«Ma non l’ho ancora capito che ormai si naviga a vista?»

di Anna D’Andrea

«Softly Setting, New Brighton, Wirral. This is a fab sunset photograph by Paul Sutton. Caught at a perfect time/Tramontando dolcemente, New Brighton, Wirral. Questa favolosa foto del tramonto è stata scattata, con tempismo perfetto, da Paul Sutton». Dall’account Twitter di Helen Warlow, 12 ottobre 2017

Souvenir che si rompono, incanti che sembrano far smarrire e smarrirsi. Termina così il racconto “Il maglione autunnale” di Anna D’Andrea che abbiamo pubblicato in tre parti e illustrato con due immagini scattate a Brighton e una a New Brighton, località inglese più a nord.

– È fortunata, signora!

Mi giro a guardarmi alle spalle, per vedere se dice proprio a me.

– Fortunata, io? – non riesco a trattenere un’esclamazione di stupore.

– Certo che sì, ormai siamo in chiusura di stagione e questo è l’ultimo, sono oggetti artigianali fatti a mano uno per uno – sta dicendo il venditore di ceramiche – . Glielo devo prendere dalla vetrina.  Intorno piatti, vasi, candelieri, lucerne, a forma di polipo, di stella marina, di granchio, di conchiglia, delfino, orata, calamaro, in un caotico guazzabuglio creativo.

– Mi creda, non se ne vedono più molti in giro, di oggetti così – e intanto lo incarta amorosamente e lo fascia con lo scotch -. Le cerco una bustina. Allora, grazie e ci vediamo l’estate prossima. Per me è come se mi avesse dato un appuntamento in anni luce, ma apprezzo la cortesia e ricambio, provando a tuffarmi nella grande nebulosa.

C’è un tratto di vicolo scuro e accidentato, prima di arrivare a casa, è già buio e bisogna accendere una torcetta per non rompersi l’osso del collo. Insensibilmente, le giornate si stanno accorciando. Un gatto forastico dietro un angolo tende un agguato a Gi, che si sbilancia e ruzzola per le scalette, la prendo in braccio, ho troppe cose in mano, lei, il guinzaglio, la busta, il sacchettino con la cena.

Mi pare un déjà-vu, dove e quando è già successo?

Cade con un rumore secco che lacera il feltro opaco della notte. Tasto l’involucro prezioso col cuore in gola, solo lo scotch tiene uniti i pezzi, il dito li esplora con competenza clinica, suo malgrado.

“Lungo la rima si frattura, si apprezza anomala mobilità dei segmenti articolari”… Anche questo non mi è nuovo.

Sono io l’uomo di vetro, come nel film Il favoloso mondo di Amélie”! Anzi, la donna di vetro… Ma anche col personaggio del ladro di foto-tessere scartate ho molti punti di contatto, a pensarci bene: avrei quasi potuto farne una professione, cercare, recuperare, rimettere insieme scatti non riusciti, immagini rottamate, foto ripudiate, restituire a ciascuna una storia, o comunque cucirgliela addosso ex novo.

È fortunata, signora!

Però tanta buona sorte non è bastata a evitare il disastro. Del mio bel faro di ceramica a strisce bianche e rosse è rimasta integra solo la lanterna sulla cima, con la finestrella per inserire il lumino di cera. Perché guidi i naviganti nelle tenebre… Accidenti a me e al mio faro di Alessandria! Ma non l’ho ancora capito che ormai si naviga a vista? E per giunta con una pilotina scalcagnata?

Esco sul fazzoletto d’erba sospeso sul mare, colloco il lumino nella lanterna, la fiamma tremola un po’ alla brezza ma poi, al riparo nel suo mini-alloggio, acquista baldanza e decide di resistere fino all’ultima goccia di cera. Gi deve aver capito che si salta la cena, troppe emozioni già saziano, e sta ronfando acciambellata in un cespuglio di convallaria. Il melograno ha fatto un fruttino lucido e verde, poco più grande di una noce, è un evento da celebrare, perché è il suo primo figliolo, sarebbe bello poterlo vedere coi globi dorati che si spaccano in ferite vermiglie.

Bisognerà aspettare l’autunno… Che dico? L’autunno è dietro la porta. Mi faccio avvolgere dalla notte tiepida, dal silenzio, dall’attesa di niente, perché mi sembra che tutto quello che poteva accadere sia accaduto. Per uno stupido faro in terracotta? In qualche modo sono convinta che avesse ragione l’artigiano, non ce ne sono altri uguali, quello era l’ultimo, ed era un pezzo unico. Certo, ho avuto il privilegio di tenerlo tra le mani per un’ora o poco più, e non è da sottovalutare.

Come mi disse un anziano signore, proprietario di uno di quei bellissimi relais châteaux in Provenza, sorprendendo il mio sguardo perso tra il cortile coi rampicanti e le finestre ogivali a bifora: «Madame, a voi per una notte, a me per una vita, che cos’è dinanzi all’eternità?».

Vorrei potergli rispondere che gli sono rimasta grata per aver capito, e per aver trasformato quella sera in un evento irripetibile, come il faro, anche solo per una notte. La vasca di pietra col chioccolio della fontanella, le lucerne, le parole degli ospiti come bisbigli, i gesti educati, quasi che tutti si sentissero tenuti a muoversi in punta di piedi, perché basta un niente a sciupare l’incanto.

E sulla testa le stelle del Café La Nuit, spampanate come girasoli. Di là, da quell’altezza, si poteva vedere tutto il golfo, gli occhi lo abbracciavano per intero, le increspature di seta cangiante, le luci che disegnavano sul litorale un filino di perle.

Da un lato, l’ombra nera del promontorio, come un drago ammansito che dorme raccolto nel suo guscio di scaglie, il muso a lambire l’acqua.

III – fine

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