«…e figghja mia e ccu ti canuscìa?!». Il ritorno al paese dove sono nata

di Elisabetta Baccarin*

madre e mia nonna in arrivo da soverato

«La stazione che nel 1959 accolse mia madre e mia nonna in arrivo da Soverato», scrive Elisabetta allegando a una mail questa foto dello stesso anno: lei l’ha trovata in vendita su ebay

il ritorno al paese dove sono nata.

le solite occasioni per tornarci, matrimoni e funerali.

e siccome né di venere né di marte ‘nci si spusa né si parti’, venerdì c’era un funerale: quello della signora marianna.

marianna, 65 anni, una vita normale.

una vita normale in cui è normale darsi una mano fra tutti. normale.

la signora marianna la conosco da appena sono nata.

mamma aveva già i miei fratelli grandicelli e poi sono arrivata io, che la tele non è che fosse rotta, è che non ce l’avevano proprio.

avevano la radio e le tortorelle, due tortorelle bianche.

papà lavorava dal gommista ma papà da solo non ce la faceva a camparci tutti.

e allora la signora marianna ha detto a mia mamma ‘vui jate ‘e lisa staci cu’ mmia!’ e mamma è tornata a lavorare dalla bustaia.

la signora marianna non lavorava e teneva i suoi di figli e stava a casa perché suo marito bastava a camparli tutti.

e allora mariannina, come l’abbiamo sempre chiamata, è stata, come dire, la mia mamma part time.

la mamma che mi preparava la pappa ammenzujornu (mi piace dirlo così come lo dicevano loro, mi suona di più da ‘in mezzo al giorno’)

e che mi teneva con sé e i suoi 3 figli, il più piccolo di soli 6 mesi più piccolo di me.

senza essere pagata.

senza chiedere nulla in cambio.

terrazzano di rho, anni 70.

venerdì ho rivisto la piazza, c’era il sole finto di questi giorni e gli alberi col vento. c’era la chiesa.

c’era il paese. il panettiere ‘in piazza’, che non è calabrese lui.

a terrazzano i calabresi sono venuti su tutti in quegli anni lì dopo il ’50 e quasi tutti sapevano fare il muratore.

e hanno costruito terrazzano frazione di rho.

i miei zii tutti neri e poi mio padre tutto biondo, che calabrese non era, ma ha sposato mamma e allora finito il turno dal gommista aiutava i cognati.

e tutti insieme hanno tirato su la ferrovia, la casa della ferrovia, il muro di cinta, le case… hanno fatto le strade che poi un giorno sono state asfaltate.

mio zio antonio è morto nel 2004 e la strada percorsa dal carro funebre era stata fatta da lui: ma è rimasta senza asfalto per 40 anni.

poi l’hanno asfaltata e lui c’è passato da morto.

si capisce che non sono di milano i miei zii e si capisce pure dalle loro facce e dai loro sguardi.

ho rivisto il parroco, che fa messa con “‘u scemaredo”, lo scemarello, quello che sembra ci sia in ogni paese e in ogni paese serve messa.

le vecchie che tentano di intonare delle canzoni che capiscono solo loro, una canzone sembrava la pubblicità della robiola.

i negozi che cercano nomi da america (rhodense funeral… funerali a prezzi comunali)

e ho rivisto persone che mi chiamavano con il mio nome di bambina.

che mi parlavano in dialetto, persone alle quali io mi rivolgo con il voi, che non mi riconoscono più e allora se mi avvicino io…

‘signora gelsomina buongiorno… sono lisa, la figlia della signora maria!’

