Creare la confusione per far sparire i fatti: l’occultamento delle violenze maschiliste contro le donne

di Patrizia Romito
docente di Psicologia sociale all’Università di Trieste

A partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, nella maggior parte dei paesi industrializzati sono avvenuti dei cambiamenti importanti nella percezione e nel contrasto della violenza degli uomini contro le donne: in vari paesi europei, sono state abrogate delle leggi che sanzionavano la dominazione e la violenza maschile nella coppia[1]; sono state  altresì promulgate sia leggi maggiormente repressive nei confronti degli aggressori sia leggi di natura preventiva, come l’ordine di protezione o di allontanamento, sia leggi che configurano nuove tipologie di reato, come quelle che reprimono le persecuzioni, o lo “stalking”.

Nonostante questa evoluzione positiva, dobbiamo costatare che le violenze maschili, o meglio maschiliste[2], contro le donne non sono affatto cessate: restano frequenti, distruttrici e, nonostante tutti i nostri sforzi, sono ancora banalizzate, minimizzate, occultate. Un esempio emblematico. Nel novembre 2008, un deputato francese, JM Demange, ha ucciso la sua ex compagna con due colpi di pistola alla testa, dopo averla picchiata e inseguita mentre fuggiva; si è poi ucciso. L’Assemblea nazionale (il Senato di Francia) ha decretato un minuto di silenzio in onore dell’infelice collega deceduto; la donna uccisa non è stata neppure menzionata[3]. I giornali hanno poi dato grande enfasi al fatto che l’uomo fosse depresso (aveva perso alle ultime lezioni), trascurando di raccontare come, durante il periodo della convivenza, avesse maltrattato la sua compagna, prima che lei lo lasciasse e che lui infine la uccidesse.

In un altro registro, consideriamo la Risoluzione dell’ONU 54/53 (2000) che istituisce il 25 novembre come “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”. Come succede in tutti i documenti internazionali sullo stesso argomento, da nessuna parte si dice che la violenza contro le donne è quasi esclusivamente commessa da uomini. Non si parla mai di violenza maschile o maschilista, e si preferisce utilizzare dei termini generici come “violenza contro le donne” o degli eufemismi come “violenza di genere”[4].

In un libro scritto alcuni anni fa (Romito, 2005), ho sostenuto la tesi secondo cui si è passati dal silenzio al rumore. Da una fase in cui la violenza era nascosta, o talmente connaturata con pratiche sociali e leggi da risultare invisibile, e le vittime non osavano parlarne, a una fase in cui le voci delle donne e delle bambine e bambini che avevano appena iniziato a farsi sentire sono coperte da un rumore, da una cortina fumogena creati e mantenuti ad arte, per offuscare la realtà e coprire i responsabili (Armstrong, 2000; Crisma e Romito, 2007).  Questo offuscamento è reso possibile dall’azione di varie tattiche e strategie di occultamento.  Le strategie che ho identificato sono la legittimazione e la negazione: metodi complessi, volti a occultare le violenze maschiliste e a perpetuare i privilegi e la dominazione maschili. Le tattiche – eufemizzazione o evitamento linguistico, colpevolizzazione delle vittime e delle madri, disumanizzazione, psicologizzazione, naturalizzazione e separazione – costituiscono strumenti che possono essere utilizzati in maniera trasversale nelle diverse strategie.

Le discussioni che hanno animato le presentazioni del libro in vari paesi[5] hanno confermato la pertinenza di queste categorie e la loro utilità per leggere una realtà in continuo movimento e spesso confusa, in cui il peso di atrocità accumulate sembra a volte schiacciarci. In questi ultimi anni, tuttavia, altre tattiche e strategie di occultamento sono apparse e si sono precisate. Qui ne presenterò due: l’attacco contro le vittime e il razzismo come strumento di occultamento.

L’attacco alle vittime.

« La volontà del personale è di considerare le donne come delle cittadine e non come delle vittime” (Il direttore di un Centro di accoglimento e ri-inserzione  sociale a Tolosa, a proposito delle donne maltrattate da un partner, accolte nella struttura, 2006[6]).

Attaccare il concetto di vittima e le vittime stesse è un altro modo d’impedire che l’indicibile – che la violenza contro le donne è commessa da uomini –venga enunciato con chiarezza. Questo attacco prende forme diverse.

