La “Gilda” del Teatro Gerolamo

di Giovanni Testori*

La Gilda del Mac Mahon è una raccolta di racconti in cui Giovanni Testori descrive la Milano delle nebbie anche umane degli Anni ’50 attraverso figure di donne ai margini. Domani e domenica pomeriggio – 19 e 20 novembre 2022 – nello scrigno milanese del Teatro Gerolamo va in scena “La Gilda”, con Laura Marinoni che cura anche l’adattamento scenico del racconto di Testori.

Foto di Paola Ciccioli

Di seguito un estratto dal capitolo “Aspetta e spera” che ha per protagonista una donna destinata dalla crudeltà familiare a restare “zitella”.

«Un po’ di pazienza e il momento buono arriverà anche per te; adesso va a posto la Maria, poi vedrai…» Lei aveva avuto pazienza, ma cos’aveva visto?

La Maria era andata a posto; dopo dieci mesi, proprio come se avesse paura di perder tempo, aveva avuto un bambino; a sentir loro esclusivamente per far felice lei, il bambino l’avevan chiamato col suo nome, anche se invece di Giovanna era stato Giovanni; le apprensioni di prima; le feste di poi; il battesimo; il latte; cresce, non cresce; «stanotte ha avuto qualche linea, ma adesso sta bene»; il primo dente spunta, non spunta; per mesi e mesi tra i muri della loro casa non s’era parlato d’altro, come se anche il padre avesse riversato tutti i suoi interessi e tutti i suoi desideri su quel robino metà bello e metà brutto, dai capelli talmente biondi che non ci voleva molto a capire come una volta fatto adulto si sarebbe stempiato e si sarebbe ridotto in piazza: tal quale il padre cui assomigliava fin nel bianco degli occhi.

Alla notizia della seconda gravidanza della sorella era così stato naturale portarlo nella loro casa, il nipote, e non più a parole, ma in in carne e ossa.

Piangeva? «Va be’, Giovanna, ma i bambini possono forse capire che a piangere dan fastidio?» Di notte non lasciava dormire? «Si abituerà, vedrai, si abituerà; è il cambiamento, solo il cambiamento…»; e intanto lei a girar nel letto tutta la notte per la fatica di trovar un po’ di pace e addormentarsi una volta che, con la grazia di Dio, il silenzio era tornato e il sonno era venuto: «uè, uè…» E tutto quello con la prospettiva di dover alzarsi alle sei, sei e mezza, vestirsi, prender i due tram e arrivar allo stabilimento prima che fischiasse la seconda sirena.

Avesse avuto almeno l’appoggio del padre con cui rinfocolar la sua rabbia e gridar finalmente in faccia alla madre, alla sorella e al cognato che era stufa, stufa marcia, una vita così non si sentiva più di farla… No, niente; da che era diventato nonno, il vecchio pareva disposto ad accettar tutto di buon grado, anche il conseguente alzarsi la mattina più stanco di quand’era andato a letto la sera. E allora?

Quanto tempo era passato da che, i mesi successivi dal matrimonio della sorella, la madre le aveva fatto quelle raccomandazioni e aveva cercato di inoculare quelle speranze? E da quel tempo quanti s’eran fatti avanti per chiederla in moglie? E lei, la madre, e la sorella, cosa avevan fatto per farle conoscere qualcuno, qualcuno che fosse pur di loro gradimento, che fosse pur bigotto e strabigotto, ma che desse anche a lei l’orgoglio e la sicurezza d’esser moglie, d’aver una casa per sé e magari, domani, un figlio suo?

Le scuse che la Maria avrebbe trovato qualora lei si fosse decisa a rinfacciarle l’indifferenza eran talmente evidenti che, a parte il fatto che lei a una simile umiliazione non sarebbe mai scesa, non valeva proprio la pena di rivolgergliele: prima la fatica per metter su casa; poi la prima gravidanza; poi il parto; poi l’allattamento; poi, neppure il tempo di tirar il fiato, la seconda gravidanza, perché il cognato, culo e camicia com’era coi preti, i figli non solo li accettava, ma li desiderava come un dono di dio, come una prova di predilezione nei suoi riguardi…

Quanto alla madre poi? Parlargliene? Rinfacciarle che per la figlia minore e per i nipoti aveva messo in disparte lei, e che in disparte continuava a lasciarla? Sarebbe stata la fine: scenate, isterismi, forse maledizioni, perché le maniere violente e i nervi la vecchia li riservava solo per lei; come se il fatto d’esser venuta al mondo così com’era venuta, e cioè brutta, forse più che brutta scipita e incolore, volesse rinfacciarlo a lei come una colpa.

Colpa, se si metteva a pensare, non era forse  di nessuno se non del destino (del padreterno; ma sì, dal momento che rabbiosa era, meglio che la rabbia l’indirizzasse contro uno oltre il quale, se non altro, non sapeva più chi trovare), il destino che fabbrica i belli e i brutti, i miseri e i signori, così, a vanvera, come se si trattasse di bambole e di biscotti; tranne che poi una deve tenersi tutta la vita così com’è e portar il peso d’esser brutta o d’esser misera sulle proprie spalle fino alla tomba, e più è brutta e più è misera e più in quella bruttezza e in quella miseria passa gli anni, e più sola diventa; sola in una maniera che, certe volte, c’era da augurarsi d’andar a letto la sera e la mattina, invece di svegliarsi, esser passati senza accorgersene dall’altra parte, quella di chi non respira più.

*La Gilda del Mac Mahon di Giovanni Testori (1959) è uno dei libri discussi dal Gruppo #ioleggomilano della Biblioteca Sicilia.

(a cura di Paola Ciccioli)

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