Marì, che “scasettava” e faceva ridere le donne con gli stornelli

di Anna Caltagirone

Quasi quattro anni fa, intorno ai suoi 90 anni, Anna Caltagirone ha iniziato a scrivere (e questo blog a pubblicare) il racconto della propria vita: l’infanzia in Sicilia, la perdita del padre ferroviere, gli studi magistrali interrotti e la fuga da Palermo durante la seconda guerra mondiale, l’arrivo a Cupra Marittima superando la paura dei bombardamenti, il diploma di maestra, il suo primo incarico nel 1950 come insegnante di ruolo in una “scuoletta” di montagna a San Severino Marche, l’incontro con l’uomo così bello da sembrare un attore che avrebbe sposato, i tre figli, il trasferimento nella frazione Convento di Urbisaglia, in provincia di Macerata, e i riti e le amicizie di un modo di essere comunità ormai scomparso. 

L’esistenza di una donna che è anche la Storia d’Italia oggi si arricchisce di un nuovo volto, di un nuovo racconto. Tutti gli altri li trovate elencati e consultabili in coda al post. (p.c.)

Marì de Cioci in un bel ritratto custodito dalla Biblioteca di Urbisaglia, con un grazie ad Alberto Antinori per la collaborazione

Marì de Cioci era una vecchietta smilza e arzilla. Abitava in paese e a casa non ci stava quasi mai perché amava scasettare. La conoscevano tutti e le davano da dire perché sapevano che aveva sempre la risposta pronta. Se era di buon umore, attaccava discorso e rispondeva a tono, altrimenti non ci pensava due volte a mandarti in quel paese.

Continua a leggere

Ci vediamo in piazza delle filandaie

Com’era mia madre quando lavorava in filanda? Come si vestiva quando affrontava quella salita ripida che portava allo stabilimento? Come si proteggeva dal freddo? Di cosa parlava con le sue amiche? Come raccoglieva i capelli? Quante volte l’hanno umiliata? E anche lei è stata insidiata dal padrone e aggredita dalla sua prepotenza? Mi porto dentro queste domande da che sono al mondo perché in casa mia la parola “filanda” è stata sempre pronunciata: da mia madre, da sua sorella, da nonna, dall’altra zia, da tante e tante donne del paese. Una parola ripetuta a testa alta nonostante l’infinita durezza del lavoro di filare la seta. Che ha dato però a mamma, nonna, zie e loro amiche la consapevolezza di aver fatto tanto e più degli uomini per campare onestamente.

Il brano che segue è tratto dal libro E lee la va in filanda. Donne e bambine al lavoro nei setifici cernuchesi tra ‘800 e ‘900, scritto da Serena Perego e pubblicato dal Comune di Cernusco sul Naviglio, cittadina vicina a Milano dove lunghe file di gelsi continuano a testimoniare quanto fosse importante l’industria serica in questo spicchio di Lombardia. Tanto che una delle sette ex filande è diventata un centro culturale e per accedervi bisogna percorrere via delle filerine. Ecco: quel che desidero è che anche a Urbisaglia, il paese marchigiano in cui sono nata e dove ho raccolto i ricordi delle “mie” filandaie, un angolo possa portare per sempre il nome di quelle bambine, ragazze, giovani madri costrette a tenere per ore e ore le mani nell’acqua bollente per estrarre il filo dal bozzolo. In ricordo di quelle operaie povere e splendenti di orgoglio che scacciavano il dolore pregando ma, soprattutto, cantando.  (Paola Ciccioli)

Continua a leggere

«Mia cara donnina, pensi di amarmi in un altro modo o di continuare a essere quella cara somara che sei»?

di Pablo Neruda*

intramuros_n09_a08_i01.jpg

Albertina Rosa e Pablo Neruda. La lettera che pubblichiamo è tratta da “Pablo Neruda. Lettere d’amore ad Albertina Rosa”, libro di una collana edita dal Corriere della sera e dedicata agli epistolari di 20 grandi poete/i, scrittrici/scrittori

Mia cara donnina, questa settimana non ti ho scritto, forse perché non so cosa dirti. L’ho passata in camera mia a leggere, a fumare, a dormire e a cantare, salutando con grandi riverenze un tuo nuovo ritratto che ho messo sul mio comodino, accanto al letto. È l’ingrandimento di quello che mi sono portato qui, e sei bella, con il tuo fazzoletto al collo e gli occhi tristi che amo. Rubén insiste molto perché lo raggiunga, ma cosa ci vado a fare se tu non ci sei? Ad ogni modo, penso di andare da lui in ottobre, o all’inizio di novembre, se la mia maledetta malattia me lo permette. Passerò a trovarti un’altra volta, può darsi che questo mio viaggio non sia sfortunato come il precedente. Dimmi qualcos’altro della tua vita, parlami diversamente delle tue cose, come ti ho chiesto, più nel dettaglio, con più serenità di esposizione. Avrò letto mille volte le tue lettere di una pagina in cui ti limiti a comunicarmi di aver ricevuto le mie, a ringraziarmi da lontano per una rivista che ti ho mandato, senza neanche nominare i versi pieni di affetto che ci scrivo per te, e questo, mia piccola, mia dolce, e buona Netocha, distrae il mio cuore da te, mio malgrado.

Continua a leggere