Nella trasformazione la linfa della bellezza

di Hermann Hesse*

A Montagnola, in Canton Ticino (Svizzera), fino al 2 febbraio 2020 resterà aperta una mostra sul «lunghissimo rapporto di amicizia che legò Theodor Heuss e Hermann Hesse dai primi contatti professionali, avviati quando entrambi erano due giovani cultori della letteratura, agli ultimi anni della loro carriera, che videro il primo insignito del Premio Nobel e l’altro eletto alla carica di Presidente della Repubblica Federale Tedesca». 

Scritta e da lui stesso illustrata nel 1922 per la cantante mozartiana Ruth Wenger, che sarebbe poi diventata la sua seconda moglie, la “Favola d’amore” rappresenta anche la rinascita come uomo e artista di Hermann Hesse dopo un lungo periodo di silenzio creativo e crisi personale. (La foto è di Paola Ciccioli)

Appena giunto in paradiso Pictor si trovò dinnanzi ad un albero che era insieme uomo e donna. Pictor salutò l’albero con riverenza e chiese: «Sei tu l’albero della vita?». Ma quando, invece dell’albero, volle rispondergli il serpente, egli si voltò e andò oltre. Era tutt’occhi, ogni cosa gli piaceva moltissimo. Sentiva chiaramente di trovarsi nella patria e alla fonte della vita.

E di nuovo vide un albero, che era insieme sole luna.

Pictor chiese: «Sei tu l’albero della vita?».

Continua a leggere

Il cuore grigio di chi non ama

di Gianni Rodari

Una bambina legge ad alta voce una filastrocca di Gianni Rodari in piazza Matteotti, a Cernusco sul Naviglio. Nella bella cittadina vicinissima a Milano, la locale sezione Anpi il 22 giugno scorso ha invitato chi crede nella democrazia e nei valori della solidarietà e del rispetto umano a leggere pubblicamente un brano da un libro amato. Tutte le pagine proposte in piazza sono entrate a far parte della libreria virtuale “Bella Ciao”. C’era tanta gente e tra questa bella gente anche le piccole Adelaide e Irene che hanno proposto Gianni Rodari. Per Donne della realtà ha partecipato Paola Ciccioli che ha anche scattato questa foto.

Continua a leggere

Selfie in bianco e nero

Un racconto di Anna d’Andrea*

Questo non è un selfie ma un’opera di Liliana Porter: “Forty Years (self portrait with square 1973) (2013)”. Il suo sorriso in bianco e nero sul tempo che passa e ci cambia ci è sembrata l’immagine giusta per illustrare la prima parte di questo intenso racconto di Anna d’Andrea. Su Liliana Porter torneremo, intanto ricordiamo che è nata a Buenos Aires nel 1941, che vive a New York e che è presente alla Biennale Arte di Venezia 2017 nel Padiglione del Tempo e dell’Infinito (https://www.youtube.com/watch?v=3oBsLvGN1D8)

«Fulmineo precipita il frutto di giovinezza»

(Mimnermo)

Il riverbero del sole sull’acqua mi abbaglia, nell’aria infuocata del tramonto percorro il ponte quasi di corsa, in mezzo alla calca di turisti e sfaccendati, trascinandomi dietro l’incolpevole Gi che, per fortuna, è avvezza alle mie bizzarrie.

Continua a leggere

Canzone per Rita

di Erica Sai

canzone

L’immagine è tratta dal video di “Canzone” di Lucio Dalla, citata da Erica Sai in questo ricordo familiare di Rita Barozzi, morta tre giorni fa a 102 anni (il brano è contenuto nell’album “Canzoni” del 1996)

Rita è morta. Poco fa, sì. Aveva 102 anni, quasi 103 perché li avrebbe compiuti all’inizio di maggio; il 4 per la precisione, proprio come Lukas (il mio quasi nipotino) che invece ne farà due. Non ero lì, però secondo me è morta come è vissuta: senza “disturbare”.

Rita era una parente dal mio ramo paterno, cugina di mio nonno Valente; il nonno che non ho conosciuto perché è morto troppo presto, troppo anche per mio papà che era solo un bambino. È stata madrina di battesimo di mio papà, per quanto ne so in passato erano stati tenuti abbastanza vivi i rapporti con mia nonna che raccontava qualche episodio. A quei tempi c’era anche Livia, una cugina che ha vissuto tutta la vita con Rita e che molti anni fa ha iniziato ad ammalarsi. Comunque, mia nonna non aveva un gran bel carattere, mal sopportava le pesantezze caratteriali di Livia, e non era una persona molto predisposta a tirare per le lunghe le relazioni di aiuto. È stata mia mamma ad entrare nella dinamica e prestare la sua mano. Con la spesa al supermercato, poi con i medici, con l’assistenza in generale. Da decenni possiamo ormai dire.

