di Giulia Berti Lenzi
I ricordi di Giulia tornano di nuovo a Carlazzo, un piccolo paese in provincia di Como, vicinissimo alla Svizzera, dove i suoi genitori si innamorarono e dove l’autrice di questa storia familiare ha vissuto da sfollata durante la guerra: in una casa tutta di donne, con figlie e figli di uomini lontani o per sempre perduti.
Qui la prima parte delle sue memorie: «Nel mese di aprile del 1941 nacqui io!».

Giulia Berti Lenzi con il coniglietto Macchia in una foto che le ha scattato per il blog la nipotina Viviana il 9 aprile scorso, giorno dell’80esimo compleanno della nostra autrice.
Un giorno la zia Maria Pia, la più piccola, diciottenne, scese a piedi fino a Porlezza, sul versante del lago di Lugano , per informarsi dove poter comprare un seggiolone per noi bambine. Al ritorno era stravolta, ansimante per la risalita dal lago e, piangendo, raccontò che nella piazzetta era stata incuriosita da un capannello di persone che assistevano a qualcosa. Avvicinatasi per capire, vide al centro del gruppo due uomini che stavano “tosando” letteralmente tutti i capelli a una ragazza, legata ad una sedia, che urlava e si divincolava. Le spiegarono che i due uomini erano due partigiani che la stavano punendo, in pubblico, per essersi fatta vedere in giro con dei tedeschi.
Restammo sfollate per tutta la durata della guerra. Eravamo tutte donne, ormai in quella grande casa. Di mio padre nessuna notizia! Intanto era nata mia sorella, Anna: era il novembre 1943. Mamma , come tutti allora, con la tessera annonaria poteva avere una volta al mese pochissimi generi di prima necessità, come farina, poco zucchero, pochissimo sale e un po’ di pasta che trovava nell’unico negozietto del paese.
Il sale era un vero problema, finiva presto e non bastava per insaporire le eterne minestrine che lei ci preparava. E allora prendeva il sacchettino di stoffa dove conservava il preziosissimo sale e lo faceva bollire nell’acqua del brodino!
Dopo quel triste episodio al quale aveva assistito la mia giovane zia, la nostra vita continuò da sfollate, fra sacrifici, paure, ma anche tanto affetto e rispetto da parte degli abitanti di Carlazzo che, memori dei tempi d’oro della famiglia Del Bo e di tutti i loro ragazzi, amici di tutti, benvoluti e allegri, circondavano la nonna e le figliole rimaste da tanta amicizia e calore.
Il nonno, malato di un diabete molto grave che allora era difficilissimo curare, fu portato all’ospedale di Como, dove morì, anche di crepacuore quando ebbe la notizia della morte dei suoi due figli in Russia e in Germania. Aveva solo 64 anni. Intanto le sue seterie, affidate ad amministratori incapaci e infedeli, fallirono e passarono di mano ad altri che sfruttarono la situazione tragica dei Del Bo e se ne impossessarono con pochi ridicoli spiccioli.