In Vietnam, alla corte dell’imperatore a cui l’amante spagnolo fece conoscere Gaudì

Testo e foto di Maria Elena Sini

Da oggi, 1° settembre 2019, partiamo per un lungo viaggio intorno al mondo tra città, natura, storia e opere d’arte. È d’obbligo farci guidare da Maria Elena Sini, viaggiatrice per eccellenza di Donne della realtà, che anche oggi stimola la nostra curiosità e la nostra voglia di conoscere con un originale reportage dal Vietnam, Paese dal quale è da poco tornata. Questa è la prima parte, buona lettura.

Dettaglio delle ceramiche che rivestono le pareti del mausoleo dell’imperatore Khai Dinh, penultimo imperatore del Vietnam, nei dintorni di Huè che fu la capitale del Paese asiatico dal 1802 al 1945. Tutte le foto di questo reportage sono state scattate da Maria Elena Sini, che ringraziamo.

Del viaggio in Vietnam porterò con me i colori dei mercati, il profumo dei fiori di frangipane, la sontuosità della natura lussureggiante e il misticismo degli edifici religiosi che nel tumulto della vita moderna ispirano lentezza e contemplazione. Ma non voglio parlare della bellezza di questo Paese e delle tante ragioni per cui merita una visita, in particolare voglio raccontare una storia che mi ha colpito, che affonda le radici nel passato, ma forse è collegata al presente e ai costumi di vita del Vietnam più di quanto si possa immaginare.

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«E con occhi che si aprivano dopo un sogno vide tutta la bellezza intorno a sé»

di Judith C. E. Belinfante*

Una tempera dall’opera “Vita? o Teatro?” di Charlotte Salomon, in mostra al Palazzo Reale di Milano fino al 25 giugno 2017. Collection Jewish Historical Museum, Amsterdam © Charlotte Salomon Foundation Charlotte Salomon®

La giovane artista Charlotte Salomon decise di dipingere la storia della sua vita durante una difficile crisi esistenziale. Nel 1939, all’età di 21 anni, fuggì da Berlino e trovò rifugio presso i nonni materni nel sud della Francia. In meno di due anni, fra il 1940 e il 1942, produsse un’incredibile serie di immagini, costruite con un disegno possente e colori di forte espressività. Mise insieme oltre milletrecento fra tempere, veline, annotazioni musicali, varianti pittoriche e altre prove, creando una sintesi delle arti con elementi appartenenti alla pittura, alla letteratura, alla musica, al teatro, al cinema e al fumetto. Charlotte Salomon concepì Leben? oder Theater? (Vita? o Teatro?) come un Singspiel (ossia un dramma con musica) suddiviso in tre parti, con un prologo, una parte principale e un finale. I personaggi dell’opera sono suoi familiari e amici, ai quali vengono dati nomi immaginari, tanto che la stessa autrice vi compare nelle vesti di Charlotte Kann. Charlotte Salomon interpretò quindi la sua storia biografica fondendo realtà e finzione.

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Anche la fantasia dei bambini fa un tuffo ne “La mer”

di Luca Bartolommei

Uno dei disegni degli alunni di Annalena Manca, insegnante della scuola primaria “Falcone e Borsellino” di Roma

Sono sul treno, sto viaggiando da Montpellier a Perpignan, la Camargue è alle mie spalle. I binari seguono la linea curva, morbida, che disegna il Golfo del Leone. Mare e palude, pioviggina.
Mi viene in mente qualcosa che avevo scritto da ragazzo, ma sì, sì, una poesia sul mare. Bei tempi quelli, non c’era più la guerra, adesso ci siamo dentro un’altra volta.
Il mare è agitato, sembra danzare e cullare i gabbiani,  fermi in aria controvento.
Riflessi cangianti, case arrugginite, canne al vento.
Devo prendere appunti mentre mi godo questa vista meravigliosa, aggiungere qualche emozione nuova, i primi accordi e poi vedremo, stasera voglio provare con il mio pianista.

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«La dittatura ci vietava di scherzare perché ridere era considerato immorale»

di Tefta Matmuja*

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Tefta Matmuja fotografata a Ischia dal compagno Christian. Il racconto che vi proponiamo è una lezione viva sulla storia recente ed è stato presentato da Tefta al workshop internazionale “Immigrazione al femminile e diritto all’educazione”, che si è tenuto a Roma presso il Centro di servizio per il volontariato nel Lazio (tutte le immagini provengono da Facebook)

Parlare del diritto delle donne allo studio, mi porta indietro nel tempo, nel lontano 1985, in Albania, dove vigeva il regime comunista.

Il primo settembre, avevo solo 6 anni, mi ricordo che l’emozione ed il timore, nascosti sotto il grembiule color nero, con il collare bianco e la bandana rossa, in fila in mezzo alle stesse emozioni di tanti che, come me, aspettavano la fine del giuramento recitato dalla migliore studentessa delle classi superiori, dedicato al tanto amato Enver Hoxha, al Partito, alla patria. Tutto questo solo per entrare nel palazzo con tante finestre per prendere un posto nel banco di legno, e poi conoscere il proprio compagno, e la maestra, la nostra seconda mamma. Lei sarebbe stata la nostra guida nel mondo infinito dei libri e del palazzo con tante finestre. Sono iniziati così i miei lunghi anni nel mondo della scuola.

