«Cara signora Vecchiottina, non riuscirò mai a eguagliare la sua cocciutaggine»

di Eliana Ribes*

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Eliana Ribes e il marito Silvano Fazi nella Biblioteca Mozzi Borgetti di Macerata dove, il 6 dicembre scorso, hanno presentato il loro libro in dialetto “Per quanti fjuri caccia ‘m prate”. Basato sulle lettere che il nonno di Eliana inviava alla giovane moglie dal fronte della prima guerra mondiale, il libro verrà presentato domenica 18 dicembre alle ore 17 anche nel Teatro comunale di Urbisaglia (Mc).

Cara signora Mariagrazia,

con quanta grazia e leggerezza è passata per il mondo, ma anche con quanta forza e determinazione! L’amore per la vita, l’entusiasmo di fronte alle cose belle, la tenerezza dei sentimenti traspare da tutti i suoi ricordi e dalla realtà presente.

Con tutta sincerità le dico che ho provato un po’ di invidia per tutto l’affetto e le attenzioni che le sono state riservate nell’infanzia, per tutte le cose belle di cui ha goduto durante l’adolescenza e la gioventù, ancor di più per la complicità che riceveva da tutte le donne di casa, addirittura dalla mamma, così aperta e intelligente da capire che i sensi di colpa generano solo insicurezza e frustrazione.

In queste fasi la nostra vita è stata nettamente diversa perché nei paesini delle Marche la vita era tanto più modesta, i genitori più disattenti perché dovevano “tirare a campare” per tutte le lunghe ore della giornata, la mentalità più ristretta, soprattutto nei confronti delle figlie femmine, sempre con l’attenzione rivolta a quello che la gente poteva dire o pensare.

Io ho diciotto anni meno di lei ma ricordo le passeggiate in macchina dei fidanzati con la madre seduta sul sedile posteriore; addirittura al camposanto mi è capitato di vedere i fidanzati avanti con la madre che camminava alcuni passi indietro. Io e il mio ragazzo, per fortuna, avevamo solo la Vespa, e nessun altro poteva salirci, tutto il percorso si svolgeva “allo scoperto”!

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«Quanto abbiamo dovuto combattere, noi, nella nostra infanzia»

di Eliana Ribes*

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Scolaresca delle Elementari con pagliaio, anzi due. Eliana Ribes, in prima fila seconda da destra, in una foto che descrive benissimo il contesto in cui è nata e cresciuta a Urbisaglia, nelle Marche (dal suo diario Facebook)

Cara Paola, volevo “ripassare” il libro di Mariagrazia Sinibaldi prima di esprimere la mia modesta opinione, volevo fare le cose per benino, ma ancora non ci sono riuscita ed allora ti dico semplicemente questo: è un libro vero, piacevole, scritto bene, in cui ti immedesimi a tal punto che rischi di fare gli stessi errori della protagonista.

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La pittrice che smacchiava le lenzuola al sole

Monologo teatrale di Paola Ciccioli

Eleonora Ciccioli, detta Maria, nella fornace Cecchi di Colmurano

Eleonora Ciccioli, detta Maria, nella fornace Cecchi di Colmurano

Non capisco perché vi interessiate a me: io sono niente, la mia vita non ha conosciuto clamori o, come si usa tanto dire adesso, successi. Sono stata una donna povera, una donna qualsiasi. Non ho fatto niente di speciale, ho soltanto e sempre seguito il flusso di quello che mi era stato detto essere buono. E io, quand’ero giovane, l’ho accettato come buono. Anche se ogni tanto, lo confesso, avevo in testa un’idea diversa del buono, del bello, del giusto e dell’ingiusto. Adesso sono una povera vecchia, dopo essere stata per tutta la vita soltanto una povera. Ma ho indossato sempre la miseria (così la chiamavo io) come fosse un titolo onorifico.

Me ne andavo in giro fiera nel mio povero vestito, lo sguardo mai abbassato per la colpa di essere povera. Perché io sono nata in un tempo tanto lontano quando essere poveri era normale. Tutti lo erano. E se potevamo concederci il lusso di un pezzo di legna in più per un minuto di calore in più, ci sentivamo ricchi e temevamo che gli altri ci guardassero con invidia. Bisognava stare attenti a non mostrare segni di “agiatezza”. Io, per esempio. Vi ho mai raccontato…, certo che l’ho fatto.

Maria Ciccioli

Maria Ciccioli

Per la verità, lo confesso, quello che sto per dirvi l’ho ripetuto talmente tante volte nel corso dei miei anni che qualcuno, quand’ero più giovane, mi prendeva perfino un po’ in giro. O sbuffava pensando che non me ne accorgessi. Adesso che sono così vecchia – ma, per favore, chiamatemi anziana che mi piace di più – nessuno si permette di sbuffare o ridere alle mie spalle. Io dico quello che mi pare e mi diverto a pensare che chi mi ascolta sta lì zitto e muto in ossequio ai miei capelli grigi. È la mia rivincita.