Continua a leggere

«Ecco cosa mi ha fatto diventare un’orgogliosa infermiera»

di Maria Grazia Iannone

Maria Grazia Iannone in una foto del 2014 insieme con la specialissima nonna Clelia (dal suo diario Facebook). L’autrice di questo post è infermiera di famiglia e di comunità oltre che esperta di cure palliative. Contagiata in forma lieve dal Corona Virus, ne ha scritto per il nostro blog e anche di questo la ringraziamo

Buongiorno a tutti, mi presento: sono Maria Grazia Iannone. Ho 27 anni e sono un’orgogliosa infermiera che assiste a casa gli invalidi al 100 per cento, ovvero coloro a cui il Sistema sanitario nazionale riconosce il diritto di prestazioni sanitarie domiciliari gratuite.

Continua a leggere

“È come vivere ancora. La vera signora del blog”

di Paola Ciccioli

mariagrazia

Mariagrazia Sinibaldi in un ritratto del figlio Francesco Cianciotta. Con lei l’inseparabile computer e, ora, anche il suo libro che raccoglie una selezione ragionata dei post pubblicati su questo blog

«Siamo due viaggiatrici o no?», mia domanda. «Ok» di risposta con tre coccinelle beneauguranti a colorare il messaggio. Dunque, partiamo (a dio piacendo). Per dove? Per la prima presentazione ufficiale di “È come vivere ancora”, il primo libro di Mariagrazia Sinibaldi, che è anche la prima creatura dell’Associazione Donne della realtà (che non ha neppure compiuto il suo primo anno di vita). Porterà bene questa serie di “primo”, “prima”? Ce lo auguriamo, ovviamente. Ma credo che le tre coccinelle abbiano già fatto un discreto lavoro.

Continua a leggere

Gay Pride, c’è sempre una prima volta (anche per Varese)

di Erica Sai

Varese Pride 3

Sabato 18 giugno: un abbraccio che vale più di mille proclami al primo Gay Pride di Varese. La nostra Erica Sai ha partecipato alla manifestazione perché, come giustamente sottolinea in questa sua riflessione, i diritti riguardano tutti, indipendentemente dall’orientamento sessuale di ciascuno di noi (foto dalla pagina Facebook di Varese Pride)

Le bandiere arcobaleno sventolano qua e là. Spicca una bandiera della Sardegna, solitaria. Non manca mai una bandiera sarda quando c’è l’occasione per portarla in giro. Un fiume di persone per il primo Varese Pride, un concentrato di colori che si snoda a dipingere le vie della città. Una sveglia per Varese, che suona a squilli decisi; un movimento nuovo per questo luogo talvolta troppo grigio, troppo conservatore di quel conservatorismo che finge di non vedere, che vuol convincersi che alcune cose non esistano voltando lo sguardo.

Continua a leggere

Ebe e la Vespa, una storia d’amore

di Mario Chiodetti

Chiodetti 1

Mario Chiodetti sulla “sua” Vespa. Lo ringraziamo per averci affidato questa bellissima dichiarazione d’amore nei confronti della sua “mamma in Vespa”

La prima Vespa di mia mamma fu una 125 “faro basso” del 1952, di quel verde acido metallizzato che faceva pensare a un coleottero, una grossa cetonia ronzante con un manubrio quasi da bicicletta a sostituire le antenne. L’acquistò a Gavirate, dall’Ossola, uno dei primi rivenditori Piaggio del circondario, che dopo tante Guzzi vendute si era incaponito a puntare su quella strana motoretta con le ruote come le gambe di Charlot, progettata da uno che si intendeva di aeroplani e avrebbe rivoluzionato il modo di muoversi dell’italiano nel dopoguerra.

A mamma luccicavano gli occhi quando parlava della sua prima Vespa, che noi bambini non vedemmo mai se non in qualche vecchia fotografia, perché fu venduta prima del matrimonio, come il “Galletto” di papà, che in quel 1958 già viaggiava in “Topolino”. La mamma in Vespa per noi manteneva un’aura di leggenda, conoscevamo le sue imprese dai racconti, sapevamo che si era spinta anche molto lontano da Varese, a volte era andata perfino al mare, in Liguria, facendo qualche tappa e scollinando dal Passo dei Giovi.

Chiodetti (ancora mamma)

Ebe Rosa-Brusin, giovane e deliziosa, in sella alla Vespa 125 faro basso

Con lei c’era spesso l’amica Jolanda, le univa la voglia di libertà e di emancipazione, in quegli anni ’50 di grande energia e voglia di crescere. La mamma leggeva le “Meduse” di Maugham e Daphne du Maurier, ascoltava il Duo Fasano e Achille Togliani, si faceva cucire vestitini a pois dalla Olga, lavorava alla Banca d’Italia e la domenica si metteva il caschetto di pelle e volava, a settanta l’ora, sulle strade ancora impolverate della periferia, fino a vedere il mare.

