di Gino Strada
«In questi giorni così dolorosi, il vostro affetto per Gino ci ha fatto sentire meno soli. In tantissimi siete passati da Casa Emergency, ci avete scritto, chiamato, lasciato un messaggio. Grazie. Ora spetta a tutti noi rimboccarci le maniche, portare avanti l’eredità di Gino e imparare a guardare lontano, come faceva lui. Ce la metteremo tutta. Te lo promettiamo, Gino». Con queste parole, Emergency ha iniziato oggi – 24 agosto 2021 – la sua seconda vita dopo la scomparsa del suo fondatore Gino Strada, morto il 13 agosto a Honfleur, in Francia, all’età di 73 anni. Dopo averlo salutato nella sua Casa milanese, ora gli rendiamo omaggio qui con un brano dal suo libro Pappagalli verdi, uscito nella prima edizione Feltrinelli nel 1999, cinque anni dopo la nascita di Life Support for Civilian War Victims, conosciuta in Italia e nel mondo come Emergency.

Milano, via Santa Croce la sera del 21 agosto 2021, poco prima della fine del primo dei tre giorni in cui una vera e propria folla ha sfilato dentro Casa Emergency per salutare Gino Strada. Anche Luca Bartolommei e Paola Ciccioli (autrice dello scatto) hanno reso omaggio al chirurgo di guerra scomparso
Riavvolgo il nastro per la terza volta e la musica riprende. Non mi stancherei mai di stare sdraiato sul letto ad ascoltare Animals dei Pink Floyd.
È per me uno degli album più coinvolgenti e sconvolgenti, quella musica piena di dissonanze, di ritmo che cambia ogni momento, di provocazioni. Ogni volta che mi adatto a quella musica, che comincio a capirla e a goderla, il ritmo cambia all’improvviso, e ricomincia diverso.
Mi sento indagare dentro da quei suoni spietati, come se strappassero la tendina dell’inconscio, se rompessero tutte le barriere e protezioni, per metterti davanti a quello che sei, anzi per mettermi davanti a quello che sono. Così i Pink Floyd mi forzano a pensare, a percorrere sensazioni sempre ricacciate indietro perché mi hanno sempre fatto paura.
Cosa direbbe di me mio padre, se mi vedesse qui sul confine del Pakistan? Come mai mi è venuto in mente mio padre. È morto più di vent’anni fa, quando ero ancora un ragazzo. Sarà perché oggi sono stato al bazar e ho visto tante biciclette…
Mio padre era sempre in bicicletta. Tornava dal lavoro con la sua tuta blu sporca di grasso, e pedalava veloce. Io lo seguivo di corsa finché la bici finiva in una rastrelliera giù nel cortile e io potevo stringermi ai suoi calzoni.
Non so perché la tuta da lavoro, nel dialetto di Milano, si chiamasse “il toni”, mi piaceva l’odore del grasso e dell’olio dei motori.
Mi portava con sé, e io facevo gracchiare il campanello, seduto un po’ scomodo sul tubo nero di quella bici pesante, mentre andavamo per i sentieri della periferia di Sesto San Giovanni.
I sentieri della memoria, dei giorni che ho percorso con quell’uomo straordinario, operaio che sapeva far tutto con le sue grandi mani, che ha fabbricato tutti i miei giocattoli di legno, compreso il fortino dei soldati con la casetta del comando e la stalla.
Autodidatta colto e raffinato, che amava l’opera e mi teneva in braccio cantando con voce da baritono e faccia scura “Quell’uom dal fiero aspetto…“. E io che scoppiavo a piangere. Come mi commuovono ora quelle chitarre acustiche dal timbro altissimo, quella batteria che sembra scandire l’arrivo del giudizio universale…
Anni dopo mio padre avrebbe usato la stessa bici per venire a vedermi giocare al pallone. Poi, quando si è ammalato, l’ho usata io la sua bicicletta, per i primi appuntamenti con quella che sarebbe diventata la mia compagna nella vita.
L’ho usata finché mio padre è morto, poi non l’ho più toccata. L’ho lasciata lì a morire anche lei, di ruggine, in quella rastrelliera in cortile.
E non sono scoppiato a piangere quella volta, perché sapevo che sarebbe stato un pianto senza fine e non potevo, non volevo permettermelo.
Cosa direbbe di me mio padre, a vedermi così lontano da casa? Anche lui se ne è andato presto, dannatamente troppo presto per me. Ma lui non l’ha mai voluto, semplicemente non ha avuto scelta.
Io invece potrei farne a meno, potrei essere a casa con Teresa, e con Cecilia, a portare la mia bambina in bicicletta. Perché, invece, mi trovo lì, in quella stanza fredda del Baluchistan?
Il lavoro. Quello strano impulso di affermarsi che, come dice Teresa, “è così essenziale per voi uomini”. Il lavoro prima di tutto, prima degli affetti, della famiglia, il lavoro come mezzo di autorealizzazione.
Ma no, non è così. È che qui sto facendo qualcosa di utile, che mette d’accordo la mia professione con la mia opinione sulla vita e le sue vicende. Voglio credere che sia così.
In fondo sono le stesse idee, quelle che mi facevano sfilare in cento cortei nel Sessantotto e che ora mi hanno portato nel Baluchistan. Idee di solidarietà, consapevolezza di essere in qualche modo in debito, ciascuno di noi, verso i più sventurati della terra.
E qui ce ne sono tanti, che si ritrovano mutilati, o con una scheggia di bomba in pancia, senza colpa.
Molti di loro non sopravvivono, non riescono a sopportare il lungo viaggio sulle montagne, a dorso di mulo, qualche volta stesi su un carretto. Arrivano sporchi e sfiniti al nostro ospedale, con il turbante e la barba pieni di terra, i vestiti stracciati e incrostati di sangue… È giusto che ci sia qualcuno ad aspettarli, è umano.
(a cura di Paola Ciccioli)
#donnedellarealtà