«Il piccolo lanciacacca si è montato la testa»?

di Lucia Vastano*

Lucia Vastano fotografata da Paola Ciccioli alla fine  degli Anni '90 nella vecchia casa milanese di Paola

Lucia Vastano fotografata da Paola Ciccioli alla fine
degli Anni ’90 nella vecchia casa milanese di Paola

Forse voi tutti farete fatica a crederlo, ma il mio primo lavoro non è stato per niente edificante: gettavo escrementi sulle scarpe dei turisti per conto di una shoe shine di Connaught Place, lo stesso al quale poi si rivolgevano le vittime designate per farsele pulire.

«E’ una vergogna, sahib, ma cosa ci vuole fare, questi piccoli disgraziati si divertono come possono. Sono figli della strada. Non hanno un padre e una madre che li educhi. Faranno tutti una brutta fine» mugugnava servilmente il mio capo.

«Ma non si preoccupi, sahib, noi indiani non siamo tutti così, noi rispettiamo gli ospiti stranieri. Le scarpe io gliele pulisco gratis, anche quella che non è stata offesa. Saranno entrambe più belle di prima, sahib».

Non era un caso che il mio boss utilizzasse con tanta generosità il termine sahib per riferirsi agli stranieri. Sapeva che quella parola della nostra lingua la conoscevano tutti molto bene e si sentivano gratificati a sentirsi chiamare così. Padrone

Il mio capo si dava da fare con spazzolino da denti, sapone, spazzola, strofinacci e lucido. Un lavoro fatto con grande maestria che richiedeva trenta minuti buoni durante i quali intratteneva il cliente con la storia della sua vita e delle sue disgrazie passate, presenti e future. La disgrazia più grossa: una figlia in età da marito per la quale non aveva i soldi per comprare la dote. La poveretta era destinata a rimanere zitella. Un marchio di infamia per lei e per tutta la famiglia. Per la cronaca il boss non era nemmeno sposato e aveva seminato una decina di pargoli, dei quali si era completamente disinteressato, in giro per tutta l’India.

«Mi sembra di aver conosciuto tua madre» mi disse un giorno per canzonarmi. «Magari anche tu sei figlio mio».

Mia madre con uno come lui? Se solo fossi stato più grande lo avrei ucciso per quell’affermazione. Mi mancarono le parole giuste per esprimere il mio sdegno. «Non puoi essere tu, mio padre. Lui è un brahmino» gli dissi solamente.

Si mise a ridere: «Il piccolo lanciacacca si è montato la testa» gracchiò rivolgendosi a un suo collega che quasi si spaccò le mascelle dalle risate. Li guardai entrambi con rabbia e minacciai di andarmene a servire un altro shoe shine. In fin dei conti lui aveva bisogno di me. Non era facile trovare lanciacacca con le mie capacità sul mercato». Avevo una buona mira e non mi facevo beccare dalla polizia. Senza di me i suoi clienti sarebbero stati davvero pochi. Soprattutto non sarebbero stati stranieri, assai più generosi degli indiani. Io selezionavo con cura le vittime, sapevo giudicare con un colpo d’occhio anche gli occidentali, distinguere un backpacker che contava le rupie da uno con i soldi, che ragionava confrontando i nostri prezzi con quelli nella sua moneta forte.

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La storia finiva quasi sempre così: dopo un’ultima vigorosa spazzolata, il mio capo salutava il malcapitato: «E’ stato un piacere servirla, sahib. Spero che non giudichi un popolo intero per le malefatte di un piccolo disgraziato intoccabile». Il turista salutava e gli lasciava una lauta mancia.

C’era anche, è vero, chi se ne andava senza mettere mano al portafoglio brontolando contro questo popolo e questo Paese così incivili. Tutta una scusa per non scucire neanche una rupia. Anche io potevo sbagliare nel giudizio. Rischi d’impresa per il mio shoe shine, si potrebbe dire. Ma non è proprio così. Io ero sempre pronto, poco distante da lì. Di materia prima per punire l’irriconoscente straniero ce n’è sempre in abbondanza. Per entrambe le sue scarpe ed eventualmente anche per quelle di mogli e figli al seguito.

Maneggiare  ‘quella roba’ era ed è tuttora nella nostra cultura e nel nostro sistema di caste una prerogativa degli intoccabili, come pulire i cessi o le scarpe o rimuovere la spazzatura dalle strade o avere a che fare con la concia delle pelli. C’erano e ci sono ancora una sfilza di lavori riservati agli intoccabili, ma io non me ne preoccupavo né allora né tantomeno oggi, che non credo più nelle caste e nelle regole imposte dalle relazioni sociali. l’origine di tutti i miei guai. Anzi, l’origine di tutti i guai del mondo. Chiunque per qualsiasi motivo si senta a priori migliore degli altri è più pericoloso della bomba atomica, perché potenzialmente è quello che può premere il bottone.

Incroci: Lucia Vastano e Paola Ciccioli insieme nei  pressi della diga del Vajont, ottobre 2013

Incroci: Lucia Vastano e Paola Ciccioli insieme nei
pressi della diga del Vajont, ottobre 2013

* Comincia così “La magnifica felicità imperfetta”,  romanzo di Lucia Vastano, «Storia di un lanciacacca che incantò il mondo» (Salani Editore). E’ l’ultimo capitolo narrativo di una grande giornalista che, quando era poco più di una bambina, ha sentito il bisogno di andare, da sola, in India e in tantissime altre parti del mondo per quel necessario apprendistato sfociato poi nella scrittura: scrittura creativa e scrittura di denuncia . Questo pomeriggio, alle ore 18, alla Fabbrica del Vapore di via Procaccini, a Milano, cercherò di far conoscere il dietro le quinte di questa donna e amica unica. Felicissimo, e adatto ad entrambe, il titolo che è stato dato all’incontro: “Viaggiare per scrivere”. (Paola Ciccioli)

4 thoughts on “«Il piccolo lanciacacca si è montato la testa»?

  1. Cosa si impara viaggiando? Si impara a viaggiare nella vita. Questo perlomeno è quello che ho imparato io. A viaggiare nella vita accompagnata e insieme alle persone che ho incontrato, per brevi o lunghi tratti.

    Ma poi in fin dei conti sempre sola, perché così davvero è la vita: solo nostra, mai vissuta da qualcun altro al posto nostro, nemmeno da chi amiamo di più e che di noi sa più degli altri e qualche cosetta anche più di noi stessi.

    Se non si capisce questa verità, che si è soli, si avrà sempre paura di vivere, bene, in mezzo agli altri e non si riuscirà mai a capirli e a provare “com-passione”, nel senso latino di soffrire insieme, ma a mio avviso anche di gioire insieme.
    Perché chi non conosce molto o perlomeno abbastanza di se stesso non può avere la pretesa di capire molto o abbastanza nemmeno degli altri.

    Paola Ciccioli è una delle persone che ho incontrato nel mio viaggio nella vita circa vent’anni fa. Il suo e il mio sono due viaggi in solitaria con tante cose in comune. Da ieri anche questo pomeriggio di primavera milanese “fuori salone” alla Fabbrica del vapore a raccontare pezzetti del mio vissuto per poi proseguire, con altri amici, fino a questa mattina. Alla fine ognuno per la sua strada perché il cammino va avanti, passo dopo passo, giorno dopo giorno. Il viaggio… il senso della vita.

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