«Alla popolazione del Vietnam unito. Avevo torto. Perdonatemi»

di Maria Elena Sini

In questo modellino i Cu Chi tunnels, la complessa ed estesissima rete sotterranea nella quale i Vietcong si rifugiavano e organizzavano le azioni di guerriglia contro l’esercito americano. È tra i luoghi della storia più visitati del mondo e Maria Elena Sini, che ci è stata da poco, ce ne parla in questo reportage (immagine da https://vietnamnews.vn/travel/travellers-notes/466589/cu-chi-tunnels-named-among-top-7-underground-destinations.html#QZwe0vy5UIydK4oE.97)

Dopo la visita alla reggia-mausoleo di Khai Dinh, il penultrimo imperatore del Vietnam, Maria Elena Sini ci guida nel Museo dei residuati bellici di Ho Chi Minh City e nel labirinto dei Cu Chi tunnels, la fortezza sotterranea dove fu organizzata la resistenza contro gli Stati Uniti.

Una visita in Vietnam, per una persona della mia generazione, cresciuta nell’epoca delle manifestazioni contro la guerra, nutrita da film come Il Cacciatore, Full Metal Jacket, Apocalypse Now, Platoon non può prescindere da un approfondimento sulla guerra che funestò questo paese per più di dieci anni. I vietnamiti da tempo hanno smesso di coltivare risentimento verso gli antichi nemici che sterminarono tre milioni di compatrioti.

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In volo verso New York, alle prese con una folla di rabbini

di Adele Colacino*

ny-annalisa

I colori della notte di New YorK City in una foto firmata Annalisa Mongili. Per noi la metropoli statunitense è, e resterà, un luogo del cuore

Sono pigre le mie giornate d’estate, passano lente senza orologio e senza calendario. C’è sempre qualcuno intorno che, parlando o muovendosi, ti dà idea del tempo che passa, le uscite, i rientri, il ritiro dei rifiuti, gli odori di cucina che si spandono nel villaggio.

Sono in giardino a leggere quando sento la voce della mia amica Carmen che, come al suo solito, chiama appena scende dall’auto. Lei non suona, non bussa, nelle case al mare si vive fuori e basta chiamare per annunciarsi. Chiacchieriamo un po’ e poi lei se ne viene fuori con un: «a novembre vado a New York».

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Margaret e le artiste che sanno uscire dall’ombra con la magia dell’originalità

di Maria Elena Sini

Maria Elena, foto 1

I “Big Eyes” della pittrice americana Margaret Ulbrich sono stati celebrati al cinema da Tim Burton

“Big Eyes” è un film di Tim Burton che racconta la vera storia di Margaret Ulbrich, una giovane donna senza soldi, che dipinge per passione e per necessità quadretti semicaricaturali di bambini dagli occhi smodatamente grandi. Opere intrise di sentimentalismo e di un gusto kitsch, non sempre apprezzate dalla critica, ma che raggiungeranno un enorme e inaspettato successo quando a commercializzarle sarà Walter Keane, secondo marito di Margaret, che spacciò i quadri della moglie per propri, per quasi un decennio.

In un’epoca, a cavallo tra gli Anni Cinquanta e i Sessanta, in cui l’arte femminile non era presa in seria considerazione, Walter, prima quasi per caso e poi con metodo e ostinazione, si attribuisce la paternità di quelle tele costringendo la moglie all’invisibilità, oltre che a una vera superproduzione, mentre lui inondava il mercato di bambine dagli enormi occhi tristi. Il film è ben fatto ma non è un capolavoro, quindi non mi soffermo sulle caratteristiche tecniche dell’opera, sull’interpretazione degli attori o sulla ricostruzione dell’epoca, mi interessa invece riflettere su alcune considerazioni che il film mi ha suscitato.

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Senza casa né amore non si è più niente

di Sabina Guzzanti

locandina

“Draquila. L’Italia che trema” è un documentario del 2010 prodotto, sceneggiato e diretto da Sabina Guzzanti (http://www.sabinaguzzanti.it/)

«Senza casa né amore né poesia ahimé non si è più niente». Così ha scritto Sabina Guzzanti nell’articolo apparso su Il Fatto Quotidiano (ve lo riproponiamo integralmente) a proposito della sua inchiesta sulla tragedia del terremoto dell’Aquila, diventata un film, Draquila.

Cari lettori del Fatto – come si dice target del mio stesso target – scrivo qui per annunciarvi personalmente che Draquila è pronto e vi attende nelle sale.

Dura un’ora e mezza ed è la sintesi di un anno di lavoro iniziato a maggio dell’anno scorso, quando mi sono arrivate all’orecchio strane voci su quello che stava succedendo nella zona terremotata. Ho fatto un po’ di ricerche, ho aspettato che passasse il G8 e sono partita. Dopo aver parlato con tanti cittadini mi è sembrato che L’Aquila fosse una porzione di realtà ideale per raccontare l’Italia di oggi. C’erano tutti gli elementi: la speculazione più cinica, l’assenza della politica, la propaganda sempre più spudorata, l’autoritarismo, la corruzione e l’alito della criminalità organizzata. Ho mollato quello che stavo facendo e ho cominciato a girare con una piccola troupe fatta di cinque persone, me compresa. Siamo stati a L’Aquila tantissime volte da luglio a marzo e abbiamo girato più di 700 ore di materiale.

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