La Jolanda la conosceva dalle elementari, poi avevano frequentato le magistrali, fatto le adunate delle Piccole Italiane con flessioni e coreografie con cerchi e nastri, quindi un po’ di università: filosofia mamma, l’Isef la Jolanda, che sarebbe diventata l’incubo delle ragazze del ’68 come insegnante di ginnastica al liceo classico di Varese. L’impiego in banca però era più allettante, così la Ebe abbandonò la Statale e prese la strada del grembiule nero e degli occhiali da cat woman, allora di gran moda, e io bambino, la manina in quella nodosa di mio nonno, andavo ad aspettarla all’uscita del vasto edificio in pietra scura che pareva una cassaforte.

Continua a leggere

Lo sguardo di un’appassionata d’arte sulle città colorate di Domenico David

Testo e foto di Laura Bartolommei*

Laura, foto 3

Il Colosseo di Domenico David

“Ceci n’est pas…”: il titolo della personale di Domenico David alla Galleria d’arte San Barnaba di Milano rimanda alla celebre serie di quadri di René Magritte Ceci n’est pas une pipe, manifesto della decontestualizzazione dell’opera d’arte, della messa in discussione dell’illusionismo pittorico.

Così Domenico David, mentre si avvicina maggiormente, rispetto ai suoi lavori precedenti, ad una rappresentazione mimetica del reale (i protagonisti delle tele sono immediatamente riconoscibili in quanto monumenti simbolo delle nostre città), vuole avvertire lo spettatore: “questa non è la realtà”.

Continua a leggere

La poesia, i colori dei sentimenti e il “sovvertimento d’amore”

di Giuseppe Porzi*

Cara Paola

in ritardo, lo so: come un tipico treno italiano 
Ho letto paolam e non so che dire. Non in senso krausiano (1), ma semplicemente perché – come dire? – l’intervento basta a se stesso. Aggiungo, per te, solo una modesta nota. “Nero” non è una connotazione e nemmeno una condizione. Non è neanche un colore, ma la somma di tutti  i colori. In un certo senso è il loro sovvertimento. Nero qui è bellezza; anzi, il sovvertimento della bellezza “candida come un’aurora”. È anche l’amore, sovvertimento di sentimenti e di ruoli, che fa essere Marino felice “servo di chi mi è serva”, dimentico delle stratificazioni sociali.
E chiudo. Ogni sentimento va coltivato, anche l’amore. Soprattutto quando fa soffrire.  Forse è questo che manca: una pedagogia dei sentimenti. Si risparmierebbero tante tragedie.

Ti abbraccio.

* La pubblicazione sul nostro blog del “Cantico dei cantici” continua a produrre i suoi benefici effetti. L’amico scrittore Giuseppe Porzi, dopo averlo riletto qui, mi aveva mandato la poesia di Giovan Battista Marino “La bella schiava” e l’amica archeologa Paola Mazzei ha lasciato i suoi interessanti commenti (andate a vederli!).

Continua a leggere

Storia di una foto nella Milano in rosso

Paola Ciccioli dopo il funerale di Franca Rame (foto di Sandro Bizzarri)

Paola Ciccioli dopo il funerale di Franca Rame (foto di Sandro Bizzarri)

di Paola Ciccioli

Questa foto ha una storia che vuole essere raccontata.

Venerdì 31 maggio, intorno all’una, davanti al Teatro Strehler di Milano. La commemorazione di Franca Rame è finita ma ci sono ancora capannelli che commentano, discutono, ricordano. Sulla facciata del teatro una grande immagine verticale dell’attrice che quasi sfiora una pedana in metallo su cui sono adagiati mazzi e mazzi di fiori. Alcune donne estraggono dal cellophane una rosa per portarla a casa, in memoria di un addio e un giorno in rosso. Mi avvicino, sono tentata di fare la stessa cosa, ma mi chiedo se sia giusto, se sia corretto.

Avevo un appuntamento alle 11, l’ora in cui Dario Fo ha tessuto un merletto di parole, forse le sue migliori, per lasciar andare la moglie. Sono arrivata che l’ufficialità era archiviata ma mi piace così, mi piace di più. Del resto, con Alba eravamo passate dal Piccolo a notte fonda per salutare questa donna, tutte e due abbiamo più di un debito di riconoscenza nei suoi confronti. Un debito antico, degli anni dell’università – lei a Napoli, io a Urbino – quando andavamo a vedere i “loro” spettacoli – di Dario Fo e di Franca Rame – per imparare, per crescere, per credere. Per fare la nostra parte. Eravamo ignare l’una dell’altra, sono state Milano e i nostri valori che sono corsi paralleli a unirci nel sentimento della condivisione.

Continua a leggere