A Pompei le donne non potevano vedere gli affreschi erotici, ma Marguerite Duras violò il divieto

di Demetrio Vittorini

Per “I grandi autori del Novecento”, Demetrio Vittorini parla di “Elio”a LaFilanda di Mendrisio, in Svizzera. Dal suo libro Un padre e un figlio. Biografia famigliare di Elio Vittorini, Paola Ciccioli ha estratto le pagine su un bel viaggio in macchina da Bocca di Magra fino a Paestum, compiuto da Elio e Demetrio Vittorini in compagnia di (tra gli altri) Marguerite Duras, il suo compagno Dionys Mascolo e Sonia Blair, vedova di George Orwell.

L’appuntamento è per domani, domenica 3 novembre, nella biblioteca LaFilanda di Mendrisio (ore 17,30).

In questa foto in cornice sullo scaffale di una libreria sono ritratti i genitori di Demetrio Vittorini: Rosa Quasimodo ed Elio Vittorini, immortalati nel 1929 a Imperia da Salvatore Quasimodo, fratello della signora Rosa. Questo scatto è stato fatto da Paola Ciccioli nella casa di Lugano del professor Vittorini, scrittore e traduttore lui stesso, studi ad Oxford e docente di italiano in varie università del mondo. Il suo “Un padre e un figlio. Biografia famigliare di Elio Vittorini” è stato pubblicato nel 2000 da Salvioni arti grafiche edizioni

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Affascinanti, illuminate, coraggiose: per prime hanno intuito che salvare significa comprendere

di Maria Elena Sini

Una nostra elaborazione della copertina di “Donne dell’anima. Le pioniere della psicoanalisi” di Isabelle Mons (Viella, 2017), traduzione a cura di Monica Miniati. Segnalato all’Associazione Donne della realtà, il libro è stato affidato da Paola Ciccioli a Maria Elena Sini che lo ha letto per noi, guidandoci con generosa curiosità nelle vite di 14 illuminate figure femminili (https://www.viella.it/libro/9788867286522)

Così come molte altre discipline scientifiche, la psicoanalisi è stata spesso percepita come qualcosa che riguarda solo gli uomini, ma il libro di Isabelle Mons “Donne dell’anima” ci dimostra che invece, sin dall’inizio, il ruolo delle donne in questa branca della medicina è stato fondamentale. Nel XX secolo, momento di grandi fermenti, quando molte donne rivendicano un impegno totale e attivo nelle associazioni femministe, le protagoniste di questo libro approfondiscono i temi che riguardano la sessualità, l’infanzia, l’inconscio, rivelando una capacità di indagine unica sulle cose dell’anima e fanno emergere una figura femminile moderna, finalmente capace di un pensiero indipendente e autonomo. È un’affermazione individuale che passa più per un saper essere che per un saper fare, dato che la loro stessa vita è un manifesto dei cambiamenti in atto.

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«sull’autostrada le fioriere/ così vicine agli occhi»

di Carlangelo Mauro*

«Al mondo si scopre solo quello che ci portiamo dentro». (Franco Fontana) foto © Franco Fontana http://www.luganophotodays.com http://www.festivaletteraturadiviaggio.it/

l’850 fiat di colore marrone

sull’autostrada le fioriere

così vicine agli occhi

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A Taranto, città in affanno che tenta di difendersi da sé stessa

di Giorgia Farace

«Molti edifici sono pericolanti. Sembra di camminare in una città bombardata, la cui unica linfa sono le voci delle persone che alcune di queste case ancora le abitano», aveva osservato Giorgia Farace quattro anni fa, di ritorno dal suo viaggio a Taranto. È di oggi – 18 giugno 2020 – la notizia che la città pugliese, il cui nome è purtroppo legato agli effetti nocivi causati alle persone e all’ambiente dalle sue acciaierie, dalla prossima settimana alle fermate dell’autobus avrà dei cartelli con indicazioni dettagliate sui preziosi reperti custoditi nel Museo archeologico nazionale di Taranto.

Una ragione in più per riproporre questo articolo di Giorgia Farace.

