Ebe e la Vespa, una storia d’amore

di Mario Chiodetti

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Mario Chiodetti sulla “sua” Vespa. Lo ringraziamo per averci affidato questa bellissima dichiarazione d’amore nei confronti della sua “mamma in Vespa”

La prima Vespa di mia mamma fu una 125 “faro basso” del 1952, di quel verde acido metallizzato che faceva pensare a un coleottero, una grossa cetonia ronzante con un manubrio quasi da bicicletta a sostituire le antenne. L’acquistò a Gavirate, dall’Ossola, uno dei primi rivenditori Piaggio del circondario, che dopo tante Guzzi vendute si era incaponito a puntare su quella strana motoretta con le ruote come le gambe di Charlot, progettata da uno che si intendeva di aeroplani e avrebbe rivoluzionato il modo di muoversi dell’italiano nel dopoguerra.

A mamma luccicavano gli occhi quando parlava della sua prima Vespa, che noi bambini non vedemmo mai se non in qualche vecchia fotografia, perché fu venduta prima del matrimonio, come il “Galletto” di papà, che in quel 1958 già viaggiava in “Topolino”. La mamma in Vespa per noi manteneva un’aura di leggenda, conoscevamo le sue imprese dai racconti, sapevamo che si era spinta anche molto lontano da Varese, a volte era andata perfino al mare, in Liguria, facendo qualche tappa e scollinando dal Passo dei Giovi.

Chiodetti (ancora mamma)

Ebe Rosa-Brusin, giovane e deliziosa, in sella alla Vespa 125 faro basso

Con lei c’era spesso l’amica Jolanda, le univa la voglia di libertà e di emancipazione, in quegli anni ’50 di grande energia e voglia di crescere. La mamma leggeva le “Meduse” di Maugham e Daphne du Maurier, ascoltava il Duo Fasano e Achille Togliani, si faceva cucire vestitini a pois dalla Olga, lavorava alla Banca d’Italia e la domenica si metteva il caschetto di pelle e volava, a settanta l’ora, sulle strade ancora impolverate della periferia, fino a vedere il mare.

La Jolanda la conosceva dalle elementari, poi avevano frequentato le magistrali, fatto le adunate delle Piccole Italiane con flessioni e coreografie con cerchi e nastri, quindi un po’ di università: filosofia mamma, l’Isef la Jolanda, che sarebbe diventata l’incubo delle ragazze del ’68 come insegnante di ginnastica al liceo classico di Varese. L’impiego in banca però era più allettante, così la Ebe abbandonò la Statale e prese la strada del grembiule nero e degli occhiali da cat woman, allora di gran moda, e io bambino, la manina in quella nodosa di mio nonno, andavo ad aspettarla all’uscita del vasto edificio in pietra scura che pareva una cassaforte.

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Quell’avventura da inventare chiamata vecchiaia

di Angelica Mucchi Faina

Marina Capdevila, “Never too late for a first date” (https://vimeo.com/121647435) «Quello che mi piace comunicare con le mie opere è il desiderio di raggiungere la vecchiaia con piena vitalità, con gioia, vivendo senza limiti. Vivere la vita al massimo, fino alla fine», afferma l’artista catalana, nata nel 1985. A Bergamo sono in mostra alcuni suoi lavori nel Quadriportico del Sentierone per “Domina Domna”, Festival della cultura al femminile (fino al 1° maggio 2017)

Nel 2009, l’ingegner Eugenio Borghetti creò un caso e accese un certo dibattito sul Corriere della sera. Pieno di energia e in ottima forma fisica – andava in bicicletta, in palestra, insomma stava benone – scrisse una lettera al giornale in cui raccontava la sua esperienza di settantenne che voleva rendersi utile agli altri. La cosa risultò impossibile: «Volevo donare il sangue: non posso… mi rispondono che dopo i settant’anni il sangue non è più buono. Volevo lavorare sulle ambulanze: troppo anziano». Si iscrisse allora a un corso di volontari di base della Protezione civile, ottenne l’attestato e lo spedì alle varie sedi: nessuna risposta. Venne infine a sapere che per gli ultrasessantacinquenni non c’era niente, troppo vecchio per il volontariato. L’ingegnere ci rimase male: per la prima volta, a settant’anni, si era sentito «come uno che chiede l’elemosina».

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