Walter Tobagi e la rabbia di Filippa, operaia “esuberante” della Motta

di Walter Tobagi

Il 28 maggio del 1980, verso le 11 del mattino, il giornalista del Corriere della sera Walter Tobagi, 33 anni, veniva ucciso a Milano dai terroristi mentre stava andando in garage a prendere la macchina. Quarant’anni dopo, grazie all’Ordine dei giornalisti della Lombardia possiamo rileggere un suo articolo, apparso sul Corriere il 7 ottobre 1978, che descrive la realtà di quei tempi e racconta la storia di una donna, Filippa, lavoratrice precaria della Motta che diventa “esuberante”, oggi si direbbe un esubero.

Nel video da Youtube la commemorazione di questa mattina davanti alla lapide che ricorda la sua uccisione e le parole della moglie Mariastella. (p.c.)

«Per tre anni, andavo tutte le mattine all’ufficio di collocamento. Il pullman da Cinisello a Milano, poi l’autobus, poi la fila, aspettare tutta la mattina, poi tornare a casa. Alla Motta mi prendevano a periodi, quando c’erano le campagne: a Natale i panettoni, a Pasqua le colombe, l’estate i gelati. Era un sacrificio, ma io ero contenta anche così. Nel ’73 mi passarono fissa: fecero tutto loro. E adesso mi ritrovo qua senza un posto. M’hanno detto che ero esuberante, io non sapevo nemmeno che vuol dire quella parola».

La storia di Filippa, ex operaia dell’Unidal, esclusa dalla fabbrica con la qualifica di «esuberante», comincia da questo racconto. Abita a Cinisello, una vecchia casa raggiustata. Ha quarantasette anni, cinque figli, quattro nipoti. È arrivata a Milano nel 1969 da Mazarino, in provincia di Caltanisetta. Al paese il marito lavorava a giornata, un po’ nei campi, un po’ con la forestale. «È andata così», racconta Filippa: «Cinque figli e uno solo che lavorava, non si poteva andare avanti. Gli ha detto: marito mio, a Milano lavoro anch’io, andrà meglio».

Ma l’arrivo a Milano è già un problema: i compaesani li hanno avvertiti che con cinque figli non si trova neppure la casa da affittare: «Allora – racconta Filippa – siamo rimasti finché non abbiamo trovato casa» un appartamento ultra popolare, camera e cucina, 18 mila lire al mese.

E in quell’alloggio, la famiglia è vissuta fino all’anno scorso. «A forza di risparmiare, niente lussi e niente divertimenti, siamo riusciti a comprarci una casetta. C’è una stanza in più». Otto milioni in parte ancora da pagare. «Il giorno che sono andata a fare il compromesso dal notaio, c’era un’altra operaia dell’Unidal che diceva: io non capisco come fanno, con cinque figli, a comprarsi la casa. E allora io mi sono messa a parlare a voce alta, e dicevo: niente lussi, trucchi non ne compro, mio marito ha un motorino usato, niente divertimenti, a mangiare fuori non ci andiamo. Alla siciliana, noi la pensiamo così: basta coprirci la testa, poi in qualche modo si fa. Al cinema sono andata una sola volta, c’era Alberto Sordi che stava dalla madre vecchia e voleva metterla in convento».

E adesso come vive, che cosa fa, cosa vuole «un’esuberante» dell’Unidal? La signora Filippa racconta le sue giornate: si sveglia presto; cerca di aiutare le tre figlie sposate; accudisce il marito che lavora in una cartiera ma ha subito una operazione di ernia al disco, e quindi spera nella pensione; un paio di giorni la settimana viene a Milano, assiste alle riunioni che il «comitato di lotta» organizzate in due vecchie e malmesse stanze di via Cadore. E intanto inghiotte rabbia. Rabbia contro tutti.

Ha presentato sei domande di lavoro, e snocciola i nomi delle aziende (Breda, Alitalia, GS, Dalmine, Siemens, Innocenti) come una suora reciterebbe il rosario. «Finora – si lamenta – m’ha risposto la Breda. La fabbrica mi piaceva, è vicina a Cinisello. Ma come posso mettermi a fare la saldatrice perfino coi turni di notte? ». Le viene quasi da piangere. Impreca: «Devono dirci che siamo vigliacche se rifiutiamo un lavoro come quello che facevamo, possibile che non ci sono altre fabbriche di alimentari? A me non importa niente della cassa integrazione, voglio lavorare».

