Emma, Anita, Fiorina e Caterina raccontano l’adolescenza nella filanda di Urbisaglia, nelle Marche, quando erano le donne a sfamare la famiglia…
di Paola Ciccioli (da “Club 3 – Vivere in armonia”)
Le mani. Si guardano le mani e la giovinezza fatta di fatica e di sacrifici è come se si materializzasse. Dalla memoria riemerge, integra, l’età in cui, adolescenti, andavano in filanda e con il loro lavoro stagionale mantenevano le famiglie mentre gli uomini, privi di occupazione, trascorrevano le giornate “in cantina” ad ammazzare il tempo tra una partita a carte e un bicchiere di vino. Emma, Anita, Fiorina e Caterina, ormai prossime ai novant’anni, hanno raccontato davanti alla telecamera di Mirko Cardinali gli anni passati a filar la seta negli stabilimenti Piccinini e Caraceni di Urbisaglia, nelle Marche. La loro amica Ughetta le ha lasciate da poco, giusto il tempo di rivedersi, nella casa di riposo dove ha trascorso l’ultimo periodo della sua vita, durante una proiezione del documentario Radici, dedicato proprio a lei e alle amiche setaiole. Il sorriso accennato sulle labbra, l’atteggiamento umile e fiero di chi non avrebbe mai creduto che un giorno anche la sua esistenza anonima potesse interessare a qualcuno.
GLI INIZI
«Io ho iniziato ad andare in filanda nel 1937», racconta Emma Lulani, «e avevo il compito di controllare la qualità del filo». «Ho cominciato a 14 anni, per due ho lavorato in nero e ho smesso a vent’anni, quando mi sono sposata e ho seguito mio marito in campagna», è la testimonianza di Anita Seghetta. «Ci sono rimasta fino alla chiusura, subito dopo la guerra», è l’esperienza di Fiorina Marinsalda. Cartoline sbiadite riportano a quando nel piccolo Comune del Maceratese, poco più di duemila abitanti, due alte ciminiere spuntavano tra i tetti del centro abitato. Centinaia di donne e ragazzine, dall’inizio del Novecento e fino alla Seconda guerra mondiale, hanno trovato lì un’occupazione in grado di sfamarle. «Mio padre coltivava la terra e per noi pane e un po’ di verdura c’erano sempre. Ma tante altre mie compagne non avevano neppure questo», testimonia Fiorina, rievocando nel suo dialetto quella dura stagione davanti al nipote, incuriosito nel vedere la nonna rilasciare un’intervista. «Cercavamo di aiutarci, anche solo dividendo un pezzo di pane per fare il pancotto ai bambini». «Alle sette di mattina, tre colpi di fischio di locomotiva indicavano che il cancello della filanda stava per chiudersi e che le donne iniziavano la loro fatica». Suoni e odori di quel frammento di storia sono indelebili nei ricordi di Benedetto Caraceni, nato nel 1921, ex maestro elementare e figlio del fondatore di una delle due filande di Urbisaglia. «Mio padre Alessandro la aprì quando era ancora giovane. Si trattava di un’attività nuova, che veniva dall’Asia e in Italia aveva avuto il suo primo grande sviluppo in Veneto», spiega. Benedetto Caraceni vive a Recanati, la città di Giacomo Leopardi, in passato polo molto attivo nella produzione della seta, come ricordano le foto d’epoca pubblicate grazie alla Regione Marche nel libro Le filande marchigiane tra Ottocento e Novecento. Scrive Maria Francesca Chiodi, curatrice del volume: «I documenti fotografici e archivistici raccolti testimoniano come, in un’economia prettamente agricola, le filande costituissero un’importante fonte di reddito familiare, grazie all’impegno e alla tenacia di tante donne che, per quanto prostrate dai massacranti ritmi di lavoro e dalle terribili condizioni dei locali, trascorrevano in filanda gran parte della giornata».
LA SCALA GERARCHICA
Nel documentario Radici, Caterina Recchi mostra le proprie mani ed è come se le rivedesse ancora, gonfie e piene di vesciche, perché immerse nell’acqua bollente per otto ore al giorno. Lei era una “sottiera”, cioè l’operaia che tirava fuori dalle bacinelle i bozzoli, dai quali, grazie al calore, si estraeva il capo. Le sottiere costituivano la base di una scala gerarchica che, dopo le maestre, le giuntine e le provinatore, culminava nella figura della “giratora”, la temuta direttrice dello stabilimento. «Quella di quando c’ero io», dice Anita Seghetta, «era terribile, cattiva. Veniva dal Nord Italia e ci terrorizzava se sbagliavamo qualcosa. Non ho mai ricevuto punizioni, però capitava che qualcuna di noi venisse mandata a casa e quando questo succedeva si perdeva la paga». Anita era andata in filanda quando c’era già sua madre Elisa e dopo di lei lo stesso hanno fatto le sorelle minori. «Nostro padre era morto, mamma aveva dovuto lasciare la terra. Venimmo ad abitare a Urbisaglia perché qui qualcosa per sfamarci potevamo trovarlo. Né io né le mie sorelle avevamo le scarpe, andavamo scalze oppure con gli zoccoli di legno, anche d’inverno. Quando finalmente riuscimmo a comprarci un paio di scarpe, erano bianche, le mettevamo a turno: un giorno io e l’altro mia sorella Gina». Le retribuzioni erano misere e spesso le grandi banconote da una lira passavano direttamente dalle mani del “padrone” a quelle dei genitori delle giovani operaie. «Non ho mai preso la paga direttamente», ricorda ancora Anita. «Andava mamma a ritirarla e capitava spesso che chiedesse anche degli anticipi: eravamo cinque figli e non riuscivamo ad arrivare alla fine del mese».
