di Fabio Tracogna

Elda Bellini e il marito Luciano Sada, El Pinza, dietro il bancone dell’ osteria “al 13”, da loro gestita negli anni ’70. I loro figli Maria ed Erminio li hanno ricordati insieme con amiche, amici e tanta musica lo scorso 20 marzo nella sede della sezione ANPI Barona a Milano. Fabio Tracogna ci racconta tutte le emozioni vissute durante quel pomeriggio, lo ringraziamo. (Foto da Maria Sada)
Quando sono entrato in quella sala, quella domenica pomeriggio, mi sono sentito a casa. E pensare che non conoscevo di persona (quasi) nessuno né di quelli sul palco né, soprattutto, dei numerosissimi ospiti seduti in platea. Eppure non so il perché, ma mi sono sentito a casa e come dentro una macchina del tempo, sono tornato il ragazzo di 32 anni fa.
Vedere il Pelé, l’ultimo cantastorie di Milano (l’ha detto il Corriere della Sera, mica il sottoscritto eh…), sentire la sua voce possente e roca cantare Montagna de San Sir, ascoltare i figli del Pinza, l’Erminio e la Maria parlare del loro papà e della loro mamma Elda, che da figli di gestori di osterie “frontaliere e rivali” al Moncucco, si innamorano e “mettono su” in autonomia la prima osteria al Gratosoglio.
Ascoltare, rapito, i racconti di come furono quegli anni, di come era quella zona, una sterminata campagna e la nebbia (quella vera di un tempo), quella industriale, fatta come si deve, gli operai che uscivano dalla Cartiere Binda, dalle tintorie che producevano le stoffe per l’esercito. Sentire raccontare delle vite dei muratori saliti dal Sud, quei terron (detto con il massimo rispetto,sia ben chiaro) senza i quali Milano non sarebbe quella che è oggi, per costruire il nuovo Gratosoglio.
E in mezzo a quella umanità il Pinza e la moglie Elda che sfornavano frittata con cipolle, accompagnata da vino e liquori vari. E venire a sapere che alla Elda, se ho ben capito, non piaceva far da mangiare… E mi è parso di esser lì, dentro quell’affresco di umanità, dentro quell’arte del saper vivere e del dover sopravvivere: gli odori del cibo, del vino, l’odore del lavoro, i dialetti del nord e del sud che si mischiano, l’idea geniale di una lavatrice improvvisata per le lenzuola delle manovalanze, fatta con un fustino di detersivo (di quelli tondi, coi bordi in metallo ve li ricordate?) e la betoniera del cemento, qualcuno che decifra le lettere che scrivevano mogli rimaste al sud dei muratori immigrati che non sapevano leggere .
Poi, come in un’opera d’arte pulsante di vita, quell’osteria si trasforma in un locale che è, e resterà, un pezzo unico e prezioso nel panorama di quegli (ma anche di questi, visto che se ne parla ancora) anni: il locale comincia ad essere anche frequentato anche di sera da gente normale ma anche da personaggi dello spettacolo che cercano forse idee, ispirazioni, cercano di cogliere quello “spirito” che non viene solo dalle bottiglie stappate.
Questo crogiolo di personaggi, di storie, di musiche di canti e di racconti, è l’embrione di quella che dal 1968 diventerà la mitica La Briosca una osteria stretta e lunga, con il corridoio al centro ed i tavoli ai lati, in fondo la cucina e la cort col pergolato di glicine e l’immancabile campo da bocce.
La Briosca, il regno della Elda e del Pinza dove, recitava il biglietto da visita, “non dovete andare da lui, è tempo perso”. E quel posto, caldo, famigliare, accogliente, dove ci si trova, si mangia, si beve, si suona, si canta, ci si diverte, si sta insieme, diventa anche il volano per fare qualcosa di bene per gli altri, per gli abitanti meno abbienti del quartiere. E queste “opere di bene”, come dicevano i nostri vecchi, avranno il loro riconoscimento con la Benemerenza concessa a La Briosca dal Comune di Milano.
Mitici furono quei 4 anni, dal ’68 al ’72, se è vero che a distanza di 50 anni riempiono ancora la capiente sala dell’ANPI alla Barona e riescono a coinvolgere ancora molti giovani.
La mia macchina del tempo personale, accompagnata dai racconti e dalla musica e dalle parole delle canzoni, mi sposta in avanti di quasi 20 anni, quando sul finire degli anni ’80 ho incontrato il Pelé nella Gajnoteca di Vaiano Valle; solo ora mi rendo conto di quanto io sia stato fortunato. Rivederlo lì, insieme agli altri artisti e personaggi di quegli anni, sentire di nuovo quelle canzoni, quello spirito (Can you feel the spirit? direbbe il mio idolo Springsteen) che ancora pulsa e vive mi dà il senso del tempo; di quello che passa, certo, ma anche del tempo che resta, del tempo che ci resta, ed alla storia che noi, fortunati testimoni, non dobbiamo, non possiamo, non vogliamo dimenticare.
Di quel “tempo perso” di cui, guarda caso, parlava il biglietto da visita della Briosca, di quel tempo che non fu mai perso, ma vissuto, speso, goduto fino all’ultimo secondo.
E questo anche se oggi i Navigli sono cambiati, se non profumano più di frittata alla cipolla e di vino rosso, anche se da quei portoni non si sentono più suonare le chitarre e cantare le canzoni nel nostro dialetto, anche se i locali di un tempo sono stati trasformati dalla speculazione effimera, diventando come li definisco io solo un divertimentificio o un mangificio anonimo e senz’anima o meglio, proprio per questo motivo, non dobbiamo dimenticare questa e le altre storie di quella che è stata la Storia di Milano, la nostra storia.
Questo era il Pinza,
titolare di un locale diverso,
dove le serate non erano mai tempo perso.
Video di Fabio Tracogna
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