Si sente tutto l’attaccamento alla fabbrica di chi ci è arrivato tardi e ha vissuto il posto di lavoro come una conquista umana e sociale. «Non mi sembrava vero, quando sono entrata alla Motta. Il primo giorno mi sentivo cieca, tutta una confusione in testa. M’avevano mandata al reparto 35 di viale Corsica, dovevo sistemare le scatole, e io mi confondevo. Madonna santa, che impressione! Per fortuna, grazie a Dio ce l’ho fatta a superare la prova».

Assunzione vuol dire uno stipendio sicuro di quasi centomila lire: supererà le trecentomila soltanto nell’ultimo anno. «Facevo di tutto, non dicevo di no. È per questo che adesso mi trovo male. Ci hanno trattato come degli asini, prima faticare e poi cacciate via. Che devo fare alla mia età? Chi mi prenderà?». Si domanda da sola: «Perché non vado a fare i mestieri in qualche casa? Non è per superbia, è che non ce la faccio». E l’accusa di essersi messa con gli «estremisti» che vanno contro i sindacati? «La nostra colpa è stata quella di dire sì. Io andavo a lavorare anche con la febbre. E sa perché lo facevo? Perché volevo avere qualche giorno di riserva se capitava che un figlio s’ammalava. Io lavoravo, non mi curavo della fatica, m’era venuta anche un’allergia ad un braccio per gli impasti di zucchero, ma andavo sempre. Poi è successo il patatrac, e ho capito che i prepotenti vanno avanti». E qui sfoga la rabbia conto i sindacati, che traduce nell’avversione più profonda contro alcune persone fisiche. «Andavo alle assemblee, non capivo bene quello che dicevano. Ma adesso ho capito che ci illudevano. Che cosa è successo? Che quelli del sindacato, il posto se lo so- no tenuto. Loro e le loro mogli, mentre noi poverette ci hanno mandato fuori». È quasi un’invettiva, ricorrono nomi (come Merru e Braglia) del consiglio di fabbrica dell’Unidal. «Sa cos’è successo? Che Braglia è entrato come operaio alla Sidalm (la ditta costituita dopo lo scioglimento dell’Unidal, ndr), nonostante all’Unidal fosse impiegato. Ma dopo 15 giorni gli hanno ridato la vestaglia, è ridiventato impiegato». E ancora: «Con che giustizia hanno mandato via me che ho ancora due figli da tirar su e un marito quasi invalido civile, e hanno tenuto il posto a marito e moglie senza figli, come è successo per un capo del consiglio di fabbrica?». E poi: «Dicono che ci siamo messe con gli estremisti? Prima eravamo buone e ci lasciavamo la pelle. Adesso solo gli estremisti si occupano di noi…».

Sono sfoghi personali: «Se ritrovo un lavoro, al sindacato non mi iscrivo più» di chi non riesce a spiegarsi perché s’è trovata, proprio lei, in questo guaio. «Dopo otto anni, m’ero abituata: stavo più in fabbrica che in casa. Facevo il secondo turno, quello che comincia alle due e finisce alle dieci di sera. Ma per gli orari del pullman stavo fuori dodici ore, da mezzogiorno fin quasi a mezzanotte. È fatica, ma io sto meglio quando lavoro, i miei figli si arrangiano. È brutto ritrovarsi senza un posto». Però lo stipendio arriva quasi intero, grazie alla cassa integrazione… «Ma io non voglio elemosine, voglio lavorare. La mattina che dissero “non c’è più lavoro”, mi sono sentita male. Era appena passato Natale, l’anno scorso. Sono rimasta anch’io in fabbrica, perfino la notte di Capodanno: dovevo andare da una figlia sposata, però non mi sembrava giusto lasciare gli altri compagni di lavoro. Quando occupavamo la fabbrica, entravamo alle due e uscivamo alle dieci co- me se dovessimo lavorare. Finché una mattina di maggio abbiamo trovato la polizia che non ci ha fatte entrare». Si è spaventata? «No, paura no. Però pensavo: come faremo adesso senza lavoro?». Si passa la mano destra sui capelli ingrigiti e un po’ ispidi: da quanto tempo non va dal parrucchiere? «Ero abituata due volte l’anno a Natale e Pasqua. Altrimenti come risparmiavamo i soldi per la casa e per sposare tre figlie? Neanche in Sicilia tornavamo l’estate: siamo andati due volte in tanti anni che siamo a Milano». Smette di parlare, sull’uscio della vecchia casa senza telefono né ascensore, in una «corte» costruita sessant’anni fa. E con un sorriso mesto e preoccupato, saluta: «Lei che dice, me lo ridaranno un lavoro?».

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