Nella maggior parte dei paesi dove le grandi inchieste statistiche hanno mostrato la frequenza di queste violenze – Stati Uniti, Canada, Francia, Svezia – gruppi di uomini anti-femministi ma anche giornalisti o intellettuali, uomini e donne[7] (nessuno dei quali peraltro esperto sul tema delle violenze), hanno ripetutamente attaccato le ricercatrici e i ricercatori, accusandoli di aver gonfiato le cifre, di aver creato dal nulla il problema della violenza e di aver indotto le donne a considerarsi e a comportarsi tutte come delle vittime piagnucolose (Romito, 2003).

Queste accuse sono paradossali: le donne vittime di violenze maschili, infatti, tendono piuttosto a negarle. Un esempio: in una ricerca negli Stati Uniti (Phillips, 2000), ben 27 sulle 30 studentesse intervistate avevano subito almeno un’esperienza che corrispondeva alle definizioni legali di stupro, molestia o aggressione; eppure, benché fossero in grado di descrivere lo choc, l’umiliazione,  il dolore e la paura provati, solo due usarono questi termini per descrivere quanto era successo. Le altre preferivano formulazioni del tipo «le cose erano andate storte», e spesso si attribuivano parte della responsabilità: «non avrei dovuto uscire con lui» o «dovevo immaginarmelo». Altre ricerche sullo stupro o sulle molestie sessuali sul luogo di lavoro mostrano la stessa tendenza (Romito, 2005). Questi meccanismi di negazione non devono sorprenderci. Storicamente, bambine e donne stuprate, invece che essere credute e aiutate, sono state trattate da bugiarde, provocatrici, seduttrici; colpevolizzate, minacciate, punite. E ancor oggi in altri paesi le donne stuprate preferiscono suicidarsi piuttosto che sopportare la vergogna, il disprezzo, e l’isolamento sociale a cui sarebbero condannate; in altri casi, sono i loro familiari che le uccidono per le stesse ragioni. E ancor oggi, nei paesi occidentali, solo una minoranza di donne maltrattate dal marito lo denunciano[8].

Ma il concetto di vittima mette in imbarazzo anche le studiose femministe, in quanto sembra rinviare a un’idea di passività e quasi di colpevolezza. Questa reticenza può assumere delle forme estreme. In un articolo che riguardava le donne uccise dal marito, pubblicato su un giornale femminista, l’autrice (Morgan, 2006) si è sentita obbligata di scrivere una nota di 18 righe per giustificarsi dall’aver utilizzato il termine vittima!

Paradossalmente, il termine “vittima” è oggi contestato o rifiutato da molti – femministe e anti-femministi – lasciando un vuoto linguistico ma anche politico per indicare chi, senza colpa, ha subito un danno da parte di un’altra persona, o a causa di un incidente o di un disastro. Dovremmo domandarci perchè troviamo accettabile parlare delle vittime di un incidente sul lavoro o di un terremoto, mentre invece siamo imbarazzate a parlare di vittime della violenza maschile. Contribuiscono ad aumentare la confusione le “politiche del linguaggio”: si parla infatti di donne che “fanno le vittime”, “si sentono vittime”, o si “comportano da vittime”, mentre le donne, quando ne parlano, è perchè sono state oggettivamente vittime di qualche violenza.

Un esempio recente viene dall’Italia. Nell’aprile 2010, è stata lanciata la campagna mediatica “Riconosci la violenza”, con l’obiettivo, davvero ambizioso, di “prevenire la violenza”. Le immagini mostrano delle giovani donne, belle e sorridenti, abbracciate teneramente a un uomo. Il viso di quest’ultimo è coperto da slogan contro la violenza che, tutti, si rivolgono alle donne, che devono “imparare a riconoscere la violenza”, “denunciare il violento”, o “cambiare di fidanzato”: né gli uomini, violenti o no, né le istituzioni sociali, vengono interpellate. Secondo il testo di accompagnamento “Questa campagna contro la violenza sulle donne è diversa da tutte le altre (…) perché non troverete né occhi pesti, né occhi bassi. Non vogliamo mostrare altre donne nel ruolo di vittime. Non vogliamo che le più giovani tra noi a quel ruolo si sentano ancora inchiodate e condannate”[9].

