di Giovanni Grazzini
Salutiamo Lina Wertmüller, il suo cinema, la sua vita che si è fermata ieri – 9 dicembre 2021 – all’età di 93 anni a Roma. Pensiamo che il modo più giusto per rendere omaggio alla regista e sceneggiatrice Premio Oscar alla carriera sia quello di tornare idealmente insieme a rivedere un suo film, e quello che abbiamo scelto è Film d’amore e d’anarchia, inserito dal critico cinematografico Giovanni Grazzini nel libro Gli anni Settanta in cento film (Laterza). Questa recensione, apparsa inizialmente sul “Corriere della sera”, è datata 23 febbraio 1973.
Reduce dai trionfi di Mimì metallurgico, la regista Lina Wertmüller, pugliese di Roma con radici in Svizzera, tenta il bis con la stessa coppia di protagonisti e un’analoga vena di allegria, ma con in più una punta d’amaro che dovrebbe correggere gli umori ironici di fondo e alzare il tono dal buffo al malinconico.
Stavolta siamo nell’Italia dei primi anni Trenta, quando il fascismo ha ancora paura dei «sovversivi» e gli squadristi sognano di tornare a menar le mani. Un contadino lombardo, Tunin, grosso di scarpe e di cervello, che ha visto uccidere un vecchio amico anarchico dai poliziotti, viene a Roma con l’intenzione di vendicarlo sparando a Mussolini, e fa base in un postribolo di lusso, dove esercita la sgualdrina Salomè, un’anarchica convinta e combattiva che festosamente lo accoglie e lo ristora. Benché rintronato dalle sguaiataggini dell’ambiente, Tunin non si lascia distrarre troppo dal pensiero dell’imminente attentato, almeno finché, fulmine a ciel sereno, non s’accorge della Tripolina, napoletana di sguardo dolce e tenero cuore.
I due s’innamorano di colpo, e cominciano a pensare al futuro. A Tunin, che teme di avere poche ore da vivere, basta trascorrere due interi giorni d’amore con lei, quelli prima del gran gesto, ma la Tripolina, presto al corrente delle intenzioni omicide di lui, ha progetti a più lunga scadenza: della politica nulla le importa, ma molto che l’uomo le sia conservato. Perciò accade che il giorno fatale la tripolina si rifiuta di destare per tempo Tunin, sfinito dai suoi abbracci, e che nemmeno Salomè un po’ convinta di avere a che fare con un anarchico di pasta frolla, un po’ commossa dalle ragioni del cuore, ha il coraggio di richiamarlo all’ordine. Quando si sveglia, Tunin si sente tradito, e perde il ben dell’intelletto: spara sui carabinieri e finisce in galera, nelle mani di quel capo degli agenti segreti, ferocissimo gerarca, cui Salomè aveva strappato preziose confidenze. Pestato dai suoi sgherri, il poveraccio morirà senza gloria, e la stampa dovrà parlare di suicidio.
Film d’amore e d’anarchia è uno spettacolo di scarsa polpa ma di buccia assai attraente. Lasciamo perdere se quel tentativo di intendere l’amore come recupero di tutti i sentimenti, anche della paura, in contrapposizione al fanatismo, sia una polemica femminilmente controideologica: come il giudizio della Wertmüller sulla figura del protagonista oscilla fra la presa di bavero e l’affettuosa pietà, così la posizione del film nei confronti dell’anarchia è affidata a una frase ambigua di Malatesta citata in chiusura, incerta fra la condanna dei delitti politici e l’esaltazione dell’idealismo che guiderebbe gli attentatori. La maggiore carenza del film sta nella sua intrinseca povertà di racconto dietro una facciata sfarzosa, e nel debole sviluppo dei caratteri: vizi tutti derivati dal sovraccarico di colore.
Già incline al bozzetto in Mimì metallurgico, ora la Wertmüller spinge fino in fondo il pedale del pittoresco, così insidioso quando si colloca un racconto in un bordello e si fa leva su un coro pluridialettale. Ne risulta oltreché un dialogo comprensibile soltanto per metà, una commedia la quale ha più mordente comico che satirico, varie parentesi dispersive e quasi nessun impatto storico-critico oltre la cornice, ma a cui va fatto un inchino appena si guardi ai valori descrittivi.
Memore di un certo Bolognini e del Conformista di Bertolucci, per questo verso la Wertmüller ha compiuto insieme al marito Enrico Job, e al fotografo Giuseppe Rotunno un’opera di riesumazione figurativa degna di elogio. Non soltanto i signori sui sessanta, soprattutto se letterati, che venerano il mito delle case chiuse; chiunque abbia gusto per la storia del costume sarà catturato dall’aria del tempo che circola nel film, e dal riuscito impasto di triviale e grottesco con cui sono dipinte le figure dello sfondo, e massimamente quel fascista Spatoletti, nostalgico del manganello, che raffigura assai bene l’anima plebea e i modi prepotenti del regime.
Anche il disegno dei protagonisti, sebbene meno incisivo di quanto sarebbe occorso, è peraltro condotto simpaticamente. La balordaggine di Tunin, il piglio romagnolo di Salomè, la calda passione della Tripolina sono detti con mano estrosa, che sa cavarne echi arguti e sentimentali. Né va trascurato l’aspetto più squisitamente stilistico del film. La Wertmüller resta in superficie ma ormai ha un linguaggio immediato, svelto e icastico, che si sfoga soprattutto nei ritmi concitati e talvolta frastorna, ma che anche giova alla piccante baldoria dell’insieme.
Senz’altro all’attivo è da mettere l’interpretazione. Non soltanto di Giancarlo Giannini e di Mariangela Melato, che tornano felicemente a far coppia (lui vittima candida e goffa, lei spigliata biondaccia alla Jean Harlow) e i cui meriti sono ormai ben saputi, ma anche dei nuovi arrivati Lina Polito, la Tripolina, ed Eros Pagni, Spatoletti, a loro agio, soprattutto la prima, in non facili ruoli. Sicché, a conti fatti, il bilancio del film è sufficiente a garantirgli i favori popolari: certi pezzi di bravura nella messinscena e la caricatura offerta da Giannini lasciano il segno, con buona pace degli spettatori più esigenti.
(a cura di Paola Ciccioli)
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attrici, attori, registi e storie appassionate. Che bel cinema abbiamo avuto ! ❤
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