«Le cose e gli esseri umani diventarono un immenso bottino di guerra per quelle furie scatenate»

di Maria Luisa Marolda

Maria Luisa Marolda, al centro, a La Spezia nel 1956, il giorno del matrimonio della sorella Anna Rosa. Anche questa foto, come quelle pubblicate nella prima parte del racconto, proviene dall’archivio privato della scrittrice romana e ci dà la possibilità di conoscere i volti dei protagonisti di questa sua straordinaria testimonianza. Con lei c’è il padre, il generale Alberto Marolda, in divisa, che le tiene una mano sulla spalla. E c’è naturalmente Teresita Fantacone, in famiglia chiamata Mammina, appoggiata sulla spalla dell’amatissimo consorte. Accovacciato, anche lui in divisa, il fratello Massimo Marolda, autore del testo di memorialistica “Il libro di Esperia”

Una grande famiglia, la seconda guerra mondiale, la “battaglia di Esperia”, i goumiers. E una madre che ha vissuto una lunga vita, nascondendo dentro di sé «il fatto centrale della sua esistenza, forse il più devastante». Di seguito la seconda parte del toccante racconto che Maria Luisa Marolda ci ha affidato con il titolo: Un’altra “livella”: lo stupro di guerra sui monti Aurunci.

Il 30 settembre del ’43, quando l’illusione di sicurezza e l’esultanza per l’armistizio venne meno col primo bombardamento alleato su Esperia, io avevo da poco compiuto un anno. Intanto una autocolonna tedesca aveva già occupato il paese e la popolazione dette il suo primo tributo di morti. Esperia si trovò, fino alla sanguinosa primavera del ’44, schiacciata tra le due forze in campo. Cosa poteva percepire una bambina così piccola di tutto quel frastuono e poi, da allora, del frequente correre, gridare, agitarsi, tenuta in braccio per non perderla di vista da mamma o fratello grande?

Le mie fonti dirette mi dicono che non piangevo mai, e quando chiesi perché, mi fu detto che ero circondata da tutto l’affetto e l’attenzione che ciascuno poteva darmi. Insomma ero diventata una specie di mascotte, come più piccola del gruppo. Oggi ne sento un riflesso, forse, per l’elemento affettivo molto evidente nei miei rapporti. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza in famiglia mi trovavo ad abbracciare qualcuno, tanto da essere soprannominata “messa parata”. Non ho mai approfondito se questo aspetto segnalasse dipendenza o sicurezza affettiva, quello che è certo è che fui salvata da incubi peggiori.

Il palazzo di Esperia: un grosso edificio chiuso come una fortezza, di cinque piani compresi i vasti magazzini; al centro un cortile con la cisterna, a chiudere l’alto muro un pesante portone rivestito di lastre di rame, coronato da uno stemma di origini lontane, non ben definite. La storia della famiglia e della casa racconta che il palazzo espresse la massima fortuna feudale del casato quando i suoi possedimenti si espandevano su monti e valli circostanti. Il bombardamento colpì vicinissimo al palazzo: tra fischi e boati delle bombe, tutti si rifugiarono nei magazzini, dove le mura erano più spesse e forti. Massimo ricorda gli interrogativi che si presentarono, nel silenzio che subentrò: «Chi erano?… Ce l’avevano proprio con noi?. Poi, pianti dei piccoli – anch’io?- e abbracci… come se non ci vedessimo da un’eternità: il tempo che passa tra la pace e la guerra!».(Il libro di Esperia, di Massimo Marolda p.119). Non si erano preparati a quel passaggio, sentendosi fino ad allora protetti, come se quelle mura potessero ancora svolgere la stessa funzione difensiva per cui erano state costruite.