Questo testo lascia sbalordite. Attraverso quale gioco di prestigio una donna che è stata obiettivamente vittima di una violenza diventa una donna che sta, o si mette “nel ruolo di vittima”? Perchè l’espressione “essere nel ruolo di” significa che facciamo teatro, stiamo impersonando qualcuno o qualcosa, ma non lo siamo per davvero. E allora come definire una donna che il marito ha umiliato, picchiato, violentato? Ci restano ancora delle parole, delle categorie cognitive e politiche, per descrivere questa situazione? [10]

Mi sembra che, se il termine vittima disturba, è proprio perché designa in maniera fin troppo chiara le relazioni di potere che sono in gioco: c’è un aggressore, che causa un danno, e una vittima, che lo subisce. Se così è, forse allora dovremmo reclamare, come scelta politica, il termine vittima. Tuttavia, riconoscersi come oggetto di violenze può essere doloroso e umiliante e non c’è da stupirsi che molte persone si ritraggano da questa consapevolezza. E’ possibile riconoscersi in quanto vittima e rivendicare questo status solamente in un contesto politico che ci sostiene. La psichiatra americana Judith Herman (1992) l’ha mostrato con chiarezza, sia riguardo le donne vittime di violenze sessuali paterne (il cosiddetto incesto), sia riguardo gli uomini vittime di traumi in guerra. Sarebbe inquietante dover costatare che nel 2010, dopo tutte le lotte delle donne per rendere visibile la violenza maschilista e per contrastarla, non è possibile dichiararsi ad alta voce vittime di questa violenza.

In realtà il patriarcato (anzi, secondo l’accezione della grande scrittrice bell hooks il « patriarcalo-capitalismo bianco e suprematista, hooks, 1998) ha bisogno di donne vittime … purché l’aggressore sia un “altro”, il nemico o, come vedremo nel prossimo paragrafo, lo straniero, l’immigrato, l’uomo di un’altra cultura o religione. Susan Faludi (2008) mostra come nella storia degli Stati Uniti sia stato necessario trasformare donne energiche e a volte anche violente in vittime indifese del nemico del momento, i cosiddetti “Indiani”, perché questo permetteva di giustificare lo sterminio del detto nemico. Un meccanismo simile a quello a cui abbiamo assistito più di recente, in occasione degli interventi militari in Iran, Afghanistan e Irak, e che si è intensificato dopo gli attacchi terroristici alle Torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001.

Un punto di vista limpido e convincente sulle vittime è espresso da Irene Zeilinger nel suo bel libro sull’autodifesa:

“Se parlo di vittime, non si tratta assolutamente di persone passive, irrimediabilmente abbandonate al loro destino. Non si tratta di uno stato irreversibile; inoltre, esser stata vittima a un certo momento della vita non significa che vittima si debba restare per il resto dei propri giorni. Utilizzo il termine vittima nel senso che queste persone non sono responsabili della violenza che è, o è stata, loro inflitta, nel senso che non hanno scelto di essere vittime, né erano nate vittime. Le vittime sono persone che si trovano confrontate a una realtà spesso brutale, e che fanno del loro meglio per tirarsene fuori” (Zeilinger, 2008, p. 9).

Nella sua versione “moderata” (come appare nella campagna italiana “Riconosci la violenza”), il rifiuto della vittima si configura come una posizione anti-materialista, un wishful thinking, una pia illusione. E’ come se,  rifiutandosi di “fare la vittima”, o impedendo alle altre donne di stare “nel ruolo di vittima”, si potesse eliminare come in un gioco di prestigio quello che rende le donne obbiettivamente vittime: l’oppressione patriarcale e la violenza maschilista. Nella sua versione più estremista, l’attacco alle donne vittime di violenza rientra in una strategia più ampia di discredito nei confronti anche di altre categorie di vittime. Costruendo il fatto di essere vittima come uno stato psicologico, quasi una debolezza della vittima stessa, e non come una condizione obiettiva, il discorso anti-vittime contribuisce a negare la violenza maschilista e l’ingiustizia sociale che rappresenta, e a delegittimare le rivendicazioni delle donne che hanno subito violenza (Cole, 2007). Diventa così  sempre più difficile contrastare la violenza maschilista contro le donne e il sistema sociale che la rende possibile.

