La scoperta dell’America

di Marco Gigli

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Ecco il Gran Canyon che ha riempito di occhi di Marco Gigli, 13 anni-dicasi 13, alunno di terza media ad Ancona. In questo tema, ovviamente premiato con un tondo 10, Marco ha raccontato lo stupore della sua prima volta negli States la scorsa estate, in un viaggio avventuroso con papà Stefano, mamma Margherita (intesa come la giornalista Margherita Rinaldi) e la sorella maggiore Giulia. Le foto del post sono quelle della famiglia Gigli-Rinaldi

La California ci ha accolto calorosamente: con un bell’incendio. Durante le mie vacanze estive ho viaggiato nel sud-ovest degli Stati Uniti: Arizona, Nevada e California. La mia meta californiana era Los Angeles. Io e la mia famiglia ci volevamo arrivare con la macchina che avevamo noleggiato, percorrendo la Highway 15 e un pezzettino della Route 66, che collega Chicago a Los Angeles, cioè l’est degli Stati Uniti all’ovest. C’eravamo quasi, eravamo vicini a San Bernardino, quando mio padre dice: «Ragazzi laggiù c’è un incendio». Così abbiamo conosciuto anche i famosi incendi della California (per fortuna non i famosi terremoti, ma purtroppo il terremoto ci aspettava in Italia). Siamo finiti quasi in mezzo a uno dei più grandi incendi: 35 mila evacuati, abbiamo sentito il giorno dopo dal telegiornale. Nel giro di pochi minuti è scomparso il sole, coperto da una nube nera di fumo. Una macchina della polizia ha fatto da safety car in autostrada, ma mio padre ha subito capito che ci saremmo trovati incastrati in una coda chilometrica, così abbiamo cambiato strada, però in quella che abbiamo scelto c’erano un po’ troppe buche, allora abbiamo deciso: facciamo una sosta per il pranzo e facciamo il punto della situazione davanti alla cartina (e a un bel chili messicano).

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Emigrati italiani: «una razza inferiore»

di Salvatore Quasimodo*

Una commissione paritetica italiana si sta interessando degli emigrati nella Svizzera. Nel «giorno dell’emigrante», una conversazione tenuta alcuni giorni fa, si è parlato molto di loro. La cronaca ci ha riferito di argomenti davvero tristi. Non solo in Svizzera gli italiani sono considerati degli «estranei» – e sarebbe almeno ammissibile – ma addirittura una razza inferiore. Uomini e donne sono costretti infatti a leggi disumane e inutili. Perché la non coabitazione fra marito e moglie?

Forse la Svizzera crede di difendere così i propri confini. E decreta delle «grida» medioevali. Anche il lavoro che si può dare o non dare è un problema provvisorio, non della storia. Gli italiani in Svizzera intanto compiono i lavori più faticosi. Si parla, come al solito, di diversità di natura, di una necessaria divisione, come se si trattasse di difendere la purezza di una stirpe nobilissima. Si ripete una vicenda che è già stata vissuta in America e in altri paesi. Forse gli emigranti sono ancora degli avventurieri che tentano timidamente la vita senza avere radici sociali? L’Italia non si esprime chiaramente, parla in nome di alcuni retorici ideali di patria, ormai sconfitti dal denaro e dalla corruzione. Invece gli emigranti devono essere difesi: essi chiedono almeno un controllo umano: la loro è vita italiana che si svolge fuori dalla patria.

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Emily, il genio vestita da zitella

di Natalia Ginzburg*

Natalia Ginzburg (Palermo 1916 - Roma 1991)

Natalia Ginzburg (Palermo 1916 – Roma 1991)