«Mio padre Alessandro», spiega Benedetto Caraceni, «veniva chiamato dalle dipendenti “sor Lisà” e costituiva quasi un piccolo istituto di credito per la gente del paese. Ricordo tante conversazioni preoccupate con mio padre. Gli capitava di lavorare in perdita ma attingeva risorse da altre attività pur di mantenere in vita la filanda e aiutare le famiglie di Urbisaglia. Quando è morto, nel ’41, non c’è stato chi non abbia partecipato al suo funerale». Rispettare il “padrone” era l’imperativo che le generazioni più vecchie passavano alle più giovani. Disciplina ferrea, teste chine su bacinelle e “naspi”, le maestre che avvertivano con un sibilo l’arrivo del proprietario. «Le nostre giornate erano scandite dalla recita del rosario: la mattina, poco dopo il fischio della sirena, e la sera, prima di tornare a casa. E poi cantavamo, intonavamo i motivi dell’epoca», è la testimonianza di Emma Lulani. “Cara Francesca, addio. Addio, cara Francesca. Ritorneremo un giorno, arrivederci a un dì…», Emma non ha dimenticato la canzone che sanciva la chiusura della stagione produttiva, che andava da settembre-ottobre fino a primavera, quando non era più possibile approvvigionarsi di bozzoli.
QUANTI SACRIFICI
«Mia madre, da tutti conosciuta come “sora Lea”, aveva addirittura predisposto un locale dove le operaie potevano allattare i neonati», si commuove Girolamo Piccinini, discendente della famiglia proprietaria di una delle due filande di Urbisaglia, purtroppo abbattuta per far posto a nuovi condomini. «Sì, ci portavano i figli, noi li attaccavamo al seno e poi tornavamo a lavorare», conferma Fiorina. «Allora mica era come adesso che abbiamo tutto, bisognava fare sacrifici per tirare avanti. Io mi sono anche ammalata, mi era venuta un’allergia e mi si erano gonfiate tantissimo le mani. Sono stata pure mandata a casa, una volta, per un errore. Non l’ho presa troppo male, per non pensarci mi sono messa subito a fare il pane». Il pane, ecco la parola che sempre ritorna. «Una volta una mia compagna era scesa in cantina per prendere l’olio che era riuscita a comprare con la sua paga. Ma aveva trovato la bottiglia vuota, il marito ci aveva pagato un debito di gioco. Molti uomini, allora, giocavano d’azzardo a “toppa”, era così che passavano il tempo mentre le mogli si spaccavano la schiena. Poveretta, la mia amica era disperata».
«Io mi portavo in filanda una patata e la facevo cuocere nell’acqua calda prima che ci buttassero i bozzoli», le fa eco Caterina Recchi, conosciuta in paese perché per molti anni è stata la bidella della scuola elementare. «In famiglia non volevano che andassi in filanda. Io però mi sono intestardita e sono andata a chiedere il posto di nascosto». «C’era anche chi si alzava la mattina alle quattro, scendeva alla fonte a lavare i panni e poi veniva a lavorare», aggiunge Emma. «Tra di noi eravamo solidali. Sì, poteva anche capitare che ci si guardasse storto per qualche piccola invidia. Ma eravamo tutte nella stessa situazione e da invidiare c’era ben poco». «Qualcuna aveva un solo vestito. Lo metteva tutta la settimana, il venerdì sera lo lavava e poi la domenica si andava a messa», aggiunge Fiorina. «Io no, io ero più fortunata e ne avevo due».
Questo articolo è un omaggio a tutte le donne italiane,donne che hanno lavorato tanto sia in fabrica che a casa, mandando avanti la famiglia.Ottimo post.Maria Z.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Grazie. L’articolo è la sintesi di un lavoro un po’ piu’ complesso che stiamo portando avanti a Urbisaglia, nelle Marche, proprio sulle donne (ma anche gli uomini) che si sono spezzate la schiena per sopravvivere, vivere e crescerci. “In fabbrica o in casa, mandando avanti la famiglia”, come dici tu. E’ cosi.
"Mi piace""Mi piace"
Ughetta e Caterina non ci sono più, ma è vivo in me il loro ricordo.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Una testimonianza davvero importante, un pezzo di storia da conservare gelosamente. Queste donne sono un esempio di dignità, della forza femminile e dell’importanza del loro contributo alla crescita del nostro paese. Oggi è nostro compito raccogliere la loro eredità e riprendere, anche svolgendo altri lavori in un’epoca diversa, quel filo simbolo della cura, del sacrificio e dell’impegno.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Il lavoro alle macchine era talmente duro che mia madre, orfana a dodici anni, si riteneva fortunata di avere lasciato questo lavoro per andare a fare la sguattera in una cucina di una grossa mensa. Si era negli anni venti.
"Mi piace"Piace a 1 persona