di Paola Ciccioli
Per me Milano è un libro. Passeggio per le strade del centro, fotografo targhe e monumenti, ripasso col pensiero la biografia dei grandi autori, annoto mentalmente i nomi dati a vie, giardini e piazze, cerco di trovare il filo che tiene insieme gli strati ancora visibili dell’antica capitale dell’Impero romano, le dominazioni straniere, i fasti marmorei del Ventennio, le ferite della guerra, con il prima e il dopo di quartieri catapultati nell’ipermodernità.
Lo smartphone, al quale ho ceduto di malavoglia e conservando sempre la tentazione di farne a meno, ha moltiplicato la mia attitudine a fotografare i dettagli di questo libro-città. Mio marito Luca, che con pazienza svuota la memoria del mio cellulare, mi ha detto l’altro giorno che avevo raggiunto un numero difficilmente gestibile di scatti, non saprei dire ora esattamente quanti e non glielo chiedo perché tanto per me sarebbero sempre troppo pochi. A cosa mi serve fotografare tanto compulsivamente? Mi serve a rendere vive le frasi o le pagine dei libri di carta e questo post ne è una prova.
Un giorno, tornato da una lezione di chitarra, Luca mi ha portato Milano (Sellerio editore Palermo, 2015), raccolta di sei racconti scritti da altrettanti autori contemporanei su quella che viene definita l’unica vera metropoli italiana, che chissà poi se è davvero così. Gli autori sono: Giorgio Fontana, Helena Janeczek, Paolo Di Stefano, Marco Balzano, Neige De Benedetti, Francesco M. Cataluccio. E Milano me l’ha mandato Tiziana Colla, donna di teatro e autrice che in questo libro ha trovato atmosfere stimolanti e condivisibili. Io l’ho letto con l’attenzione che l’isolamento da pandemia per certi versi esalta e, racconto dopo racconto, da ogni storia ho estratto una citazione che ho avvicinato a sei tra le tante foto scattate nei mesi scorsi. Tutte mi riportano alla ragione e all’emozione di ogni singolo scatto, con tutte posso passeggiare anche a distanza nella città diventata in queste settimane apparentemente vuota e sola.

Ho scattato questa foto a un palazzo del quartiere Isola di Milano il 20 settembre 2019
«O il fatto che, come amavo ripetere, la sua bellezza rifiutasse ogni collocazione in una guida turistica, persino ogni identificazione: era così labile da vivere di istantanee: uno squarcio del quartiere Isola sotto una luce che non tornerà mai più, la facciata giallo ocra di un palazzo, un tram che appare dietro l’angolo, una trattoria che solo tu conosci, il profilo di un grattacielo a specchi sotto la neve».
Giorgio Fontana, “Salvi quasi per caso”.
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Ho scattato questa foto a uno dei bassorilievi di Corrado Vigni sulla facciata posteriore del Palazzo di Giustizia di Milano il 20 settembre 2019
«E adesso c’è mia madre che non frigna più e ha anche smesso di gridare ma ha un tono brutto e dice che ormai sembra evidente che li hanno presi di mira più degli altri, persino il vecchio compagno recidivo ha patteggiato, mandano a processo soltanto i nostri, a parte i criminali della ‘ndrangheta».
Helena Janeczek, “La minaccia fantasma”
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Ho scattato questa foto del Tricolore sulla Madonnina del Duomo di Milano la sera del 16 marzo 2019
«All’uscita sulla strada sono rimasto allucinato dai lampioni giallo-grigi accesi e dal fresco che faceva, faticavo a tenere gli occhi aperti, tremavo nelle gambe e nelle braccia e nei denti e senza controllo, sull’ambulanza disteso continuavo a muovermi senza volerlo e la ragazza mi ha preso la mano per scaldarmi almeno un po’ ma non smettevo di tremare e di vergognarmi di tremare, per fortuna il tragitto è stato breve, all’ex clinica Santa Rita, dove mi sono subito ricordato che un sedicente chirurgo (che tutti i sedicenti, come lei avrà capito, io non li sopporto) qualche anno prima aveva ucciso quattro persone facendo interventi inutili solo per mangiarci sopra un po’ come voleva fare la sedicente Bombelli con l’autoclave, ha sfasciato altri quaranta o cinquanta pazienti sempre facendo operazioni a cazzo, ma almeno è finito sotto processo e con le manette come dovrebbe finire anche la Bombelli sedicente chirurga del condominio».
Paolo Di Stefano, “I vecchi sono i peggiori”
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Ho fotografato questo murale di Alice Milani dedicato a Diego Rivera nella stazione di Porta Venezia il 31 ottobre del 2019
«Scendere dal passante in Porta Venezia è una fatica. Quando mi ci ritrovo penso ai minatori. Non sarà poi così diverso, mi dico, anche se lo so benissimo che sarà diverso eccome. Quattro rampe di scale mobili lente che non se ne ha un’idea, il freddo stagnante dei sotterranei, le luci bianco elettriche che si smorzano sul gres opaco. Però quella mattina, forse perché avevo ventiquattro anni, mi sembrava che le frotte di pendolari accalcate una sull’altra la spezzassero un po‘, la cappa di umidità. In fondo è vicinanza anche starsi addosso. Poco importa se non ci si rivolge la parola e non si conosce nemmeno il nome della persona che ti sta infilando il gomito nella carotide».
Marco Balzano, “Primi giorni di scuola”
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Ho scattato questa foto il 25 agosto 2019 durante i funerali di Marilou Reyes, la domestica filippina di 54 anni precipitata dalla finestra mentre stava pulendo i vetri nell’appartamento dove lavorava e viveva, quasi di fronte al Palazzo di giustizia di Milano
«Sto andando alla galleria dove lavoro, è in centro. Ha un meraviglioso giardino, al di là della porta-finestra, ma non vogliono che ci andiamo, noi che lavoriamo alla galleria. Solo i padroni del palazzo ci possono andare, e le loro cameriere filippine ci possono portare i cani la mattina a fare la pipì. Noi no».
Neige De Benedetti, “Milano come un’altra”
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Ho scattato questa foto al binario 21 della stazione Centrale di Milano il 5 febbraio 2020
«All’imboccatura del sottopassaggio di destra, all’altezza del binario 21, Daniel si appoggia a una piccola porta provvisoria che si apre da sola. Si ritrova in un lungo e stretto corridoio buio, con i segni ancora freschi di un cantiere, che sfocia nella grande sala del Memoriale della Shoah. Sulla parete ci sono allineati i nomi e i cognomi degli ebrei che da quella pensilina erano stati caricati sui treni merci alla volta dei campi di lavoro e di sterminio. Con una stretta al cuore si accascia sulla panchina di pietra. Stringe Simeone tra le braccia e, piano piano, gli giungono le voci degli avi paterni: uomini pii e indaffarati, con le lunghe barbe e i boccoli capricciosi, vestiti con ampi pastrani neri e cappelli di pelliccia».
Francesco M. Cataluccio, “La stazione”