Ogni giorno alle 7,30 della mattina dovevamo trovarci nel cortile della scuola per prepararci ad entrare in classe. Tutti sempre in fila per due entravamo: prima i più piccoli e poi via via i più grandi fino agli studenti delle ultime classi. Un ritardo comportava una punizione come dover fare una corsa girando la scuola per tre volte. La vivevamo tutti come umiliazione. Anzi, tutti, con i loro sguardi, ti facevano sentire colpevole ed umiliata allo stesso tempo.

Entrati in classe, si preparava il libro della prima lezione, e non appena bussava alla porta la maestra, ci alzavamo in piedi per darle il buongiorno in coro tutti quanti.

E passavano così le quattro ore ogni giorno, da lunedì a sabato.

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«Vengo dal Sud, so da che parte stare»

di Paola Ciccioli

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Vanessa Scalera in “Lea” di Marco Tullio Giordana, che racconta la tragica storia della testimone di giustizia Lea Garofalo, vittima della ‘ndrangheta

Sul suo profilo Facebook ha condiviso la foto dei soccorritori della tragedia dei treni di Corato e un articolo di cui mi hanno colpito queste parole:

«Serve sangue, i pugliesi sono generosi, serve sangue, ma non basterà per quanto ne è stato versato. Noi pugliesi siamo brava gente, senza TAV, senza grandi insediamenti che garantiscono salario e reddito, tolta l’ILVA di Taranto: altro ferro, altra puzza, altra morte».

Qualche ora prima aveva postato la schermata di Televideo con l’appello a medici e donatori «per fronteggiare la sciagura ferroviaria nel Nord Barese».

Bisogna scorrere giù, più in basso, per leggere che i giornali francesi stanno usando per lei, l’attrice Vanessa Scalera, aggettivi da far girare la testa e che la sua interpretazione di Lea Garofalo nel film “Lea” di Marco Tullio Giordana è impressionnante.

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Gina, che ha partorito storie di cortili e di «donne fedeli al marito come a un elettrodomestico che non si cambia»

 di Alba L’Astorina

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Gina Marpillero: «Qui avevo 15, 16 anni. L’acqua la prendevo sul serio, non per posa, e le gambe le tenevo così perché ho sempre capito di averle un po’ stortine. Lo sfondo è la stalla con il fienile e l’orto dove la neve rimaneva fino a primavera perché non batteva mai il sole». In prima persona, a sottolineare una presenza ancora viva, le didascalie alle belle foto che Alba L’Astorina ha avuto dai figli della scrittrice friulana alla quale è dedicata una mostra a Milano

Eravamo solo in quattro lunedì scorso, al Circolo Filologico Milanese, a vedere la mostra fotografico-letteraria che Milano dedica in questi giorni alla scrittrice friulana Gina Marpillero: io, Bruna, Flora e Adriana. Eppure è stato come se per alcune ore in quella stanza, la bellissima sala liberty del palazzo ottocentesco di via Clerici 10, si fossero incrociati i destini e le storie di tante persone, vissute in tempi e spazi diversi, sullo sfondo di Guerre Grandi e piccole battaglie quotidiane. Madri friulane e napoletane in eterno dialogo con le proprie figlie, padri sfollati al nord o al sud, nonni spaesati nei confini ridisegnati dai nuovi imperi, fratelli persi al fronte o dentro i labirinti della propria mente. Nelle orecchie, una lingua materna, quella friulana, appresa e abbandonata da piccola, poi riemersa da chissà quale remoto angolo del proprio esistere grazie ad una poesia mormorata a voce alta, poi spezzata. E, nelle narici, odore di carta, di legno, di inchiostro…

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«Dimmi, babbo, cos’è il razzismo?»

di Tahar Ben Jelloun*

Tahar Ben Jelloun è tra gli scrittori presenti a La Milanesiana 2019 (http://www.lamilanesiana.eu/)

Il razzismo esiste ovunque vivano gli uomini. Non c’è nessun paese che possa pretendere che non ci sia razzismo in casa sua. Il razzismo è nell’uomo. È meglio saperlo e imparare a respingerlo, a rifiutarlo. Bisogna controllare la propria natura e dirsi: “Se ho paura dello straniero, anche lui avrà paura di me”. Si è sempre lo straniero di qualcuno. Imparare a vivere insieme, è questo il modo di lottare contro il razzismo.

Ma babbo, io non voglio imparare a vivere con Céline, che è cattiva, ladra e bugiarda…

– Tu esageri. È troppo per una ragazzina della tua età!

– Lei è cattiva con Abdou. Non vuole sedersi vicino a lui in classe, e dice cose spiacevoli sui negri.

– I genitori di Céline hanno dimenticato di darle una buona educazione. Forse loro stessi non sono beneducati. Ma non bisogna comportarsi con lei come fa lei con Abdou. Bisogna parlarle, spiegarle perché ha torto.

