di Grazia Livi
Questo è il testo di una intervista alla scrittrice Grazia Livi, pubblicata sul n. 22 del giugno 1994 di “Lapis”, rivista fondata e diretta da Lea Melandri.
Grazia Livi è morta domenica 18 gennaio a Milano. Non mi dilungo a scrivere di lei, qui, perché altri più autorevoli di me lo stanno facendo sulla stampa e altrove.
Posso solo dire di averla conosciuta personalmente, in questi suoi ultimi anni di vita e averne colto, oltre la scrittura, la levità del vivere e la profondità del sentire, misti a una dolcezza e garbo nelle relazioni con gli altri, che non so se furono da sempre sue o acquistate con una canuta e saggia vecchiaia.
Giornalista. Ancora oggi, se pronunzio questa parola e la riferisco a me, provo un senso di malessere, quasi dicessi qualcosa di bizzarro e di incongruo, come “acrobata” o “venditrice di accendini”. Eppure, per vari anni, fra il ’57 e il ’70, quando l’area dell’informazione non era ancora stata invasa dalla TV, sono stata giornalista per un grande settimanale a rotocalco. Avevo un contratto di collaborazione con esclusiva di firma; ero una specie di inviata. Inchieste, interviste. Il mio territorio era genericamente culturale. D’un tratto, io ragazza fiorentina borghese, educata studiosamente e moralisticamente, firmavo disinvolta articoli col mio nome e cognome. Che fossi impaurita non si vedeva: il nome appariva in lettere grandi, in neretto. Firmavo e viaggiavo. Incontravo artisti. Portavo a termine incarichi, in Italia e all’estero. C’era di che inebriarsi un poco. Cosa facevano, nello stesso periodo, le ragazze del mio ambiente? Finito il liceo e l’università, sposavano un professionista, mettevano su una famiglia regolare. Io, invece, spinta dall’energia, dalla curiosità, dal bisogno di conoscere, da un’informe ansia di attuazione, mi ero allontanata da quelle regole. In verità, come scrissi molti anni dopo, cercavo di sottrarre “la mia identità all’informe destino femmineo”. Sì, questo era il punto. Da sola, senza essere cosciente di nulla, priva di una ideologia che mi sostenesse, andavo verso la mia emancipazione, così, per l’impulso ad allargarmi, per l’impossibilità di credere in quei modelli femminili, statici e inespressi, che mi toglievano la voglia di vivere. Il giornalismo fu, nei primi tempi, più delizia che croce. Intanto avevo un committente che mi convocava, e percepivo uno stipendio. Entravo nella stanza del direttore con una mascherina vivace e tiravo fuori un foglietto con una lista di proposte, c’erano a volte degli assensi subitanei. In segreteria veniva prenotato per me l’albergo e il treno. Sperimentavo così un rapporto di dare e avere che a me pareva fondato sull’equità e sull’oggettività e che mi lusingava perché era lo stesso che legava gli uomini fra di loro, sul terreno della professione. In secondo luogo imparavo un mestiere, sfruttando un dono per lo scrivere che giaceva nella mia oscurità e obbedendo a una mia acerba esigenza: che le parole mettessero ordine, conferissero un significato, una lucidità, una ragione.