di Anna Politkovskaja*
Il 1° settembre del 2004 a Beslan è stato commesso un atto terroristico senza precedenti, e d’ora in poi il nome di questa cittadina dell’Ossezia del Nord sarà sinonimo di un incubo che nemmeno Hollywood è stata capace di immaginare.

Paola Ciccioli ha scritto su Facebook: «A Milano c’è un giardinetto intitolato alla giornalista russa uccisa nel 2006 con 5 colpi di pistola nell’androne di casa sua, a Mosca. Si trova proprio vicino all’ascensore che sale nella frequentatissima e scintillante piazza Gae Aulenti e ci ricorda che per fare giornalismo bisogna avere l’inclinazione a stare dalla parte sbagliata. La foto è mia».
La mattina del 1° settembre un commando internazionale di criminali ha preso in ostaggio la scuola n.1 di Beslan, chiedendo di fermare immediatamente la seconda guerra cecena. L’occupazione è avvenuta durante la linejka, la tradizionale festa di inizio anno scolastico che si celebra in tutte le scuole. È una festa a cui partecipa tutta la famiglia, genitori, nonni e zii, e soprattutto coloro che accompagnano il proprio figlio a scuola per la prima volta.
Così era stato anche quel giorno. Per questo i sequestratori avevano potuto prendere in ostaggio quasi millecinquecento persone tra alunni, madri, padri, fratelli, sorelle, maestre, figli delle maestre…
Quanto è successo in Russia tra il 1° e il 3 settembre e anche dopo, fino a oggi, non ha nulla di casuale, anzi segue una logica ineccepibile. È la quintessenza, l’apoteosi del regime di Putin, che si incentra sul potere personale, mortifica il buon senso e soffoca qualsiasi iniziativa.
Il 1° settembre, dicevamo. L’intelligence prima e le autorità poi ci informano che nella scuola ci sono «poche persone»: 354 in tutto. «Bene, vuol dire che alla fine resterete in 354», comunicano i terroristi ai loro ostaggi. Fuori, i parenti radunati attorno alla scuola urlano di non credere a quella cifra: sono più di mille, là dentro.
Nessuno li sente. Nessuno li ascolta. Cercano di arrivare fino alle alte sfere tramite i giornalisti giunti a Beslan, ma quelli continuano a riferire le stime ufficiali. Alcuni rappresentanti della stampa finiscono malmenati dai parenti degli ostaggi.
Il 1° settembre e metà del giorno successivo trascorrono in uno stato di choc e confusione inammissibili: non sono in corso trattative da parte delle autorità, in quanto il Cremlino non le ha autorizzate. Chiunque cerchi di fare qualcosa in quella direzione finisce vittima di intimidazioni, mentre coloro che i terroristi chiedono come controparte svicolano o lasciano il Paese. Si comportano da vigliacchi quando non hanno alcun diritto di farlo. Sono i presidenti dell’Inguscezia e dell’Ossezia del Nord, rispettivamente Zjazikov e Dzasochov, il consigliere di Putin per la Cecenia Aslachanov e il dottor Rošal’. Più tardi tutti avrebbero trovato una scusa, ma resta il fatto che nessuno di loro è mai entrato in quell’edificio.
Su questo sfondo di viltà i parenti degli ostaggi temono soprattutto una seconda Dubrovka, un’irruzione nella scuola con la strage che ne può seguire.
Il 2 settembre nell’edificio entra Ruslan Aušev, ex presidente dell’Inguscezia e persona invisa al Cremlino per i suoi ripetuti inviti a stabilizzare la crisi in Cecenia e ad avviare trattative di pace, e perciò costretto a lasciare ‘volontariamente’ la sua carica per cederla all’eletto del Cremlino, il generale del KGB-FSB Murat Zjazikov.
Come racconterà poi, Aušev si trova di fronte uno scenario tremendo. Scopre che, a un giorno e mezzo dall’occupazione della scuola, nessuno nel quartier generale delle «operazioni per la liberazione degli ostaggi» ha il potere di decidere chi debba entrare a trattare: attendono istruzioni dal Cremlino e temono le ire di Putin. Perché le sue ire possono equivalere alla fine di una carriera politica, e una carriera finita fa molta più paura delle sofferenze di qualche centinaio di ostaggi. Meglio perdere qualche vita umana, ché tanto si può dare la colpa ai terroristi. Perdere i favori di Putin non è solo l’anticamera dell’oblio, ma un vero e proprio suicidio.
Il nocciolo della questione è il seguente: in quei giorni, a Beslan, i rappresentanti del governo si preoccupano più di intuire che cosa voglia Putin che di contrastare quanto sta accadendo dentro la scuola. E quando Putin parla, nessuno osa contraddirlo. Aleksandr Dzasochov, per esempio, avrebbe poi riferito ad Aušev di aver ricevuto una telefonata da Putin che gli vietava categoricamente di entrare nell’edificio se non voleva finire in tribunale.
E Dzasochov era rimasto fuori. Il dottor Rošal’ aveva fatto altrettanto. Pur essendo un pediatra, decise anche lui di salvare sé stesso e non quei bambini. Un funzionario (rimasto anonimo) dell’intelligence – dirà poi Rošal’ – lo aveva convinto che i terroristi avevano fatto il suo nome solo per ucciderlo.
E anche Rošal’ restò fuori.
Le carriere erano salve, i bambini no. Il 3 settembre è ancora di là da venire, ma ormai è chiaro che la ‘verticale del potere’ fondata sul timor panico e una totale dipendenza da una sola persona (Putin, appunto) non è in grado di fare alcunché, non è in grado di salvare delle vite quando serve.
Con queste premesse, Aušev stampa da Internet una dichiarazione di Aslan Maschadov che, quale leader di quell’opposizione cecena nel cui nome i terroristi pretendono di agire, condanna senza appello il sequestro dei bambini. Con quel foglio in mano Aušev va a parlare con i terroristi. È l’unico, in quei giorni, a cercare di intavolare dei negoziati.
Per questo, in seguito, il Cremlino lo avrebbe coperto di fango e accusato di ogni possibile nefandezza, prima fra tutte le connivenza con i terroristi.
«Non hanno voluto che parlassimo in vainach» ha poi raccontato Aušev. «Anche se c’erano dei ceceni e degli ingusci. Hanno voluto che usassimo il russo. Per negoziare volevano un ministro, uno tipo Fursenko, il ministro della Pubblica Istruzione. Ma il Cremlino era contrario, e nessuno se l’è sentita di entrare».
Aušev è rimasto nella scuola per un’ora circa. Ha portato fuori, a braccia, tre neonati, e altri ventisei bambini sono usciti insieme a lui. La mattina del 3 settembre è iniziato l’attacco. Gli scontri sono proseguiti fino a notte fonda. Molti terroristi sono stati uccisi, ma molti altri sono riusciti a passare il blocco e a fuggire. Poi è cominciata la conta degli ostaggi caduti, che continua ancora oggi. Alla periferia di Beslan è stato arato un campo, che è diventato un enorme cimitero con centinaia di tombe. A tutt’oggi mancano all’appello un centinaio di ostaggi, classificati come dispersi. C’è chi dice che siano stati portati via dai terroristi in fuga. Altri pensano che siano stati inceneriti dalle cariche termobariche dei bazooka in dotazione alle squadre speciali.
(…)
*Un estratto dall’ultimo capitolo, dal titolo “Dopo Beslan”, del libro La Russia di Putin, ripubblicato da Adelphi a marzo di quest’anno dopo l’esplosione della guerra scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina (qui).
A cura di Paola Ciccioli
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