“Assandira”, nella Sardegna che non vuol sembrare ma essere

di Maria Elena Sini

Dopo tanti mesi sono tornata al cinema per vedere il film Assandira diretto da Salvatore Mereu e presentato fuori concorso alla 77° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. L’atmosfera era un po’ surreale, tutti con le mascherine indossate e tanti posti vuoti per rispettare il distanziamento  sociale, ma tutti desiderosi di partecipare a questo momento di socialità e di condivisione che ci è mancato in questi mesi di lockdown.

Quando la luce si è spenta e il film è iniziato si è ricreata la solita magia che il cinema sa regalare e il rumore della  pioggia battente delle prime inquadrature ci ha trasportato in un’altra dimensione. Il film si apre infatti sotto la pioggia scrosciante che inonda i ruderi anneriti di una costruzione divorata dalle fiamme tra i quali si aggira disperato e stranito Costantino Saru, proprietario della struttura, che nel rogo ha perso l’unico figlio oltre ai suoi beni e ai suoi animali. Il magistrato indaga sulle modalità che hanno causato l’incendio, per cui all’inizio la storia sembra un giallo-thriller, ma poi attraverso la voce fuori campo di Costantino parte un lungo flashback che racconta la storia dell’agriturismo  Assandira e la sua narrazione, dolorosa e a tratti reticente, lascerà intravedere dei segreti che non dovevano essere scoperti.

Mario, il figlio di Costantino, torna dalla Germania con la moglie tedesca e con l’idea di ristrutturare un vecchio podere per farne una sorta di fattoria didattica per offrire ai turistiquell’esperienza della vita, dei riti e dei culti locali che gli stranieri sperano di trovare nell’esotica Sardegna trasformando la tradizione dei pastori in uno spettacolo. La coppia, allettata dall’idea di fare soldi, costringe il vecchio a prendere parte alla messinscena che prevede capanne di frasche, canto a tenore e ballo tondo, abbigliamento arcaico degno del miglior folklore, immagini banditesche, rituali pastorali, a uso e consumo di chi è disposto a pagare profumatamente pur di vivere, seppure per il tempo di un breve soggiorno, alla maniera dei pastori antichi. Lo sviluppo della storia rende evidente quindi che non è importante l’inchiesta per scoprire chi ha appiccato il fuoco ma la vicenda ha un carattere più antropologico e si focalizza sul contrasto tra diverse visioni del mondo messe a confronto dall’irruzione prepotente della modernità.

Costantino è recalcitrante, vorrebbe mantenere la tradizione intoccata, sacra, uguale a se stessa, rispettandola perché “è sempre stato così”; ma sia lui che il figlio sono soggiogati dal fascino sensuale di Grete, la moglie tedesca dalle  forme morbide e materne che però è una donna pratica e concreta con in testa un progetto imprenditoriale ben chiaro da realizzare. Ma la prorompente Grete ha in mente anche un’altra spericolata avventura alla quale il vecchio pastore si piegherà acconsentendo a costruire un legame indissolubile tra lui, il figlio e la nuora che sconvolge l’ordine naturale delle cose tramite una fecondazione assistita perché Mario è sterile.

Costantino “non capisce, poi continua a non capire ma accetta” mentre risultano sempre più evidenti la lontananza, la mancanza di dialogo tra lui e suo figlio. Il pudore, la vergogna il senso del rispetto, la paura di perdere l’onore, alzano muri di incomunicabilità tra Costantino e Mario perché tra padre e figlio “non si parla mai di queste cose”. La  distanza è sottolineata anche dalla lingua parlata: l’italiano del figlio che aveva lasciato la Sardegna, il sardo del  padre che non si è mai allontanato dalla sua terra e dal suo modo di vita e l’inglese di Grete che viene da un altro mondo. Quindi la storia, tratta dall’omonimo romanzo di Giulio Angioni scritto nel 2004, ci parla di diversi conflitti che si intrecciano, quello tra uomo e natura, tra radici e modernità, tra chi vuole mantenere l’identità e chi vuole svenderla per denaro, ma questi temi in realtà si fondono nel contrasto generazionale.

A questo proposito è emblematica la frase che il figlio pronuncia per convincere il padre ad aderire al progetto Assandira: “non sarà per essere, sarà per sembrare. Oggi è tutto un sembrare a questo mondo”, che lo colloca in un tempo dove la finzione, potremmo dire la realtà virtuale è uno spazio nuovo, inedito, reso familiare dalla  frequentazione con la tecnologia, che può essere ricostruito anche nella campagna della Sardegna quando la realtà, quella “vera”, rimane fuori dalla porta per creare invece un luogo sospeso e  anonimo, dove ci si può concedere il lusso di vivere le proprie fantasie senza alcuna conseguenza. Questa tematica, anche se ha come punto di partenza un contesto molto caratterizzato territorialmente, in realtà allontana il film da un ambito chiuso a livello locale proiettandolo in una dimensione universale.

Assandira è un film complesso e forse proprio per questo non pienamente risolto in tutte le sue parti, uno dei limiti sta proprio in questo affastellamento di temi: parte con un’inchiesta ma non è un giallo, presenta i temi dell’identità sarda ripercorrendo tutti gli stereotipi ma in realtà il regista pare più interessato a trattare il conflitto generazionale che quello identitario-culturale. Ad un certo punto infatti il meccanismo narrativo si inceppa, il film lancia messaggi confusi in cui non si comprende se si vuole indagare sul senso di colpa per non essere riusciti a sopprimere la propria natura oppure al contrario per essere stati troppo condiscendenti ed essere venuti a patti con pretese irricevibili. E proprio il modo in cui viene proposta la vita rurale nel corso del film assume caratteri sempre più
grotteschi sino ad arrivare a quello che secondo me è l’ altro punto debole del film relativo ai torbidi intrighi finali che trovo scollegati dal resto della pellicola e che determinano una scelta che appare moralistica, che irrompe con il fuoco purificatore che sanziona il preteso diritto ad un divertimento impunito e con il diluvio, che in un clima da catastrofe biblica, dovrebbe cancellare il male che alberga nell’animo umano.

È un film duro che si apre con immagini semplici e crude, lontanissime da quelle a cui i turisti sono abituati, che non concedono niente alla visione della Sardegna da cartolina, è un film in cui il mare è lontano non solo geograficamente. Gli attori non professionisti, ad eccezione di una brava Anna König che interpreta Grete e di Corrado Giannetti che interpreta il magistrato, costituiscono un cast perfettamente adeguato a supportare la storia, così come la scelta di un insospettabile Gavino Ledda nei panni del vecchio Costantino. Come Mereu ha spesso confessato nelle interviste rilasciate, credeva in questa idea ma aveva anche paura che lo scrittore, autore di Padre e
padrone, finisse per sovrastare il personaggio di Costantino, invece Ledda si è messo al servizio del regista che è riuscito a tirar fuori da lui la figura enigmatica del vecchio pastore con un’interpretazione intensa e misurata nei gesti e nelle parole, forse favorita dalla scelta della lingua sarda che rende la recitazione spontanea e non artificiosa.

E in chiusura mi preme sottolineare, come ha ribadito il regista durante la presentazione del film, che i tre quarti delle maestranze che hanno lavorato alla realizzazione di questo film, dalla squadra degli effetti speciali ai fonici, dagli operatori agli attrezzisti, dai truccatori alle comparse, dal direttore della fotografia agli assistenti di produzione, dal montatore allo scenografo, sono giovani sardi dell’età media di trent’anni o poco più, segno di una professionalità crescente nell’isola in questo ambito specifico.

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