“..e figghja mia e ccu ti canuscìa?!” “o lisa, ma si ttu?? e benedica! u dicia eu ca eri tu!”

e poi, alcuni, intimoriti mi parlano in italiano e allora quando c’era mamma, lei diceva “parlate, parlate pure, ca ida capisci!”.

sì, io capisco. ho la faccia di mamma, i colori di papà, e l’anima della famiglia che porto come una bandiera di patria.

e allora se ne partono col dialetto fluente e con gli inviti a pranzo e con le domande solite

‘ti spusasti? e quando veni u mi trovi? quando passi ‘e cca, basta ca soni e veni u mangi!”

eccoli lì, sempre loro, sempre uguali, che quando si sbagliano mi chiamano col nome di mia sorella, perché eravamo identiche.

e poi allora si commuovono di più ancora, e ancora di più quando chiedono

‘e chissu cu è? u figghiu ‘e donatella??… sumigghia, sumigghia puru a ettore, ma è biondo comu giorgio… come donatella… comu tia.” come te, come me, è chiaro.

come noi, perché l’anima loro noi ce l’abbiamo dipinta in faccia.

non sono parenti, ma tribù.

queste sono solo persone che hanno fatto la sopravvivenza urbana.

a cominciare dalla signora marianna. e da zio totò, zio mico, la vecchia ‘gambi gambi’ (non posso dire perché la chiamavamo così, ma è cosa da ridere).

la domenica si mangiava tutti insieme, chi cucinava il primo, chi il secondo, chi non cucinava proprio ma mangiava lo stesso e spesso si ‘andava fuori’ a fare il picchi nicchi.

i bambini giocavano tutti insieme nella strada ‘al campo’, tornando lordi di terra e fango e con mazzetti di fiori. ho visto le foto, ero troppo piccola per poterlo ricordare.

avevo solo un anno e mezzo e i denti separati davanti, poi il lavoro a milano ha portato via da lì mamma e papà e noi tre bambini con loro.

loro, tutti gli altri, sono rimasti tutti lì.

si dice che chi ha il diastema, i denti separati, è protetto dal buddha.

si dice anche che… com’è che si dice in dialetto?

cu nasci tundu ‘un mori quatru. chi nasce tondo non muore quadrato.

La mamma e il papà di Elisabetta negli Anni '60 (dall'archivio personale dell'autrice)

La mamma e il papà di Elisabetta negli Anni ’60 (dall’archivio personale dell’autrice)

* Il fluire del bellissimo racconto di Elisabetta Baccarin non è stato volutamente spezzato da immagini. Sopra, la madre e il padre in uno scatto ri-fotografato dall’autrice con il cellulare e «che è proprio di quegli anni lì». 

Sempre da Elisabetta arriva anche questo video http://www.soveratiamo.com/soveratans/storie-di-soveratans/item/10438-soverato,-estate-1957-le-immagini-di-una-citt%C3%A0-che-nasceva-video: «È muto, girato nel 1957 da uno che sicuramente era un mio parente da parte di mamma. Quelle sono le facce delle persone di cui parlo».

4 thoughts on “«…e figghja mia e ccu ti canuscìa?!». Il ritorno al paese dove sono nata

  1. sensazioni note, non per questo meno emozionanti, che anzi ti chiamano direttamente in causa, solo i nomi, i luoghi, i volti sono diversi, la mia Mariannina, ad esempio, si chiama Angelina, e sono contenta di poter dire si chiama …

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  2. Bello.. suggestivo il post, ma soprattutto grazie per il filmato. Documento importante, sul finire del filmato, si vede la fila di donne che portano in testa la cardarella di malta. Una realtà che viene spesso negata. Le donne, da sempre rappresentano la manodopera a buon mercato, per poi sparire e cadere nell’oblio.. Grazie.

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    • Guardando quel filmato mi è venuto in mente che mia mamma mi raccontava che le sue prime scarpe le mise quando il suo fratello più grande è tornato dal militare con un paio di scarpe per lei, unica femmina di casa, oltre a mia nonna. E mi raccontò pure che in campagna elettorale, la democrazia cristiana portava alle persone una scarpa: la seconda l’avrebbero data solo dopo lo spoglio dei voti…

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