Mandorle, “pizzini” e indipendenza

di Angela Giannitrapani

Tripudio di sapori e colori nella pasticceria di Maria Grammatico a Erice. https://www.facebook.com/pasticceriamariagrammatico/ «Quando andavo per uffici a richiedere i vari permessi, gli impiegati mi dicevano che a quelle come me avrebbero schiacciato i mozziconi di sigarette sulla pelle», ha raccontato Maria Grammatico ad Angela Giannitrapani, ripercorrendo tutte le tappe della sua avventura professionale, coronata dall’apertura di una scuola di pasticceria

Nella prima parte del reportage da Erice, in Sicilia, Angela Giannitrapani ci ha guidati fino alla pasticceria di Maria Grammatico. Che ora ci racconta la sua storia e il suo lavoro.

Maria nasce nel dicembre del 1940 nella frazioncina di Ballata, sul pendio del monte Erice. È la prima di sei figli, tra sorelle e fratelli. La guerra si fa sentire anche con la fame, una gran fame che lei ricorda ancora. Quando il padre muore ha undici anni. La madre Antonina è incinta di due mesi della sesta figlia e trova lavoro come lavandaia. Ma questo non basta a salvarli dagli stenti e così la donna è costretta a chiamare a consiglio le due figlie più grandi, Maria e la sorella di sette anni. Con tutta la tenerezza di cui è capace, dice loro: «Vedete, figlie mie, non riusciamo più a mangiare. Per quanto lavoro, il guadagno non basta. Non c’è altra soluzione: se volete sopravvivere dovete andare dalle monache».

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Barbara, saltata in aria con i due figli. Perché la mafia sbagliò il bersaglio designato: il magistrato Carlo Palermo

di Maurizio Struffi e Luigi Sardi*

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Carlo Palermo con Paola Ciccioli a Roma, inizi Anni ’90 (foto di Sandro Rossi)

Due aprile 1985. Ore otto del mattino. L’assassino aspettava sulla strada S. Vito-Trapani, a poche centinaia di metri dalla spiaggia dove una stele ricorda la leggenda dell’approdo di Enea alle coste italiane. Non lo distraevano l’incanto di quel mare che s’allarga fino alle Isole Egadi e neppure quei fiori che la primavera siciliana andava accendendo in una incredibile violenza di colori e profumi, lungo le pendici della montagna di Erice. In mano un telecomando, puntato su un’automobile imbottita d’esplosivo. Premendo solo un pulsante, doveva uccidere Carlo Palermo, il giudice che a Trento, cinque anni prima, aveva aperto un’inchiesta su un incredibile, gigantesco contrabbando di stupefacenti ed armi e che, appunto a Trapani, prometteva di trasferire il suo rigore, la sua cocciutaggine, nella lotta alla mafia.

Il killer sapeva che ogni mattina, lungo quella strada, l’auto blindata del magistrato, scortata dalla polizia, portava quasi con cronometrica puntualità Carlo Palermo dalla sua abitazione al palazzo di giustizia, un edificio nuovo di vetro e cemento sorto fra case che sembrano seccate dal sole. Un percorso obbligato sulla litoranea, un agguato in corrispondenza di una curva, di fronte a una stradina che si perde verso la montagna. Le auto, in quel punto, sono costrette a rallentare; lì era parcheggiata quella rubata e riempita di esplosivo, messa a ridosso di un muretto, sul lato del mare. Una trappola preparata in tutti i particolari. Continua a leggere