«Eravamo come due cavalli che galoppano fianco a fianco»

di Anna Bikont e Joanna Szczęsna

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La poetessa Premio Nobel Wisława Szymborska con lo scrittore Kornel Filipowicz al quale è stata legata ventitré anni. La foto è stata scattata da un’altra poetessa polacca (della quale potete leggere in questo blog “L’esame”), Ewa Lipska, ed è tratta dal sito http://www.wysokieobcasy.pl/

Ewa Lipska ci ha raccontato che la notte di San Silvestro del 1989 Filipowicz e la Szymborska erano andati a casa sua e insieme avevano giocato a Scarabeo:

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Margaret e le artiste che sanno uscire dall’ombra con la magia dell’originalità

di Maria Elena Sini

Maria Elena, foto 1

I “Big Eyes” della pittrice americana Margaret Ulbrich sono stati celebrati al cinema da Tim Burton

“Big Eyes” è un film di Tim Burton che racconta la vera storia di Margaret Ulbrich, una giovane donna senza soldi, che dipinge per passione e per necessità quadretti semicaricaturali di bambini dagli occhi smodatamente grandi. Opere intrise di sentimentalismo e di un gusto kitsch, non sempre apprezzate dalla critica, ma che raggiungeranno un enorme e inaspettato successo quando a commercializzarle sarà Walter Keane, secondo marito di Margaret, che spacciò i quadri della moglie per propri, per quasi un decennio.

In un’epoca, a cavallo tra gli Anni Cinquanta e i Sessanta, in cui l’arte femminile non era presa in seria considerazione, Walter, prima quasi per caso e poi con metodo e ostinazione, si attribuisce la paternità di quelle tele costringendo la moglie all’invisibilità, oltre che a una vera superproduzione, mentre lui inondava il mercato di bambine dagli enormi occhi tristi. Il film è ben fatto ma non è un capolavoro, quindi non mi soffermo sulle caratteristiche tecniche dell’opera, sull’interpretazione degli attori o sulla ricostruzione dell’epoca, mi interessa invece riflettere su alcune considerazioni che il film mi ha suscitato.

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«Da quando hanno assassinato Leone, la città illuminata è degli altri»

di Angela Giannitrapani

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Natalia Ginzburg, giovanissima, con il marito Leone. L’immagine è tratta da http://lanostrastoria.corriere.it/2009/05/08/carlo_ginzburg_mio_padre_leone/

MEMORIA

Gli uomini vanno e vengono per le strade della città.
Comprano cibi e giornali, muovono a imprese diverse.
Hanno roseo il viso, labbra vivide e piene.
Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso,
ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto.
Ma era l’ultima volta. Era il viso consueto,
solo un poco più stanco. E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe erano quelle di sempre. E le mani eran quelle
che spezzavano il pane e versavano il vino.
Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo
a guardare il suo viso per l’ultima volta.
Se cammini per strada nessuno ti è accanto,
se hai paura nessuno ti prende la mano.
E non è tua la strada, non è tua la città.
Non è tua la città illuminata: la città illuminata è degli altri,
degli uomini che vanno e vengono, comprando cibi e giornali.
Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra,
e guardare in silenzio il giardino nel buio.
Allora quando piangevi c’era la sua voce serena;
allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso.
ma il cancello che a sera s’apriva resterà chiuso per sempre;
e deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa.

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Natalia Levi Ginzburg (Palermo 1916 – Roma 1991) «La sua vita ha attraversato eventi storici difficili, pesantissime tragedie personali. Cresce a Torino in un ambiente intellettuale e antifascista: continui controlli della polizia, la prigione che tocca diversi membri della sua famiglia, tra cui il padre e alcuni dei fratelli. Sono anni che sintetizzerà bene, in seguito, nel suo “Lessico famigliare” (1963)», Laura Balbo da http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/natalia-levi-ginzburg/

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La poesia è stata scritta da Natalia Ginzburg qualche mese dopo la morte del marito Leone, avvenuta il 5 febbraio 1944 a Regina Coeli, in seguito alle torture alle quali fu sottoposto dai nazi-fascisti. Fu pubblicata nel dicembre del 1944 su un numero speciale della rivista Mercurio.

Qui di seguito una lettera:

Caro Adriano,

Ti scrivo da Roma. I bambini sono con i miei genitori, a Firenze, da quando è stato assassinato Leone.

Tu, conoscendo a fondo noi e il legame che ci univa, puoi capire il senso di vuoto che provo. Vedo che, attorno a me, gli uomini continuano a vivere, comprano giornali e si procurano di che mangiare. Io sono rimasta lì, vicino al suo corpo freddo, che non mi avrebbe più dato calore, che non mi avrebbe più guardata.

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