Papà, ridotto a lavorare sotto terra come i topi

di Nora Scarnecchia, figlia di un minatore morto di silicosi*

Vengo da Barrea in provincia di L’Aquila e quello che racconto è un pezzo di storia della mia famiglia, ma è soprattutto il ricordo di mio padre.

Papà era venuto a lavorare in Belgio, da solo, immediatamente dopo la guerra. Rientrati dallo sfollamento dopo la liberazione, avevamo trovato la nostra fattoria distrutta dai bombardamenti. La situazione finanziaria dei genitori era quasi a zero perché durante la guerra si comprava tutto a mercato nero. Per nutrire la famiglia di sette figli minorenni, papà decise di andare a lavorare nelle miniere del Belgio. «Solo per poco tempo» – ci assicurò. Infatti sia lui che noi tutti in famiglia ci illudevamo di ricominciare a lavorare in azienda agricola come prima.

La permanenza di mio padre in Belgio si prolungò oltre il previsto, com’era allora il caso di tanti altri minatori. Dopo pochi anni di lavoro in miniera la sua salute cominciò a rovinarsi. Sperava sempre di star meglio e di rimpatriare. Ma per paura di perdere i diritti sociali (mutua, pensione, ecc.) se tornava in Italia, si decise a farci venire in Belgio. Questo avvenne nel 1954.

Non so descrivere lo choc che provai nel trovare papà che aveva difficoltà a respirare e molto dimagrito. Arrivati dopo 24 ore di viaggio in treno da Charleroi (le pays noir!), mi cadde il cielo addosso. Quanta tristezza, quanta malinconia e nostalgia del nostro paesello, circondato di montagne e pieno di verde! Quanta delusione a vederci trattati come sporchi stranieri! Quante difficoltà a trovare un’abitazione decente! In quella che ci avevano dato in affitto ci pioveva dentro e i dolori reumatici sono apparsi subito a tutti in famiglia, si sono moltiplicati e sono ormai eterni.

Papà, abituato a lavorare all’aria aperta, si ridusse a lavorare a 1000 metri sotto terra come i topi. Il rumore infernale del martello pneumatico per scavare il carbone faceva vibrare tutto il corpo e lo spirito. C’era tanta polvere di carbone che era difficile vedere a un metro di distanza e quando c’era una frana pericolosa nella galleria, era ancora peggio: non si vedeva più nulla.

Minatori 3

Immagini da “L’altra Marcinelle” di Daniele Rossini

Ricordo con tenerezza questo episodio. Una volta il consulente medico della mutua decise che papà doveva ricominciare a lavorare il 1° dicembre. Il 3 era la vigilia di Santa Barbara, patrona dei minatori, e volli fargli la sorpresa di andargli incontro all’uscita dell’ascensore della miniera. Mi fermai per aspettarlo, era di sera e già quasi buio. Passavano davanti a me tanti minatori con la loro lampada attaccata al casco, con i visi neri come gli africani, ed io stentavo a riconoscere mio padre. La polvere di carbone s’infilava dappertutto e gli lasciava sempre un cerchio nero attorno alle palpebre bianche degli occhi. Fu lui a venirmi incontro e ad abbracciarmi commosso. Anch’io ero molto commossa a vederlo con la tuta blu dei minatori e con un tono di voce molto stanco. L’aspettai e dopo la sua doccia rientrammo a casa insieme, senza parlare. Il silenzio diceva tutto.

Il peggio doveva venire con l’aggravarsi della silicosi. Le conseguenze delle sofferenze causate a mio padre da questa terribile malattia hanno contagiato tutta la famiglia.Vederlo soffrire per l’affanno e l’asma con tosse costante era doloroso per tutti noi familiari. Le crisi erano più forti all’alba. La sua era una tosse forte e grassa che espettorava segni di polvere di carbone. Con gli sforzi della tosse papà aveva male agli addominali, aveva anche gli occhi gonfi e lacrimosi. La mamma gli scaldava una tazza di latte col miele con la speranza di calmare la tosse, ma questa ricominciava con accenni di vomito. Noi figli ci preparavamo per andare a lavorare e lasciavamo i nostri genitori al letto: papà stanco e sfinito e la povera mamma anche lei dolorosa a fianco a lui. Questa sofferenza con risveglio quotidiano e mattutino mi perseguitava tutta la giornata. Spesso le colleghe di lavoro mi chiedevano: «Nora, perché hai sempre l’aria triste e stanca?». Cosa rispondere? Le mie colleghe non potevano capire.

(…)

Minatori 1

*«Il disastro della miniera di carbone di Soma, che la settimana scorsa (13 maggio 2014, ndr) ha ucciso 301 minatori turchi, ha lasciato senza padre 432 bambini, la cui eta’ media è di 10 anni: lo ha detto oggi Aysenur Islam, la sola donna ministro nel governo del premier Recep Tayyip Erdogan, responsabile per gli Affari sociali». Questo è l’ultimo aggiornamento Ansa (22 maggio) sulla strage dei minatori in Turchia, scomparsa come da prassi in un soffio dai titoloni dei giornali e dalle bacheche Facebook listate a lutto. Ci sono state le elezioni europee e le gazzarre pre e post voto, certo. Ma proprio l’ascesa dei partiti e dei movimenti xenofobi e razzisti dovrebbe costringerci a uno sforzo di memoria e a ricordare, parafrasando un libro di Gian Antonio Stella, quando i “topi” eravamo noi e i nostri padri.

La testimonianza che pubblichiamo oggi è tratta dal libro “L’altra Marcinelle, dalle grandi tragedie sul lavoro alla lunga catena di vittime della silicosi” di Daniele Rossini (Acli Belgio – Bruxelles, 2006) che –  si legge nella prefazione – «è stato coordinatore del Patronato Acli del Belgio dal 1964 al gennaio 2005» e ha voluto «rendere omaggio alla lunga schiera di minatori morti non di morte violenta sul lavoro ma di morte silenziosa».

Devo questo e altri testi sull’emigrazione italiana in Belgio a Donata Robiolio Bose, fino al 2008 delegata al coordinamento consolare dei Paesi UE a Genk, nel Limburgo, che ho conosciuto là per lavoro e che mi ha aiutato a risalire alla miniera in cui mio padre, neppure ventenne, andò a lavorare con un suo amico d’infanzia. Una durissima esperienza che riuscì a sopportare solo per pochi mesi ma alla quale ha sempre accennato, senza alcuna autocommiserazione, fino alla fine della sua vita.

Il padre di Nora, come racconta lei stessa nella parte finale della testimonianza riportata nel libro di Daniele Rossini, decise di rimpatriare e di recuperare un po’ di salute nella sua terra d’Abruzzo. Ma «dopo qualche mese papà morì all’ospedale San Camillo di Roma, il 25 maggio 1962. Non aveva compiuto neanche 60 anni». 

(a cura di Paola Ciccioli)

AGGIORNATO L’8 AGOSTO 2019

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