Il razzismo come strumento di occultamento della violenza

Se esiste una questione femminista che merita di essere approfondita (…) è proprio quella dell’intreccio tra l’oppressione basata sul sesso e le oppressioni basate su razza, etnia o cultura, che possiamo raggruppare con il termine di “razzismo”. (…) l’oppressione sessista infatti non si iscrive e non si legge nel corpo astratto di una donna universale e a-storica, ma nel corpo di donne specifiche, uniche, in un contesto sociale determinato, e caratterizzato  da altri rapporti di dominazione» (Benelli et al., 2006, p. 4).

Il termine inglese di “intersectionality” ci rimanda all’intreccio intimo tra sistemi di dominazione diversi, e ci permette di capire meglio la situazione di donne immigrate o appartenenti ad altre culture, e dunque “razzializzate”[11]. Questi intrecci possono influenzare in modi diversi l’esperienza delle donne che sono vittime di violenza e cercano di uscirne: oltre al sessismo, devono sopportare il razzismo di poliziotti e operatori sanitari; rischiano di essere emarginate dalle persone della loro comunità, che possono sentirsi tradite dalla denuncia della violenza; e possono incorrere in conseguenze catastrofiche, come l’essere espulse dal paese di immigrazione, se il loro permesso di soggiorno è legato a quello di un marito o padre violento (Patel, 2000; Creazzo, 2003).

Questo intreccio ci interessa qui anche perché può diventare un altro modo di occultare le violenze maschili: infatti, quando la violenza è compiuta da un uomo di un gruppo o di una cultura minoritaria, questa violenza è considerata come “tipica” o esclusiva di quella cultura, e non come tipica del patriarcato. Questa lettura finisce per “naturalizzare” le altre culture, che appaiono come sistemi monolitici, quasi delle “culture-istinto”, da cui gli individui non potrebbero prendere consapevolmente le distanze. Attraverso questi meccanismi si finisce per scusare il comportamento di questi uomini violenti, per banalizzare la loro violenza e abbandonare le vittime al loro destino. In alcuni paesi occidentali, è successo che uomini appartenenti a una cultura minoritaria, o “razzializzata”, che avevano commesso violenze gravi nei confronti di una donna dello stesso gruppo, fossero condannati a pene leggere, con la motivazione che tale violenza era “normale” nel loro paese. Per esempio in Gran Bretagna, un uomo originario dall’India ha pagato solo un’ammenda per aver quasi ammazzato la moglie di botte, in quanto “immigrato” (Patel, 2000). In Germania, un giudice ha ridotto la pena a un uomo che aveva sequestrato, torturato, violentato e fatto violentare anche da altri la sua ex fidanzata, perché era sardo.  Il giudice tedesco ha infatti ammesso come circostanze attenuanti l’appartenenza “etnica e culturale” a una cultura arretrata come quella, secondo lui, della Sardegna. Va precisato che la vittima era lituana, e non tedesca…[12]