Tempo fa sono stata ad Amherst, il paese della Dickinson: un paese situato non molto lontano da Boston, nel Massachusetts. Ho visto la sua casa. Ho visto anche un suo vestito in un armadio, un vestito bianco avorio a ricami, che sembrava una camicia da notte, e un plaid a lunghe frange che si metteva sulle ginocchia quando scriveva. Ma allora non conoscevo le poesie della Dickinson, né le sue lettere, e il mio sguardo era vuoto e distratto. Avevo letto alcuni suoi versi, e forse anche qualche sua lettera, ma avevo capito poco di lei. Non avevo un solo suo verso nella memoria. Amherst è un paese molto bello, tutto prati verdi, casette verniciate di bianco sparse fra le querce, fra l’edera, le magnolie e le rose. Mi parve però che avesse, nella sua grazia, qualcosa di lezioso e professorale. Dietro a questo aspetto professorale e lezioso c’era una noia desolata e spettrale. L’aspetto professorale il paese deve averlo preso dopo la morte della Dickinson, e in seguito alla coscienza d’esser la patria d’un grande poeta. Lo spettro della noia deve esserci stato sempre. Ricordo d’aver pensato che l’America è cupa e crudele nelle sue grandi città, e dove non è cupa e crudele, soggiace in una noia sterminata. Era estate e c’erano molte zanzare. Le zanzare dell’America sono diverse dalle nostre. Non hanno quel ronzio pigro e dolce, ma si avventano e sciamano sui visi umani in pieno giorno e in un protervo silenzio. Il silenzio e l’ombra della noia si stendevano a perdita d’occhio su quei prati fioriti e freschi.

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Itala Vivan, la prof che ha fatto sbarcare la 500 in America (ben prima di Marchionne)

di Itala Vivan*

Nel 2017 la mitica 500 compie sessant’anni: possiamo unirci ai festeggiamenti con un ricordo specialissimo. (Foto da: https://www.facebook.com/pg/fiat500clubitalia/photos/?ref=page_internal)

Fu nel 1961 che io andai in America in 500. E come fu? Beh, per caso. Avevo appena comperato una 500 bianca con gli ultimi spiccioli di una imprevista eredità e amavo intensamente la mia piccola stupenda vettura decapottabile, quando vinsi una borsa di studio Fulbright per andare a studiare Comparatistica in un programma di PhD negli Stati Uniti. Sebbene l’università non fosse quella che avevo chiesto – mi assegnarono all’università di Lawrence nel Kansas – decisi di accettare comunque.

L’idea di andare in America era troppo attraente, e avevo voglia di continuare a studiare. Gli amici erano entusiasti della mia avventura, anche perché a quell’epoca ben pochi andavano laggiù, e meno ancora ci andavano a studiare, soprattutto se erano squattrinati. Ma c’era un problema: che fare del “carretto” (così era stata battezzata la mia 500)? Non mi rassegnavo all’idea di disfarmene o lasciarla a casa, perché era diventata la compagna fedele delle mie gite e dei miei viaggi, il mio giocattolo preferito.

Finì che tra gli amici ve ne fu uno che trovò la soluzione, e me la fece spedire gratis a New York. Gli armatori Costa di Genova contribuirono così alla felicità di una ragazza che amava sì lo studio, ma adorava le automobili e si incuriosiva dei motori.

La 500 bianca targata Milano sbarcò prima di me sulla riva americana, e una volta scesa dalla “Leonardo da Vinci” – la nave ammiraglia italiana di quegli anni – io andai a ritirarla al deposito. Gli scaricatori del porto di Newark che mi accompagnarono non la finivano più di prendermi in giro: avevano issato la 500 su un’alta terrazza da cui dominava un esercito di immense, lussuose macchine americane luccicanti di pinne e cromature e fanali pazzeschi, e la sollevarono come fosse un bimbo piccolo, facendola dondolare, e raccomandandomi di darle spesso il biberon.

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A Ellis Island, dove i nomi della mia famiglia sono stati “abitati” da altre persone

Testo e foto di Alba L’Astorina da New York

Statua Libertà Ellis Island

Anche se può suonare strano da una napoletana come me, ma la mia visita a New York durante il periodo di Pasqua 2014 ha molto a che fare con i ricordi della mia infanzia. Il legame più importante è di certo con mio padre, che per anni ha lavorato come civile presso il Comando delle Forze Alleate del Sud Europa di Bagnoli, una delle più grandi basi NATO d’Italia. Attraverso la mensa ufficiali, dove mio padre prestava servizio, arrivavano a casa nostra i sapori e le tradizioni tipiche degli americani che frequentavano la base. Ma in questa immersione in emozioni del passato che è diventato il mio soggiorno a New York, molto c’entra anche il versante materno, con le sue storie di emigrazione da Napoli verso l’Inghilterra, prima, e l’America poi. Milano Napoli NY andata e ritorno, 16-28 aprile 2014

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