Ecco i pannelli che i tarantini troveranno dalla settimana prossima in 30 fermate dell’autobus: «Le foto digitali saranno collocate con sostituzione semestrale e saranno corredate di didascalie che inviteranno a prendere visione diretta all’interno del museo del singolo reperto, del quale è indicata l’esatta collocazione (sala e vetrina)» https://www.laringhiera.net/taranto-le-foto-dei-reperti-storici-alla-fermata-del-bus/

Accolta da due grandi colonne doriche, mi immagino di essere sulla soglia di scavi antichi, di echi storici, di siti archeologici. Mi ritrovo invece a scoprire una Taranto fatta di piccole vie. Dove la storia e le origini della città respirano affannosamente il poco ossigeno che resta al di sotto del cemento che ricopre la via romana. Ho visto una città vecchia (perché è così che ce l’ha definita un suo abitante: vecchia perché è lì che si è sviluppata, dai greci in poi. Non è un borgo – nucleo di case all’esterno delle mura cittadine, accezione che tentano di darle in tanti) fatta di nuove speranze. Una città vecchia dove nei secoli la storia si è stratificata su altra storia. Dove una civiltà ha ricoperto la precedente, ricostruendo palazzi, templi, chiese, strade, cunicoli, con le pietre e i materiali delle devastazioni precedenti.

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Sulla spiaggia, leggendo e ascoltando. Come in un dipinto di Amanda Russian

di Maria Elena Sini

Maria Elena, foto 1

“Beach Read”, olio di Amanda Russian. Le altre due opere della pittrice australiana che pubblichiamo sono state scelte dalla stessa autrice del post

Qualche tempo fa, mentre cercavo in Rete delle immagini che accompagnassero un mio lavoro, mi sono imbattuta in un’opera di Amanda Russian che ritraeva una donna intenta a leggere in spiaggia. L’immagine mi ha colpito e l’ho subito postata su Facebook, ma mi riproponevo sempre di approfondire le mie conoscenze sulla pittrice. In questi giorni finalmente l’ho fatto e ho scoperto che si tratta di un’artista australiana autodidatta che utilizza sia la pittura a olio che i pastelli.

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Mattone su mattone, viene su una grande discriminazione

di Gianluca Suanno*

pasticceria

All’inizio dell’anno, precisamente dal 4 al 10 gennaio 2014, ho deciso di registrare e analizzare tutte le pubblicità di giocattoli che io e i miei nipoti vedevamo trasmesse sui canali dedicati ai cartoni animati del Digitale terrestre: Boing, Cartoonito, Rai YoYo, Rai Gulp, Super!, Frisbee, K2. Ammetto che il periodo di ricerca sia stato senza dubbio limitato, ma ha alle spalle una pluriannuale visione di cartoni (e quindi di pubblicità) con i miei nipoti Continua a leggere

«Dimmi, babbo, cos’è il razzismo?»

di Tahar Ben Jelloun*

Tahar Ben Jelloun è tra gli scrittori presenti a La Milanesiana 2019 (http://www.lamilanesiana.eu/)

Il razzismo esiste ovunque vivano gli uomini. Non c’è nessun paese che possa pretendere che non ci sia razzismo in casa sua. Il razzismo è nell’uomo. È meglio saperlo e imparare a respingerlo, a rifiutarlo. Bisogna controllare la propria natura e dirsi: “Se ho paura dello straniero, anche lui avrà paura di me”. Si è sempre lo straniero di qualcuno. Imparare a vivere insieme, è questo il modo di lottare contro il razzismo.

Ma babbo, io non voglio imparare a vivere con Céline, che è cattiva, ladra e bugiarda…

– Tu esageri. È troppo per una ragazzina della tua età!

– Lei è cattiva con Abdou. Non vuole sedersi vicino a lui in classe, e dice cose spiacevoli sui negri.

– I genitori di Céline hanno dimenticato di darle una buona educazione. Forse loro stessi non sono beneducati. Ma non bisogna comportarsi con lei come fa lei con Abdou. Bisogna parlarle, spiegarle perché ha torto.

– Da sola, non ci riuscirò.