In alternativa, in Italia le violenze contro le donne commesse da uomini immigrati sono enfatizzate dai media e strumentalizzate a fini politici: recentemente (ottobre 2009), l’assassinio di una ragazza di origine marocchina, Sanaa Dafani, uccisa dal padre, ha occupato per più giorni le pagine dei giornali[13]. La Regione Friuli Venezia Giulia, dove è avvenuta la tragedia, ha annunciato di volersi costituirsi parte civile contro il padre assassino di Sanaa. Sarebbe un gesto importante di assunzione di responsabilità nel contrasto della violenza maschile contro le donne, se non fosse che questo gesto non è mai stato fatto nei numerosi casi di donne uccise dai loro familiari, indigeni italiani. Attribuendo alle culture minoritarie una tendenza quasi genetica alla violenza maschile contro le donne, questi discorsi e queste pratiche misogine contribuiscono così ad occultare la violenza degli uomini di casa nostra. Negli ultimi anni, abbiamo infatti assistito alla proliferazione di un discorso pubblico in cui la violenza contro le donne viene presentata come tipica o esclusiva di alcune culture, in particolare quelle “musulmane” o “islamiche”[14]. In molti paesi è diventato accettabile dire e scrivere che la violenza contro le donne è una questione che riguarda solo culture non occidentali: da noi, sarebbe un problema residuale, che riguarderebbe solo uomini con disturbi psichiatrici: ecco all’opera la strategia della “psicologizzazione” (Romito, 2005). Questo è il discorso tenuto in Francia, per esempio, dalla filosofa Elisabeth Badinter, la stessa che ha attaccato ripetutamente l’inchiesta nazionale francese sulla violenza, accusando le ricercatrici di aver gonfiato la categoria “violenza” e di aver “creato” la figura della donna vittima (Delphy, 2006). Questo discorso è tenuto anche in Italia, soprattutto a partire dal 2007, in occasione di un gravissimo episodio di violenza – lo stupro e assassinio di Giovanna Reggiani- compiuto da un immigrato. Ai funerali della donna intervennero numerosi politici[15]: un omaggio mai attribuito ad altre donne, altrettanto atrocemente uccise, ma da uomini italiani.  A questo, va aggiunta la campagna, in Francia e più recentemente anche in Italia, contro l’utilizzazione da parte delle donne del cosiddetto “velo islamico”, considerata sempre ed esclusivamente come un’ulteriore prova dell’oppressione “islamica” nei confronti delle donne, mentre a volte si tratta di una scelta autonoma di donne e ragazze, anche motivata dal rifiuto e dal razzismo della società di immigrazione. E’ inoltre paradossale che la religione islamica sia additata come fonte di violenza contro le donne, mentre si dimentica o si occulta il ruolo attivo della religione cristiana, e in particolare cattolica. Basterebbe considerare l’Inquisizione e la caccia alle streghe, e, ben più di recente, le violenze sessuali commesse da preti su bambine e bambini[16]. Queste violenze, enormemente estese, sono state fino a ieri occultate dalle più alte autorità della Chiesa, compreso il cardinale Ratzinger, oggi papa dei cattolici, e autore, nel 2001, della lettera « De delictis gravioribus », che imponeva il “Segreto pontificio” a quei preti che fossero venuti a conoscenza di violenze sessuali commesse da altri preti[17]. Occultando le violenze, la Chiesa ha protetto gli aggressori, lasciandoli liberi di continuare ad agire, e ha abbandonato le vittime, mettendole a tacere, minacciandole e discreditandole se parlavano. La questione è “scoppiata” dapprima in Nord-America, e almeno un decennio dopo in Europa (Irlanda, Germania, Austria, Italia….), in America del Sud e in Africa. Ricordiamo inoltre che lo stesso cardinale Ratzinger ha curato, poco prima di essere eletto papa, la nuova versione del Catechismo, secondo cui adulterio, masturbazione e stupro sono messi sullo stesso piano, come peccati contro la castità.

Conclusioni

La violenza maschilista contro le donne non solo continua ad esistere, ma resta tuttora occultata o addirittura indicibile, o può essere detta solo utilizzando degli eufemismi mistificatori. E’ solo grazie al lavoro di tante donne, nelle associazioni e nelle istituzioni nazionali e internazionali, e di alcuni uomini compagni di strada, che queste violenze sono state svelate, che si è iniziato a contrastarle, e che tante donne sono riuscite a liberarsene.  E’ solo continuando questo lavoro che possiamo sperare di mettere fine alle violenze, e di costruire una società  in cui siamo tutte e tutti meno oppressi e più liberi.