Consapevoli ormai del rischio che si correva restando nell’abitato, e in quella grande casa che, dall’alto, nella sua imponenza, doveva attirare l’attenzione degli aerei alleati, il gruppo familiare decise di cercare rifugio fuori dal paese. Da quel momento cominciò un’altra vita, più dura man mano che il fronte avanzava e gli alloggi erano più lontani da Esperia e dalla possibilità di procurarsi il cibo. Dalla valletta alla base del monte D’Oro, a località sperdute tra le alture degli Aurunci. Come noi, la popolazione di Esperia migrava, vedendo, contemporaneamente, che i tedeschi prendevano possesso delle loro case.

La dipendenza dagli oggetti e dai segni che rappresentavano la vita agiata di prima accompagnò le prime tappe da profughi: vi fu la corsa a nascondere le suppellettili più preziose e ingombranti negli angoli riposti dei magazzini, con opere in muratura a celarle. Per non separarsi da altri oggetti più cari, le donne al servizio di allora furono caricate di bagagli, la cui intrasportabilità mi parve davvero troppo lampante e assurda. Mia madre, con Masssimo, come lui stesso racconta, aveva mesi prima fatto un viaggio fino ad Ancona, attraversando Roma, con San Lorenzo già bombardata, per recuperare e far giungere ad Esperia sette casse di biancheria ed oggetti pregiati. Mi immagino l’improbabile corteo di donne, cariche delle sette casse verdi, in fila su per quei tratturi, al seguito del gruppetto familiare. L’abitudine ai pesi ed a quei sassi operò quel miracoloso ed assurdo trasporto. Ma sullo sfondo mi sembra di scorgere l’ironico sorrisetto del destino, già pronto a sistemare le cose. Le casse finirono subito a formare la base del grande lettone di fortuna, nell’unico locale delle stalle in cui la famiglia alloggiò.

Al primo seguì un altro spostamento, nella località Portelle di Polleca, dove furono apprestate dai pastori due nuove, insolite abitazioni: i pagliari. Di questa tipica struttura, una volta diffusa nel territorio, non per abitarvi, ma per tenerci le capre soprattutto, ora non c’è traccia. Ma nelle rievocazioni folcloristiche locali se ne fanno ricostruzioni precise, ricavate da chi le ha conosciute: costituito da un basso muretto circolare di pietra viva, su cui poggiava il tetto di rami, legati in alto al centro. La copertura veniva completata da cespi di stramma, intrecciati in modo che il tutto fosse impenetrabile alla pioggia. Semplice ed efficacissima struttura, come tutte quelle dettate dalla natura stessa del territorio.

Quando, ben presto, i generi alimentari diventarono sempre più introvabili, e le condizioni di vita dura prolungate, per fortuna subentrò l’adattamento, che generò nuove abilità: mia madre produsse una piccola quantità di un vino dal sapore particolare, che doveva servire, insieme ad altre trovate sorprendenti, a tirar su il morale nei momenti più duri. Mi nutriva con una pappa di farina bruciata ed olio, riservata a me. I ragazzi avevano imparato tante attività pratiche, come cercare le erbe selvatiche e fare la legna. Ogni tanto Teresita si faceva coraggio e con Massimo, lasciando Gigi a protezione delle bambine, percorreva chilometri, facendo delle incursioni nel palazzo e pretendendo dagli attoniti tedeschi di prelevare provviste necessarie. Nel palazzo, al di là del rispetto formale con cui gli occupanti trattavano madame la contesse, tutto era stato violato: i nascondigli aperti, le moto e bici riassemblate e i due si trovano davanti all’orrendo spettacolo di un maiale sanguinante squartato sull’altare della cappella di famiglia.

Tuttavia, in ogni episodio che la vede protagonista, Teresita mostra quel carattere deciso e coraggioso che la caratterizzò sempre, anche nei miei ricordi. Le passeggiate e la dieta alimentare in mezzo ai monti sembrava avessero sfinato e rafforzato il suo fisico. Massimo se la ricorda saltare agilmente da un sasso all’altro, come una ragazza più giovane della sua età.