– Chiedi alla maestra di discutere del problema in classe. Sai, bambina mia, è soprattutto con i bambini che si può intervenire per correggere il modo di comportarsi. Con le persone grandi, è più difficile.

– Perché, babbo?

– Perché un bambino non nasce con il razzismo nella testa. Per lo più un bambino ripete quello che dicono i suoi parenti, più o meno prossimi. Con assoluta naturalezza un bambino gioca con gli altri bambini. Non si pone il problema se quel bambino africano è inferiore o superiore a lui. Per lui è prima di tutto un compagno di giochi. Possono andare d’accordo o litigare. È normale. Ma non ha niente a che vedere con il colore della pelle. Per contro, se i suoi genitori lo mettono in guardia contro i bambini di colore, allora, forse, si comporterà in un altro modo.

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La pittrice che smacchiava le lenzuola al sole

Monologo teatrale di Paola Ciccioli

Eleonora Ciccioli, detta Maria, nella fornace Cecchi di Colmurano

Eleonora Ciccioli, detta Maria, nella fornace Cecchi di Colmurano

Non capisco perché vi interessiate a me: io sono niente, la mia vita non ha conosciuto clamori o, come si usa tanto dire adesso, successi. Sono stata una donna povera, una donna qualsiasi. Non ho fatto niente di speciale, ho soltanto e sempre seguito il flusso di quello che mi era stato detto essere buono. E io, quand’ero giovane, l’ho accettato come buono. Anche se ogni tanto, lo confesso, avevo in testa un’idea diversa del buono, del bello, del giusto e dell’ingiusto. Adesso sono una povera vecchia, dopo essere stata per tutta la vita soltanto una povera. Ma ho indossato sempre la miseria (così la chiamavo io) come fosse un titolo onorifico.

Me ne andavo in giro fiera nel mio povero vestito, lo sguardo mai abbassato per la colpa di essere povera. Perché io sono nata in un tempo tanto lontano quando essere poveri era normale. Tutti lo erano. E se potevamo concederci il lusso di un pezzo di legna in più per un minuto di calore in più, ci sentivamo ricchi e temevamo che gli altri ci guardassero con invidia. Bisognava stare attenti a non mostrare segni di “agiatezza”. Io, per esempio. Vi ho mai raccontato…, certo che l’ho fatto.

Maria Ciccioli

Maria Ciccioli

Per la verità, lo confesso, quello che sto per dirvi l’ho ripetuto talmente tante volte nel corso dei miei anni che qualcuno, quand’ero più giovane, mi prendeva perfino un po’ in giro. O sbuffava pensando che non me ne accorgessi. Adesso che sono così vecchia – ma, per favore, chiamatemi anziana che mi piace di più – nessuno si permette di sbuffare o ridere alle mie spalle. Io dico quello che mi pare e mi diverto a pensare che chi mi ascolta sta lì zitto e muto in ossequio ai miei capelli grigi. È la mia rivincita.

Per tanto tempo ho desiderato che qualcuno sprecasse un po’ delle sue giornate con me, lasciandomi l’illusione di interessarsi davvero ai miei ricordi, che potevano uscire dalla mia bocca per ore e ore e riguardare, uno a uno, tutti gli abitanti di questo paese dove sono nata e dove aspetto di morire. Di ognuno saprei disegnarvi l’albero genealogico, elencarvi le tare di famiglia, le colpe degli antenati e, perché no, gli sgarbi commessi a me o a qualcuno che porta il mio stesso cognome. Un cognome che ho sempre, anche questo come il mio titolo di povera, indossato con fierezza, orgoglio, senso di appartenenza. Ma ho perso il filo. Cos’è che vi stavo raccontando? Ah, sì, adesso ricordo. Io ricordo tutto, è la mia condanna. Mi fanno un po’ pena quelli che dimenticano, quelli pronti a liberarsi del passato. Il mio passato è tutto quello che ho: ci mancherebbe che perdessi anche quello.

Ma davvero siete interessati a me? Cos’ho io di speciale? Anche da ragazza, non sono mai stata bella. Vedete queste mani? Queste mie mani larghe e piene di nodi sono il segno della mia fatica. Ho faticato tanto, tanto, tanto. Ho faticato più di un uomo, ero talmente forte che nessuno si stupiva a vedermi competere con i muscoli degli uomini, con le loro spavalderie.