NOTE

[1] Alcuni esempi: in Italia, nel 1981 è stato abolito il “delitto d’onore”; tra il 1991 e il 1998, Olanda, Gran Bretagna e Germania hanno abrogato l’“eccezione coniugale per lo stupro” (lo stupro da parte del marito non era considerato reato dal codice penale).
[2] Parlare di violenze “maschili” ha il vantaggio di indicare chiaramente che la maggior parte degli aggressori sono uomini; parlare di violenze “maschiliste” (o machiste, come si fa in Spagna) indica che il problema non sta nel “maschile”, cioè nel sesso biologico, ma nel “machismo” o maschilismo, che è prodotto dal sistema patriarcale.
[3] Una sola deputata, Martine Billard, ha trovato scandaloso questo comportamento e ha protestato. « La minute de silence qui dérange », J. Aridj,  Le Point, 19 novembre 2008.
[4] Questo termine può essere appropriato per indicare violenze commesse da donne su donne in un contesto patriarcale, come le mutilazioni genitali sulla bambine. Diventa un eufemismo  quando applicato a violenze commesse da uomini su donne.
[5] Il libro è stato tradotto in spagnolo, francese e inglese.
[6] « Accompagner les victimes de violences conjugales », Lien Social, n° 7889, mars 2006, consulté en novembre 2009.
[7] In Francia,  tra le donne anti-femministe più aggressive, e più ascoltate dai media, c’è Elizabeth Badinter; negli Stati Uniti, Katie Roiphe.
[8] Secondo i dati dell’Istat, il 34% delle donne che ha subito ripetute violenze fisiche o sessuali da parte di un partner non ne ha parlato con nessuno, e il 93% non l’ha denunciato alla polizia. Istituto nazionale di Statistica (ISTAT) La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia. Anno 2006 (21 febbraio 2007)
[9] Riconosci la violenza. Scaricato il 1 aprile 2010.
[10] Fin dagli anni ’70, si è proposto di sostituire il termine “vittima” con il termine “sopravissuta”: questo termine pone a sua volta vari problemi, ma soprattutto non tiene conto del fatto che non tutte le donne sopravvivono alle violenze.
[11] Il termine racialized, “razzializzato” è un neologismo che permette di indicare persone individuate e discriminate per le loro caratteristiche somatiche o la loro posizione sociale di immigrati, senza far ricorso al concetto di razza, concetto superato sul piano scientifico e inaccettabile sul piano politico. Per una eccellente discussione, vedi i due numeri della rivista Nouvelles Questions Féministes : Sexisme et racisme : le cas français, 25(1), 2006, e Sexisme, racisme et post colonialisme, 25(3), 2006.
[12] « Germania, violenta la sua ex, sconto di pena perché è “sardo””, La Repubblica, 11 ottobre 2007.
[13] Va precisato che nella maggior parte dei paesi occidentali, a differenza dell’Italia, i giornali non possono specificare la nazionalità degli autori dei crimini. Dato che la tendenza non è simmetrica – non viene mai indicato esplicitamente quando i crimini sono compiuti da indigeni -, rendere pubblica esclusivamente la nazionalità degli stranieri potrebbe configurarsi come incitamento all’odio razziale.
[14] Naturalmente non esiste una cultura islamica o musulmana monolitica, non più di quanto non esista un’unica cultura cristiana.
[15] Erano presenti: il Ministro degli Interni, Amato, il sindaco di Roma, Veltroni, lo sfidante alla poltrona di sindaco, Alemanno, il Presidente della Regione, Marrazzo, e altri politici, tra cui Fini e Casini (Corriere della Sera, 3/11/2007).
[16] Finora i media hanno soprattutto parlato di bambini e adolescenti di sesso maschile, ma si inizia ad avere maggiori informazioni su bambine e donne vittime di violenze sessuali da parte di preti, vedi: http://www.snapnetwork.org/female_victims/women_face_stigma.htmhttp://bit.ly/beqgpy, http://bit.ly/a2jgFj). La focalizzazione su vittime di sesso maschile potrebbe spiegarsi con il fatto che così è più  facile insinuare che le violenze siano dovute a “devianze individuali” dei preti, e cioè a una pretesa omosessualità. Ciò permette inoltre di occultate lo sfruttamento sessuale delle suore, denunciato soprattutto in Africa. Va aggiunto che socialmente si tende a considerare più grave quel che viene fatto a un bambino, un futuro uomo (Ringrazio Martin Dufresne per queste informazioni e considerazioni).
[17] Segreto pontificio. I crimini sessuali nella Chiesa nascosti da papa Wojtyla e dal cardinale-prefetto Ratzinger, Kaos Edizioni, 2007.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Benelli, N., Delphy, C., Falquet, J., Hamel, C., Hertz, E., Roux, P. (2006) Les approches postcoloniales : apports pour un féminisme antiraciste. Nouvelles Questions Féministes, 25(3), 4-12,
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Romito, P. (2003) Les attaques contre les enquêtes sur les violences envers les femmes ou qui a peur des chiffres sur les violences commises par les hommes, Nouvelles Questions Féministes, 22(3): 82-87
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Zeilinger I. (2008) Non c’est non. La Découverte, Paris.

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