«Esperia attraverso l’ogiva del castello. Si vede poco il palazzo Fantacone, al centro»

La vita a contatto con la natura, spesso in assenza degli uomini o, se c’erano, ridotti ad un ruolo di secondo piano per doversi nascondere, le difficoltà quotidiane di sopravvivenza, dettero alle donne profughe responsabilità e importanza nuove, che assunsero con la naturalezza dettata dalla necessità. Erano loro che si muovevano per procurarsi viveri, erano loro che trovavano mille modi per utilizzare al meglio ciò che la natura offriva, erano loro a dover affrontare i militari, quando si presentavano. Venendo meno abitudini, comodità e riservatezza negli spazi ristretti e comuni, insieme al disagio, le donne acquisirono una nuova libertà dal superfluo, la possibilità di liberarsi, nei fatti, da un’immagine femminile di maniera, cui erano state relegate come rinforzo di quella maschile. La trasformazione accomunava le donne di città alle contadine del posto, certo più abili, dalle quali le prime dovettero imparare molto, per poter sopravvivere, lavorando di solito fianco a fianco.

Tra quei monti si venne a formare un’altra comunità: gli sfollati, anche dai paesi vicini, erano circa cinquemila e si registra che in quel periodo vi furono più di quaranta nascite. Tra i medici locali, aveva prestato la sua opera di ufficiale sanitario il dottor Luigi Pelagalli, nostro zio Luigino. Nella nostra piccola comunita familiare era rimasto l’unico maschio adulto, l’unico su cui far conto in certi frangenti. Mi immagino il suo coinvolgimento professionale accompagnato dalla partecipazione di chi deve assistere, impotente, ai patimenti di persone care.

In quei mesi, mentre avveniva lo sbarco ad Anzio e le forze alleate non riuscivano a penetrare attraverso Cassino, i tedeschi rimasero nel territorio di Esperia, tentando di rinforzare le fortificazioni della linea Gustav. Intanto le incursioni degli Spitfire andavano a colpire obiettivi civili e militari senza distinzione, con l’intento di spianare l’avanzata delle truppe di terra e chiudere la via di fuga al nemico: verso Ausonia, da una parte, verso Pontecorvo dall’altra. Il paese era ridotto a un ammasso di macerie.

A questo punto la strategia del generale Alphonse Juin, di una veloce avanzata terrestre intorno a quei monti, rivelò la sua genialità ed efficacia: mentre nella valle del Liri infuriava l’offensiva marocchina, gli osservatori di entrambe le forze erano attivi sulle alture intorno ad Esperia; ad Ausonia Juin con gli altri generali, sul castello normanno di Esperia i comandi tedeschi.

Si era a maggio, quando l’11 di quel mese, Juin, rivolgendosi ai goumiers in procinto di attaccare sui monti, emise il famoso proclama: si concedeva “carta bianca” per 50 ore nel territorio che avessero conquistato, come premio per la loro vittoria. I timori di Kesserling su quei combattenti, già abituati alle alture dell’Atlante, si rilevarono realistici, anche perché Juin colse nel segno, sfruttando spregiudicatamente gli istinti più brutali del loro carattere. Da allora il territorio già martoriato diventò un immenso bottino di guerra: tutto ciò che poteva scatenare voglia di possesso in quelle furie scatenate era loro dovuto, dai beni agli esseri umani, donne e perfino uomini, quando capitava.

II – Continua

1 thoughts on “«Le cose e gli esseri umani diventarono un immenso bottino di guerra per quelle furie scatenate»

  1. «…le donne acquisirono una nuova libertà dal superfluo, la possibilità di liberarsi, nei fatti, da un’immagine femminile di maniera, cui erano state relegate come rinforzo di quella maschile». Queste parole continuano a rimbombarmi in testa. Come sono importanti, come sono essenziali e profonde. Grazie ancora Maria Luisa e grazie a tutte le tue amiche dei gruppi di lettura di cui fai parte che hanno seguito con partecipazione e attesa la pubblicazione a puntate di questa storia. La storia di tua madre.

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