ottenni la scuola di Fontemaggio di Treia. Dalla corriera che mi lasciava al Borgo di Treia dovevo percorrere solo tre chilometri di strada asfaltata e pianeggiante. Comperai subito una bella bicicletta Zanconi con la forcella rinforzata, alla quale feci subito applicare un motorino a miscela che si chiamava “Mosquito”.

La casa annessa alla scuola era più comoda e più calda. Potevo stare più tranquilla, ma il mio pensiero andava spesso a Fernando che non si era più visto.

Un giorno di primavera, mentre facevo due chiacchiere al sole con la padrona di casa, vidi venirmi incontro Fernando: quante cose avevamo da dirci… Mi raccontò che si era preparato da solo e a luglio si era presentato da privatista agli esami per il conseguimento del diploma magistrale. Era stato promosso e si guadagnava da vivere dando lezioni private in varie materie e facendo qualche supplenza.

Lavorò anche come contabile alla fornace di Bartoloni a Treia, poi alla Cassa di Risparmio per sostituire gli impiegati in ferie. Alla fine diede gli esami per il concorso magistrale e lo vinse.

Dall’archivio personale di Anna Caltagirone Antinori, la foto di gruppo della Maestra con i suoi allievi davanti alla Scuola statale di Monticole, frazione di San severino Marche

Tutta la vita, però, si è rammaricato di non aver potuto continuare gli studi di medicina; per un periodo fece anche l’informatore scientifico e, stando a contatto con molti dottori, spesso si portava a casa notiziari di medicina per approfondire conoscenze che lo interessavano.

Alcuni amici gli chiedevano consigli per curare alcuni disturbi fisici. Ricordo che un giorno salvò la vita ad una collega vicina di casa. Prima che arrivasse il medico, capì che aveva in corso un’emorragia interna: la portò subito all’ospedale dove ricevette, appena in tempo, le cure del caso.

Quando anni dopo mi ammalai di un brutto male, fu lui il primo a capire di che cosa si trattasse e mi convinse ad andare dal medico. In diverse situazioni ho capito che quella per lui sarebbe stata la strada giusta.

Quando lo vedevo pensieroso, sapevo cosa gli stesse passando per la testa; cercavo di distrarlo col mio affetto, ma raramente ci riuscivo. Fernando è stato un buon esempio per i nostri figli: da lui hanno imparato l’amore per lo studio, ad essere onesti nel lavoro e rispettosi verso gli altri.

Quando Fernando ci lasciò, quelli che lo conoscevano dissero: “Era una brava persona!” Parole che ripagano i sacrifici di una vita e tengono vivo il ricordo nel cuore di chi resta.

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