Per tutta la mia giovinezza mi sono alzata che era ancora notte, ho pedalato per chilometri e chilometri quando la fatica di lavorare richiedeva la fatica ulteriore di sciogliere i muscoli per ore prima di arrivare al lavoro. Se ripenso alla mia giovinezza davvero non so spiegarmi dove ho potuto trovare tutta quella forza. Non ero neppure tanto religiosa, dunque non potrei dire che è stato Dio a guidarmi. Andavo in chiesa, sì, come tutti. Ai miei tempi per una donna non andare a messa era come dichiarare pubblicamente una

L’autentica di una foto con la firma del sindaco Guido Forconi

L’autentica di una foto con la firma del sindaco Guido Forconi

privata dissolutezza. Io ci andavo, dicevo le preghiere, come tutti (anzi, come tutte, perché gli uomini rimanevano sempre sulla porta della chiesa e loro potevano anche non seguire la liturgia, mettersi in ginocchio…). Anche al camposanto, quando andavo a piangere davanti alle immagini dei miei genitori, mi concentravo più sull’accostamento dei colori dei fiori che portavo, sempre freschi, sulla loro tomba piuttosto che prestare attenzione a quanto andavo ripetendo nelle litanie ed eterni riposi.

Una volta una signora, una signora vera, una istruita, che era venuta a casa mia perché voleva comprare i mobili della mia famiglia (ma io mica glieli ho veduti), questa signora una volta mi ha detto che io ero un’artista. Un’artista? E di che? Quella signora mi disse che se fossi nata in una famiglia ricca, anziché imparare a rammendare così bene, avrei imparato a dipingere e che di certo sarei diventata una pittrice famosa. Una pittrice io…, che non mi ricordo nemmeno quand’è stata la prima e forse ultima volta che ho tenuto in un mano una matita.

Il fatto è che a me non è mai piaciuto sprecare le cose, buttare via, correre subito a comprare qualcosa di nuovo, di più moderno. Adesso non ho più le forze, ma prima… Prima, è vero, ero capace di fare di tre lisi strofinacci da cucina un nuovo strofinaccio da cucina. Mettevo insieme i pezzi, sapevo usare la macchina da cucire, potevo rifinire con l’uncinetto, oppure ricamare con la lana… E poi mi piaceva tanto tenere tutto pulito, tutto ordinato. Soltanto io sapevo districarmi dentro i miei cassetti, i miei armadi, sugli scaffali, dove sistemavo, seguendo un ordine decrescente di grandezza, le tazze da latte, da tè, da caffè, con i piattini dietro, appoggiati alla parete della credenza, che aveva i vetri sempre perfettamente trasparenti.

Ho vissuto così la mia vita, a faticare e pulire. Ma sapevo anche coltivare fiori, crescere galline, preparare conserve per l’inverno, smacchiare le lenzuola al sole dell’estate. Ero sempre indaffarata, non avevo mai un minuto da sprecare. Ma tutte le donne erano come me, ai miei tempi. Solo che io sono voluta rimanere com’ero. Dicevano che ero antica, che dovevo modernizzarmi. E a me invece le cose moderne non sono mai piaciute. Ho pure buttato il televisore dalla finestra (ma forse quella volta c’erano altri motivi).

Io adesso me ne sto qui, zitta e sola. Mi chiedo perché state qui ad ascoltarmi. Da tanto tempo le donne come me non ci sono più. Mi toccava diventare così vecchia per vedere qualcuno interessato alla mia vita. Non ho fatto niente di speciale. Sono stata una povera donna, una donna povera. I miei genitori mi avevano dato un nome bellissimo e io, siccome mi sembrava troppo speciale, me ne sono data uno più semplice, un nome comune, un nome che si può anche dimenticare: Maria.

Seattle, 1 gennaio 1997

(A zia Maria, con tanto amore e tanta gratitudine)

Paola

AGGIORNATO IL 31 MAGGIO 2018