Per tanto tempo ho desiderato che qualcuno sprecasse un po’ delle sue giornate con me, lasciandomi l’illusione di interessarsi davvero ai miei ricordi, che potevano uscire dalla mia bocca per ore e ore e riguardare, uno a uno, tutti gli abitanti di questo paese dove sono nata e dove aspetto di morire. Di ognuno saprei disegnarvi l’albero genealogico, elencarvi le tare di famiglia, le colpe degli antenati e, perché no, gli sgarbi commessi a me o a qualcuno che porta il mio stesso cognome. Un cognome che ho sempre, anche questo come il mio titolo di povera, indossato con fierezza, orgoglio, senso di appartenenza. Ma ho perso il filo. Cos’è che vi stavo raccontando? Ah, sì, adesso ricordo. Io ricordo tutto, è la mia condanna. Mi fanno un po’ pena quelli che dimenticano, quelli pronti a liberarsi del passato. Il mio passato è tutto quello che ho: ci mancherebbe che perdessi anche quello.

Ma davvero siete interessati a me? Cos’ho io di speciale? Anche da ragazza, non sono mai stata bella. Vedete queste mani? Queste mie mani larghe e piene di nodi sono il segno della mia fatica. Ho faticato tanto, tanto, tanto. Ho faticato più di un uomo, ero talmente forte che nessuno si stupiva a vedermi competere con i muscoli degli uomini, con le loro spavalderie.

Per tutta la mia giovinezza mi sono alzata che era ancora notte, ho pedalato per chilometri e chilometri quando la fatica di lavorare richiedeva la fatica ulteriore di sciogliere i muscoli per ore prima di arrivare al lavoro. Se ripenso alla mia giovinezza davvero non so spiegarmi dove ho potuto trovare tutta quella forza. Non ero neppure tanto religiosa, dunque non potrei dire che è stato Dio a guidarmi. Andavo in chiesa, sì, come tutti. Ai miei tempi per una donna non andare a messa era come dichiarare pubblicamente una

L’autentica di una foto con la firma del sindaco Guido Forconi

L’autentica di una foto con la firma del sindaco Guido Forconi

privata dissolutezza. Io ci andavo, dicevo le preghiere, come tutti (anzi, come tutte, perché gli uomini rimanevano sempre sulla porta della chiesa e loro potevano anche non seguire la liturgia, mettersi in ginocchio…). Anche al camposanto, quando andavo a piangere davanti alle immagini dei miei genitori, mi concentravo più sull’accostamento dei colori dei fiori che portavo, sempre freschi, sulla loro tomba piuttosto che prestare attenzione a quanto andavo ripetendo nelle litanie ed eterni riposi.

Una volta una signora, una signora vera, una istruita, che era venuta a casa mia perché voleva comprare i mobili della mia famiglia (ma io mica glieli ho veduti), questa signora una volta mi ha detto che io ero un’artista. Un’artista? E di che? Quella signora mi disse che se fossi nata in una famiglia ricca, anziché imparare a rammendare così bene, avrei imparato a dipingere e che di certo sarei diventata una pittrice famosa. Una pittrice io…, che non mi ricordo nemmeno quand’è stata la prima e forse ultima volta che ho tenuto in un mano una matita.

Il fatto è che a me non è mai piaciuto sprecare le cose, buttare via, correre subito a comprare qualcosa di nuovo, di più moderno. Adesso non ho più le forze, ma prima… Prima, è vero, ero capace di fare di tre lisi strofinacci da cucina un nuovo strofinaccio da cucina. Mettevo insieme i pezzi, sapevo usare la macchina da cucire, potevo rifinire con l’uncinetto, oppure ricamare con la lana… E poi mi piaceva tanto tenere tutto pulito, tutto ordinato. Soltanto io sapevo districarmi dentro i miei cassetti, i miei armadi, sugli scaffali, dove sistemavo, seguendo un ordine decrescente di grandezza, le tazze da latte, da tè, da caffè, con i piattini dietro, appoggiati alla parete della credenza, che aveva i vetri sempre perfettamente trasparenti.

Ho vissuto così la mia vita, a faticare e pulire. Ma sapevo anche coltivare fiori, crescere galline, preparare conserve per l’inverno, smacchiare le lenzuola al sole dell’estate. Ero sempre indaffarata, non avevo mai un minuto da sprecare. Ma tutte le donne erano come me, ai miei tempi. Solo che io sono voluta rimanere com’ero. Dicevano che ero antica, che dovevo modernizzarmi. E a me invece le cose moderne non sono mai piaciute. Ho pure buttato il televisore dalla finestra (ma forse quella volta c’erano altri motivi).

Io adesso me ne sto qui, zitta e sola. Mi chiedo perché state qui ad ascoltarmi. Da tanto tempo le donne come me non ci sono più. Mi toccava diventare così vecchia per vedere qualcuno interessato alla mia vita. Non ho fatto niente di speciale. Sono stata una povera donna, una donna povera. I miei genitori mi avevano dato un nome bellissimo e io, siccome mi sembrava troppo speciale, me ne sono data uno più semplice, un nome comune, un nome che si può anche dimenticare: Maria.

Seattle, 1 gennaio 1997

(A zia Maria, con tanto amore e tanta gratitudine)

Paola

AGGIORNATO IL 31 MAGGIO 2018