Era d’estate

di Maria Falcone con Francesca Barra*

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La lapide nell’isola dell’Asinara, in Sardegna, dove i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vennero trasferiti nel 1985 perché minacciati dalla mafia. A quel periodo di isolamento è dedicato il film “Era d’estate” di Fiorella Infascelli, in programma sabato 5 marzo allo Spazio Oberdan di Milano nella prima giornata del Cinema Italiano Festival

Così accadde. Il 28 luglio 1985 fu ucciso proprio Beppe Montana, mentre passeggiava con la fidanzata a Santa Flavia, il giorno prima di partire per le ferie. In quel momento Ninni Cassarà capì che il prossimo sarebbe stato lui. «Dobbiamo convincerci che siamo uomini morti che camminano» ebbe a dire.

E infatti, il 6 agosto 1985, gli spararono sotto casa. Duecento colpi di kalashnikov. Il primo a morire non fu lui, bensì l’agente di scorta Roberto Antiochia. Cassarà sarebbe caduto pochi secondi più tardi mentre correva, ferito, sulle scale di casa. Successe sotto gli occhi della moglie e della figlia che gli si stavano precipitando incontro.

In meno di dieci giorni, dunque, furono uccisi tre agenti della polizia senza che nessuno potesse proteggerli. Si erano ritrovati soli con le loro condanne annunciate e non fecero in tempo a vedere l’apertura di quel processo per il quale si erano sacrificati lavorando duramente. Tanti loro colleghi, in quel periodo, chiesero il trasferimento ad altra sede.

Qualcuno paragonò quella situazione all’inferno del Bronx, altri la definirono «mattanza». Era la Palermo in cui ostinatamente continuavano a lavorare giudici, scorte, ispettori, giornalisti.

E mio fratello.

Falcone e Borsellino

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si erano conosciuti all’età di 13 anni su un campo di calcio, a Palermo. Falcone è stato ucciso dalla mafia il 23 maggio 1992 nella strage di Capaci. Borsellino è stato ucciso dalla mafia il 19 luglio 1992 nella strage di via D’Amelio

Giovanni soffrì moltissimo per la morte di Cassarà, e in quell’occasione mi disse: «Il destino si accanisce contro di me. Sono stato costretto a mettere i piedi sul sangue del mio amico più caro».

Come sempre, però, il dolore non fermò il suo lavoro, che anzi sarebbe andato avanti con una motivazione ancora più forte: “vendicare Ninni”.

La città accusò il colpo della strage Cassarà, ma non manifestò quella partecipazione attiva che la società civile avrebbe dovuto dimostrare. Per noi familiari fu invece un trauma indescrivibile: non ci azzardammo a parlarne, non solo con Giovanni, ma neanche in sua assenza, quasi a voler esorcizzare la paura. In particolare, ricordo la sensazione di un dolore quasi fisico che già mi preparava a eventi ancora più dolorosi. Giovanni non faceva commenti; soltanto dopo ho capito che la sua preoccupazione era grandissima e che sperava di rassicurarci con la sua ostentata serenità.

Maria Falcone

«Domandai più volte a mio fratello perché si fosse ficcato in quel lavoro così pericoloso. Un giorno, mentre stava andando al Tribunale, mi feci coraggio e gli chiesi tutto d’un fiato: “Ma perché vai da Chinnici?”. “Si vive una volta sola” mi rispose per giustificare il suo impegno. Però quella frase aveva anche un altro sapore, la si sarebbe potuta interpretare come : “Si muore una volta sola”». Così Maria Falcone nella quarta di copertina del libro “Giovanni Falcone. Un eroe solo”

Dopo l’omicidio dei tre poliziotti nell’estate del 1985, la paura che Giovanni e Paolo potessero essere ormai bersaglio facile e prossimo per la mafia indusse le autorità a mandarli, con le famiglie, presso il carcere dell’Asinara. Lì avrebbero potuto concludere l’istruttoria e preparare il rinvio a giudizio dei quattrocentosettantacinque imputati.

Fu un vero trauma apprendere questa notizia. Ricordo quel giorno come fosse ora: Giovanni mi chiamò per telefono, verso l’ora di pranzo, per chiedermi di andarlo a trovare subito a casa. Preoccupatissima, mi precipitai da lui ed ebbi conferma dei miei timori. Con la sua usuale calma e pacatezza, mi disse che gli organi istituzionali preposti alla tutela sua e di Borsellino, avendo valutato attentamente la situazione, avevano deciso che a Palermo non erano in quel momento in grado di assicurare la loro sorveglianza e avevano deciso di trasferirli al carcere dell’Asinara. Poi aggiunse, sempre senza far trapelare la sua preoccupazione, che aveva chiesto agli stessi organi competenti se non fosse il caso di assegnare una sorveglianza particolare a noi familiari che saremmo rimasti in Sicilia. Gli era stato tuttavia risposto che era meglio non attirare l’attenzione della mafia.

Il mio ritorno a casa fu tremendo perché mi rendevo conto del pericolo che incombeva su Giovanni, ma ero anche angosciata per i miei figli, ragazzini che andavano a scuola da soli e che non avevo alcuna possibilità di difendere. L’unico modo per sopravvivere era far finta di niente, ma da quel momento la mia vita fu una continua ansia: ogni minimo ritardo al rientro dalla scuola, dalla palestra o da casa di amici divenne per me un incubo.

Era d'estate

Giuseppe Fiorello e Massimo Popolizio sono Falcone e Borsellino nel film “Era d’estate” che fa parte della sezione “Amori a prima vista” (anteprime per Milano) della quattordicesima edizione del Cinema Italiano Festival, in programma dal 5 al 12 marzo. Nella nostra Agenda “Oggi e dintorni” tutte le info

Al termine del lavoro, Giovanni e Paolo tornarono a Palermo. Il colmo fu che dovettero pagare le spese sostenute durante il soggiorno all’Asinara da loro e dalle famiglie nella foresteria di Cala d’Oliva, una casa di mattoni rossi a destra del porto. Come se si fosse trattato di una vacanza! È scandaloso che proprio lo Stato chiedesse soldi a due fra i suoi maggiori difensori.

*Tratto da “Giovanni Falcone. Un eroe solo”, di Maria Falcone con Francesca Barra (Rizzoli 2012). E dedicato a mio nipote Marco, giovane uomo di tante e solide e curiose e civili letture. (p.c.)

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