– Da sola, non ci riuscirò.

– Chiedi alla maestra di discutere del problema in classe. Sai, bambina mia, è soprattutto con i bambini che si può intervenire per correggere il modo di comportarsi. Con le persone grandi, è più difficile.

– Perché, babbo?

– Perché un bambino non nasce con il razzismo nella testa. Per lo più un bambino ripete quello che dicono i suoi parenti, più o meno prossimi. Con assoluta naturalezza un bambino gioca con gli altri bambini. Non si pone il problema se quel bambino africano è inferiore o superiore a lui. Per lui è prima di tutto un compagno di giochi. Possono andare d’accordo o litigare. È normale. Ma non ha niente a che vedere con il colore della pelle. Per contro, se i suoi genitori lo mettono in guardia contro i bambini di colore, allora, forse, si comporterà in un altro modo.

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“Kader e Fatimà costretti ad andarsene dalla diffidenza”

di Mariagrazia Sinibaldi

“La Ciociara” di Vittorio De Sica. Questa immagine simbolizza gli stereotipi sui nordafricani con cui i domestici marocchini di Mariagrazia dovettero fare i conti.

Gentile signora Adele,

la ringrazio delle domande che mi fa a proposito di quanto ho raccontato sui nostri “schiavi d’amore”, perché oltretutto mi danno l’opportunità di spiegare anche a chi possa avere le sue stesse perplessità.

Kader e Fatimà andarono in Francia perché questo era (ed è tuttora) un Paese con una solida esperienza di colonie e di immigrazione, nel quale la parola Marocco non evocava alcun ricordo negativo come in Italia, dove questo civilissimo Paese veniva ricordato per gli stupri effettuati dalle truppe franco/marocchine nel 1944: e solo per questo Continua a leggere

Kader e Fatima: i nostri “schiavi d’amore”. Dal Marocco a Osimo (e ritorno)

di Mariagrazia Sinibaldi

Kader e Fatimà

Kader e Fatima

Abdelkader ben Abdallah: sembra il nome di un principe del deserto, pensammo noi quando arrivammo in Marocco. Il “ben” vuol dire “figlio di” e quindi nulla di strano.

E la moglie, Fatima, ma lei contava poco, nemmeno il “ben”. Era una donna, due passi dietro all’uomo, chiunque egli fosse.

Questi erano i nomi per esteso di quelli che oggi si chiamano “collaboratori domestici”, che lì si chiamavano “servi” e che noi, con infinito affetto, avevamo soprannominato “schiavi d’amore”; perché amore era quello che alla fine ci legava a loro e loro a noi.

Lui aveva una espressione sempre, seria («truce», diceva mio marito). Perché era un uomo e doveva dimostrare di essere “uomo serio”; parlava e scriveva arabo e francese. Oh dio, diciamoci la verità, il suo francese era veramente raffazzonato, ma noi ci capivamo lo stesso. Il guaio fu che alla fine il mio francese, così fluente e letterario all’inizio, era diventato… come dire? Tout à fait Kaderien. Continua a leggere

Francia, minacce e attacchi informatici contro la deputata paladina degli armeni

Valérie Boyer, principale promotrice della legge che rende reato la negazione del genocidio compiuto dalla Turchia, ha ricevuto intimidazioni sul suo sito e via e-mail. “Mi vogliono intimidire”. La legge ha spaccato l’assemblea nazionale e causato uno scontro diplomatico con Ankara

dal nostro inviato Anais Ginori

PARIGI – Eroina per gli uni, nemica per gli altri. C’è una donna in mezzo alla disputa di questi giorni tra Parigi e Ankara. Valérie Boyer, 49 anni, deputata dell’Ump, il partito di Sarkozy, si è svegliata nel giorno di Natale con il suo sito personale oscurato. Collegandosi Continua a leggere

In Francia la sinistra che vince ha il volto di tre donne

La socialista, la verde e la comunista ecco le donne che fanno tremare l’Eliseo

da Repubblica del 22 marzo 2010

PARIGI – La sinistra che vince ha il volto di tre donne: Martine Aubry, Cécile Duflot, Marie-George Buffet. Una socialista, una verde, una comunista. Forse è un caso, forse no, ma la realtà è questa: la “gauche” vittoriosa alle regionali s’ incarna al femminile. Niente veline, niente corpi esposti più o meno maliziosamente e niente femminismo. Le tre fanno come se fosse normale che alla guida delle tre formazioni ci sia una donna. Ma è normale solo sulla carta: a parte l’ eccezione notevole di Angela Merkel, la politica occidentale resta dominata dagli uomini, perlomeno nei grandi Paesi e in particolare in quelli latini. Continua a leggere

dal blog PARIGI BRUCIA? di Giacomo Leso – Mondino e la donna merce

Censurata in Francia la donna merce di Mondino

Una censura che deve far riflettere. La “donna merce” del fotografo Jean-Baptiste Mondino, presentata, nuda, in un carrello da supermercato, in un manifesto per il concerto del cantante Damien Saez, è stata censurata in Francia perché l’immagine è stata considerata come “degradante per la donna”. Continua a leggere